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Intervista a Federico Fellini

Pubblichiamo, per gentile concessione, l’intervista di Renato Pallavicini a Federico Fellini uscita su l’Unità, il 26 luglio 1992. Si tratta di una delle ultime interviste rilasciate dal regista, di particolare interesse per Fumettologica dal momento che Fellini racconta il suo amore e la sua passione per i fumetti, a partire dalle prime letture del Corriere dei Piccoli fino alla collaborazione con Milo Manara. Fu Vincenzo Mollica, ci ha spiegato Pallavicini, a favorire questa intervista, convocandolo di corsa in un ristorante del quartiere Prati (Roma) dove il maestro stava pranzando con alcuni amici e collaboratori. Quanto segue è la trascrizione completa del testo pubblicato in quell’estate di più di vent’anni fa.  

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Federico Fellini. Disegno di Milo Manara.

ROMA. Siamo appena scampati dal torrido sole del primo pomeriggio romano. L’ancora di salvezza ce l’ha fornita l’accogliente casa di un amico. Fellini è un po’ affaticato dal caldo e si concede qualche istante di riposo, abbandonato su una poltrona. Poi, con l’aiuto di un ventilatore che ronza come un aeroplano e complici le tapparelle abbassate, si rinfranca subito. «Mi chieda tutto quello che vuole», dice il regista. E noi gli chiediamo soltanto di raccontare il suo amore per il cinema e per il fumetto. Andrà avanti per più di un’ora, senza interruzioni se non quelle consentite a nostre piccole domande, a modesti inviti ad indirizzare la rotta in qualche angolo meno conosciuto. Il viaggio di F. Fellini detto Fumetto può iniziare.

«Il mio amore per il fumetto si perde nella notte dei tempi. È stato il primo contatto con un mondo immaginato che si esprimeva con le matite, con le penne, con i colori, qualche cosa che non aveva a che fare con la scuola, con la chiesa, con la famiglia. Mi ricordo che una data festosa della settimana era proprio la domenica, quando papà, tornando dalla stazione dove c’era l’edicola più fornita di Rimini, ci portava il Corriere dei Piccoli. Anche i personaggi di quel foglio colorato non avevano niente a che fare con il mondo che ci circondava: con la cameriera che stava in casa, col nonno malato, col vicino. Però erano altrettanto veri del bidello o dell’arciprete. Tanto che, alle persone reali poi, affibbiavamo proprio i soprannomi di quei personaggi. Cosi l’arciprete diventava Padron Ciccio, quello che aveva una mula cattivissima, la Checca, che stampava i ferri da cavallo nel sedere di chi scalciava. Oppure il vicino di casa, che mia mamma sapendolo un po’ scapestrato, tiratardi e qualche volta un po’ alticcio, aveva chiamato Arcibaldo, come il personaggio creato da Geo McManus. Lui si arrabbiava molto e noi ragazzini gli correvamo appresso per sfotterlo gridandogli «Arcibaldo, Arcibaldo!»

«Il fumetto – continua Fellini – ha rappresentato nella psicologia e nell’immaginazione di intere generazioni il contatto con la fantasia, il sorriso, l’allegria. Ma anche un aiuto, un conforto a quel tanto di obbligato che rendeva la vita di noi ragazzetti, piuttosto pesante, mal digeribile: la scuola, la palestra, le processioni, la messa alla domenica. Quindi una funzione straordinaria non solo per la formazione della fantasia, ma anche un aiuto psicologico come potevano darlo la letteratura, la poesia o l’arte. Il fumetto, tradotto nella dimensione dell’infanzia ha avuto il merito, dunque, di irrobustire l’immaginazione e di favorire un dicorso critico verso gli adulti con l’aiuto dello scherzo e dell’ironia».

Quei fumetti e quei personaggi. Federico Fellini li ricorda ad uno ad uno, ci aggiunge Fortunello e Felix the Cat di Sullivan, in Italia diventato Mio Miao, Bibì e Bibò e Capitan Cocoricò di Rudolph Dirks. «È un ricordo fatto di gratitudine – dice il regista – e devo a questa visione caricaturale la mia formazione, la mia inclinazione,un modo di vedere le cose che, a parte una propensione naturale a cogliere gli aspetti buffi delle persone, sono stati favoriti dalle tavole del Corriere dei Piccoli. Quelle pagine le mettevo sul vetro e in controluce tentavo di ricopiarle, lo facevamo tutti. Mi affascinava il modo, tipico del fumetto, di inquadrare le immagini in una cornice, la sua scansione narrativa, il salto di immagine da un quadretto all’altro, l’affidare al lettore il compito di colmare i vuoti, di rendere dinamica la staticità. Penso che il cinema, specialmente il primo cinema muto, quello delle comiche di Chaplin, Harry Langdon. Buster Keaton, Fatty, Max Linder, Ben Turpin debba molto ai fumetti. Penso a certe tavole di Krazy Kat di Harriman. In fondo quei primi film sono dei fumetti animati, e tutto si richiama alla tecnica del fumetto: dalle prospettive, al taglio dell’inquadratura, quel taglio particolare che si ferma alla caviglia e che prese il nome di “piano americano”. Quando ho scoperto il cinema, qualche anno più tardi, scoprii che le comiche mute erano la continuazione delle strips che leggevo sul Corriere dei Piccoli. Sì, posso dire che quella è stata la cultura di cui mi sono nutrito e che il mio cinema non nasce dal cinema. Se ha dei debiti di gratitudine o deve riconoscere delle matrici, le identificherei proprio nelle strisce americane. In alcuni miei film, non i primi, ho tenuto presente lo stile, l’atmosfera, la dinamica bloccata nella rigidità, tipici del fumetto. Amarcord, per esempio, non è solo un omaggio all’infanzia, ma anche al mondo dei fumetti: è un film stilizzato, con inquadrature fisse, pochi movimenti di macchina».

Il bambino e ragazzo Fellini, la sua Infanzia, la consuma tra le pagine del Corrierino e le decine di fogli scarabocchiati. «Passavo intere giornate a riempire quaderni, con la lingua tra i denti, pasticciando con pastelli e colori. Ho sempre invidiato i madonnari, non tanto perchè vedevo che sul fazzoletto tenuto fermo da quattro pietre si ammucchiavano un sacco di soldi, ma perché potevano star seduti per terra, sporchi, senza rimproveri di nessuno, anzi, guardati con ammirazione. Anche adesso mi è più facile comunicare con i miei collaboratori disegnando scarabocchietti, esprimere i miei desideri fornendo piccoli identikit al truccatore o al costumista. Preferisco disegnare con foto, stoffa, pezzi di legno, già ambientando i set. Non perdere troppo tempo a scrivere. È un modo di fare che difficilmente viene accettato dai produttori, ma la mia tendenza è sempre più questa: prima inventare e poi vedere come si muove, farlo muovere. Tanto, poi, se il film lo devo fare io, è inutile scrivere una scena se non so chi la abiterà».

Lui insiste nel dire di non essere un disegnatore, di imbastire soltanto delle piccole story- board personali Ma andatevi a guardare le sue vignette apparse sul Marc’Aurelio, i suoi personaggio buffi ed ironici. L’apprendistato per il cinema, ancora una volta, dopo quello della memoria legata all’infanzia,passa sempre dalle parti del disegno e del fumetto. «Finito il liceo – ricorda il regista – già a Rimini collaboravo con disegnetti alla Domenica del Corriere e ad alcuni giornaletti locali. Ma soprattutto, come tanti, ero affascinato dal Marc’Aurelio che arrivava il mercoledì e il sabato a Rimini. Era un giornale contestatissimo dal prete. Mi ricordo che una volta, durante il sermone domenicale, tirò fuon dal pulpito, come un prestigiatore, un foglio che era poi il Marc’Aurelio e disse con voce grave: “So che si continua a leggere questo giornalaccio. Adesso vi faccio vedere io che che cosa si deve fare”. Ci fu un momento di sospensione perché non si capiva bene che cosa volesse mostrarci. Poi. Don Balosa (in realtà si chiamava Baravelli, ma lo chiamavamo Don Balosa. che in romagnolo vuol dire castagna bollita, per via delle sue guancione color seppia) lo strappò con le sue grandi manone. E, dopo un lungo silenzio, ne fece una gran palla che, cosa insolita per un prete sul pulpito, colpì con un pugno e fece rotolare tra i banchi».

«Io al Marc’Aurelio cominciai a collaborare quando venni a Roma, nel 1938. Fu la prima tappa: segretario di redazione e poi redattore. Era un settimanale molto popolare, anche un po’ fastidioso per il regime fascista. Non una vera e propria fronda, ma una sottile contestazione. Ricordo che ogni settimana il direttore veniva convocato al Minculpop e, quando tornava, ci chiamava tutti a rapporto, leggendoci i commenti raccolti: una cosa era dispiaciuta a Starace, un’altra a Pavolini, un’altra ancora aveva fatto addirittura incazzare il Duce. E noi, lì in piedi, che non si capiva se saremmo stati licenziati o peggio. Ma in quella redazione c’erano anche degli antifascisti, come Tommaso Smith, che sarebbe diventato poi il direttore di Paese Sera; e alcuni redattori che venivano da un altro famoso foglio satirico, il Becco Giallo, come Galantara che fu minacciato di essere mandato al confino. Io, allora, non capivo neanche che si potesse contestare Mussolini. Me lo ritrovavo sui quaderni di scuola dall’età di 10 anni: c’erano le immagini di Gesù, del Papa, del Re e di Mussolini, sembrava un personaggio immortale. Stavo lì attratto soprattutto dai disegnatori: Mosca, il grande Attalo, Merz, Guareschi. Il Marc’Aurelio è stato una scuola, un seminrio, una fucina straordinana anche per il cinema. Ci lavoravano Steno, Scola, Marchesi; moltissimi sceneggiatori e registi».

Il ventilatore continua a ronzare ed il volo di Fellini, come quello del suo Mastorna tocca terre insolite ed incontra vecchi amici, dal grande disegnatore Moebius («un Dorè del nostro secolo» lo definisce Fellini) agli autori argentini. Ma poi torna nelle terre a lui più congeniali, quelle del comico e dell’ironia. Ecco allora Jacovitti. Altan o Staino («bravissimo, personale, dal tratto immediatamente individuabile») o, ancora, l’argentino Carlos Nine col suo mondo «ectoplasmatico, pieno di fantasmi inquietanti ». E poi Manara. «Di Milo – dice Fellini – avevo letto Lo scimmiotto (è una delle prime storie di Manara, ripubblicata di recente da Rizzoli, ndr) e poi, naturalmente, mi piacevano le sue donnine, la visione gioiosa del sesso, la classe del suo segno. Lui fu incaricato dal Corriere della Sera di illustrare il Viaggio a Tulum, un mio vecchio progetto di film, poi rimosso. Per allontanarlo definitivamente da me accettai l’invito a pubblicarne il soggetto a puntate sul Corriere. Manara lo illustrò con alcune tavole, molto belle. Gli scrissi per complimentarmi con lui e poi, con il tramite di Vincenzo Mollica, lo incontrai a Roma. Fu allora che mi propose di farne una storia a fumetti».

Un libro, Viaggio a Tulum, pubblicato in mezzo mondo e di grande successo. E adesso un altro viaggio, sempre con Manara. «Il viaggio di G. Mastorna – racconta Federico Fellini – stava lì da troppo tempo, un fantasmone minaccioso e ingombrante Un film da fare nel 1966 (c’erano già le costruzioni negli studi De laurentiis sulla Pontina) e mai fatto, anche se poi, nei miei film, dal Satyricon in avanti, c’è sempre un po’ di Mastorna, come un’inarrestabile forza radioattiva, un fluido mastorniano che aleggia qua e là. Ho cambiato la struttura della sceneggiatura, tipicamente cinematografica, adattandola ad un racconto per immagini fisse; ho stemperato certi toni tesi e inquietanti; ho dovuto cambiare il personaggio, da violoncellista a clown musicale; e anche un po’ il titolo. Ci ho aggiunto quel “detto Fernet” perché tutti i clown, specialmente quelli francesi, avevano un soprannome che derivava da un liquore: porto, rum, cognac, anisette. Il protagonista del film, all’inizio, doveva avere le fattezze di Ronald Coiman, un attore elegante, aristocratico, malinconico e pensoso. Ma nel frattempo era morto e pensai a Laurence Olivier, poi a Gassman e ad altri Li contattavo, ci scrivevamo o incontravamo: credo di aver deluso tutti gli attori del mondo e di aver fatto tutto quello che si poteva fare per meritarmi la fama di bugiardo. L’unico che restava lì ad aspettare era Marcello Mastroianni: stava lì col suo sorrisetto sardonico e sembrava dirmi, “Ma dove vai, lo sai che alla fine qui c’è il vecchio Snàporaz che ti aspetta”. E invece, alla fine, anche per staccarmi un tantino dal cliché (in Viaggio a Tulum il protagonista è proprio Mastroianni), per il fumetto scelsi la faccia di Villaggio. Gli toglie quel tanto di kafkiano, di fiaba gotica e gli dà un senso più concreto, buffonesco, attenuando i toni metafisici».

Adesso che è un’opera compiuta, forse il Mastorna farà gola a qualche produttore e magari, stavolta, se ne farà davvero un film. «Non credo – dice un po’ sconsolato il regista – ormai è già fatto, consumato; forse potrei cedere i diritti, c’è una story-board perfetta. Il nome di Mastorna da dove viene? Dall’elenco telefonico milanese. Ero con Dino Buzzati che allora partecipava alla sceneggialura e lui mi disse che bisognava scegliere un nome per far coagulare la storia Spesso il nome di un personaggio o il titolo di una storia, se sono quelli giusti, possono contenere il racconto stesso. Cosi Buzzati apri l’elenco del telefono a caso e scelse Mastorna».

Fumetto allora e non più cinema, sembrerebbe «Non so – si chiede perplesso Fellini – il cinema diventa sempre più un’ impresa che appartiene al passato. E siccome mi piace lavorare, fantasticare, raccontare storie ho voluto provare questa esperienza. Comunque cinema e fumetto, anche se strettamente legati sono diversi: un film ti succhia dentro, ti impedisce di pensare, un fumetto è come un arresto di tempo, un po’ spettrale, da seduta spiritica Vuole un altro rapporto con il lettore, usa un altro modo d’incantamento che ha il fascino mortuario dell’immobilità. Ecco perché i film tratti dai fumetti non riescono mai. No, fumetto e cinema sono due degustazioni inconciliabili».

Intanto, in attesa del sospirato film sull’attore, una sorta di block-notes di un regista («aspetto garanzie certe e non avventure, ma spero che in questa settimana, prima di andarmene in vacanza con Giulietta, si coaguli qualcosa»); o in attesa dell’altro suo progetto su Venezia («un ritratto di città a cui sembra interessata la Fondazione Agnelli, ma sta a me trovare la voglia di andareavanti»), il Maestro si dedica agli spot. Un ripensamento rispetto alla sua battaglia contro l’invadenza pubblicitana? «No, no – si scalda Fellini – io la penso sempre allo stesso modo, che cosa mi avrebbe dovuto far cambiare. Considero l’interruzione di un film o di qualunque opera, un atto di arroganza brutale, insopportabile. Una manomissione, una violazione grave della libertà di quella persona a cui ti devi rivolgere seducendola e invece poi la prendi a schiaffi. Sono contro gli spot usati in questo modo, ma lo spot di per sé è un’esperienza che ti consente di raccontare una storia in poco tempo, di suggerire sviluppi aperti per la fantasia dello spettatore. Fino ad oggi ne ho fatti pochi: uno per la Barilla, uno per il Campari e adesso questi tre per la Banca di Roma (ancora con un Villaggio protagonista), ma se me ne offrissero…».

Il lungo viaggio e l’intervista volgono al termine. C’è appena il tempo per una domanda di tragica attualità sugli avvenimenti che hanno insanguinato la Sicilia ed il nostro Paese. «Che impressione vuole che abbia? Quella che hanno tutti di essere arrivati a un punto tale di disordine, confusione, smarrimento, per cui mi sembra che continuare a incolpare questo o quello corrisponda un po’ rimuovere il fatto che siamo tutti reposnsabili. No, non è un atteggiamento genericamente moralistico, ma è la natura degli italiani ad essere così: eterni adolescenti, tenuti in questo stato dalle varie chiese e dai poteri, per cui la responsabilità è sempre degli altri, e ci rifiutiamo di ammettere che cambiare dipende da noi. Sì, lo so – conclude Fellini -sono frasi generiche e ovvie, però mi pare di essere obbligato a confessare che anch’io sono un po’ colpevole, tollero, rimuovo, passo sopra, tendo a dimenticare, voglio star comodo. D’altra parte, chi non vuole star comodo».

Vai al nostro articolo “Federico Fellini, fumettista”.

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