Una delle principali ossessioni narrative di Jacques Tardi (il cui Io René Tardi, prigioniero di guerra allo Stalag IIB esce oggi nelle librerie, per Coconino Press) è la Prima Guerra Mondiale. Ovvero, la prima guerra moderna scevra dei mascheramenti ideologici che le guerre avevano prima (secessione americana e indipendenze europee varie) e che avranno in seguito. In questo senso è una guerra totale, la prima fatta per fare – tayloristicamente ed esclusivamente – la guerra.
Il primo di luglio del 1913 dalla Torre Eiffel veniva inviato, grazie al radiotelegrafo, il primo segnale orario mondiale. Iniziava l’era della simultaneità: tutto, finalmente, poteva essere sincronizzato. Questa nuova interpretazione del tempo fu tra le innovazioni tecnologiche che permisero di gestire la Grande Guerra, appunto, come una sincronizzata catena di montaggio per produrre guerra. Ai soldati, infatti, veniva distribuita dai comandi una bellissima innovazione tecnologica: orologi da polso predisposti tutti con lo stesso orario. Gli assalti erano perfettamente simultanei e sequenzializzati.
Jacques Tardi, la Prima Guerra Mondiale l’ha raccontata, attraverso il suo sguardo radicale, in una serie di fumetti imprescindibili. A partire dal 1974, con La Véritable Histoire du soldat inconnu passando per C’etait la guerre des tranchées del 1993 (l’unico che si può leggere in italiano grazie alla recente edizione di Edizioni BD) e un’altra manciata di gioielli quali Le Der des Ders del 1997, Varlot soldat del 1999, fino al recente Putain de guerre pubblicato in due volumi tra il 2008 e il 2009. Due sono gli elementi fondamentali della sua poetica in queste opere: una questione tecnica e una ideologica.
La questione tecnica: tutta l’opera di Tardi è impregnata della sua riflessione teorica sulla modalità di rappresentazione del tempo nel fumetto. Il fumetto secondo Tardi (contrariamente a quanto affermava Will Eisner) funziona per unità discrete: rappresenta il tempo attraverso il cambiamento già avvenuto, e non attraverso la sequenza nel suo realizzarsi. Raccontare una guerra così tayloristicamente sequenzializzata come la Prima Guerra Mondiale, con un mezzo inadatto come il fumetto, è una fondamentale palestra di invenzione pratica per risolvere questioni teoriche.
La questione ideologica: è ovvio, data la sua natura, che raccontare proprio questa guerra rende la critica antimilitarista e pacifista di Tardi ancora, se possibile, più radicale e totale. Forse, oserei dire, anche troppo facile.
Appunto. A Tardi non sfugge, e ce lo ha raccontato nella saga di Adele Blanc-Sec, che la guerra non è un epifenomeno – alla Fernand Braudel – con conseguenze limitate alle realtà sociali che la producono; quanto piuttosto un elemento fondamentale dei cambiamenti sociali, economici, culturali e psicologici delle società che la producono. Il modo in cui la Grande Guerra ha modellato il mondo moderno, ha reso inevitabile che ci fosse un secondo conflitto, al contempo prosecuzione e superamento di quegli sviluppi sociali causati dal primo. Non stupisce quindi che Tardi, mettendo in discussione e sviluppando la propria poetica, incentri il suo ultimo lavoro sulla Seconda Guerra Mondiale.
Il nuovo fumetto racconta, sulla base delle sue memorie autografe, le battaglie, la resa e la prigionia di René Tardi, padre dell’autore, durante il Secondo conflitto mondiale. A qualcuno potrebbe venire in mente di fare paragoni e accostamenti con il Maus di Art Spiegelman. Ma l’attinenza si fermerebbe lì, alle memorie paterne. Tardi arriva al racconto sulla Seconda Guerra Mondiale attraverso, è vero, un percorso biografico (dall’interesse per la Grande Guerra suscitatogli – come racconta in una lunga e bella intervista raccolta da Numa Sadoul – dalla figura taciturna del nonno che l’aveva combattuta, fino alla sfida narrativa della Seconda Guerra Mondiale, nata dai racconti del padre che l’aveva combattuta come carrista); ma soprattutto, come abbiamo visto, attraverso un percorso teorico e ideologico nel corso del quale mette in discussione le sue più radicate convinzioni: i suoi antimilitarismo e pacifismo, che entrano direttamente in conflitto con la necessità, raccontata da suo padre nella prima parte di questo nuovo libro, di combattere il nazismo.
Per affrontare questo conflitto ideologico tra l’odio per tutte le guerre e l’impossibilità, anche etica, di evitarle, Tardi sviluppa il racconto attorno a un’idea geniale: una particolarissima forma di metalessi. E in questo senso il suo Io René Tardi, prigioniero di guerra allo Stalag IIB più che a qualsiasi altro fumetto deve molto a Jacques il Fatalista, in cui Diderot smaschera in continuazione la doppia temporalità della storia e della narrazione, e a certo teatro pirandelliano (Sei personaggi in cerca d’autore e Questa sera si recita a soggetto) dove gli attori sono di volta in volta se stessi e i personaggi.
Il padre di Tardi è, in questo fumetto, il narratore di primo grado, quello che racconta la propria storia, ma non la racconta direttamente a noi lettori; la racconta all’Autore della narrazione che è al contempo (ecco l’originale metalessi genettiana operata da Tardi) personaggio adolescente della storia, assolutamente e al contempo apparentemente ininfluente. Assolutamente perché tutto è comunque accaduto prima addirittura della nascita; apparentemente perché la sua presenza dialettica nella storia è l’effetto scatenante della narrazione stessa. Il giovanissimo Jacques Tardi è personaggio che guarda e non agisce, se non attraverso il dialogo, creando una specie di scollamento tra il testo dei dialoghi e la rappresentazione grafica degli avvenimenti. I fatti e il loro commento (il continuo battibecco tra padre e figlio) costruiscono in questo lavoro due testi distinti ma organici (per inciso: è un peccato che l’edizione italiana abbia così bistrattato il lettering, veramente brutto e così assottigliato da creare fastidiosi spazi bianchi nei ballon originariamente pienissimi di Tardi; cosa che, oltre a tradire le intenzioni grafiche dell’autore, acceca e rallenta lo sguardo).
Dalla frontiera mobile tra questi due mondi testuali (quella dove si racconta – le parole nei ballon – e quello che si racconta – i disegni nelle vignette) deriva a noi lettori quell’inquietudine già segnalata da Borges in Altre Inquisizioni, e che è poi la conclusione ideologica cui giunge Tardi. Come ci rendiamo conto che ciò che crediamo al di fuori della storia, l’autore, può esserne benissimo personaggio, così noi, che ideologicamente ci chiamiamo fuori dallo scandalo della guerra (e dalle sue conseguenze), non possiamo fare a meno di appartenere alla Storia. La Storia di cui quelle guerre sono, come si diceva, elementi cruciali. E da cui non possiamo fare a meno di essere, nostro malgrado – come cantava Dominique Grange – comunque coinvolti.