Diciamocelo pure: quella locuzione ha un che di sprezzante e infamante. Se qualcuno cerca di chiarire un tema complesso e difficile, semplificando la questione in modo naif, ecco che, subito, lo si redarguisce: “Queste sono chiacchiere da dopocena, cazzate di uno che ha tanto tempo e anche il lusso di sprecarlo”. L’ora tarda, il torpore per il troppo cibo e il lieve annebbiamento causato dall’aglianico lottano contro la lucidità. I ragionamenti si fanno più leggeri e incongrui e l’esigenza di cazzeggio prende il sopravvento.
Siccome nei dopocena si è consumata la parte più interessante della mia vita, mi sembra opportuno sottolineare come il vuoto digestivo di quei momenti possa essere riempito da un’inaspettata ricchezza di idee. A me, per esempio, sono successe un sacco di cose interessanti. Come quella volta in cui i miei amici e io abbiamo dovuto spiegare a un filosofo della scienza – uno di quelli importanti – come facesse Topolino a contare in base otto. Oppure quella volta in cui ho capito cos’era il situazionismo, mentre il critico Matteo era costretto a sostituire la camicia (un tempo ben stirata e perfettamente candida) con una mia t-shirt informe, dopo che mio figlio treenne aveva mostrato quanto reputasse emetico il suo pensiero sociologico. O, ancora, quando Paolo Bacilieri ha messo a tacere, quasi sprezzante, un difensore del fumetto, dichiarando che le sue erano chiacchiere inutili. Da dopocena, appunto.
Ecco. Quest’ultima storia merita un po’ della tua attenzione.
Eravamo a cena da qualche parte – forse a Perugia, per l’inaugurazione di una galleria che oggi, purtroppo, non c’è più – e stavamo chiacchierando allegramente di vini, affettati, fumetti e vita. Bacilieri raccontava la sua prima Lucca, quando, diciassettenne e apprendista fumettista in studio da Milo Manara, si era trovata improvvisamente catapultato a cena con Hugo Pratt. E quelle sì che erano vere chiacchiere. Chiassose, accompagnate da battutacce e cultura, canzoni e improvvisazioni. Pratt, l’autore che Bacilieri considerava (e considera) il più grande di tutti, era di fronte a lui ed era una macchina per sognare. Quella sera, ricordando l’autore di Corto Maltese, a un certo punto, Paolo si era piegato, un po’ per complicità e un po’ per gli eccessi alcolici, e mi aveva detto: “Vedi? Quello del fumettista è un lavoro un po’ triste, fatto di lunghi silenzi e solitudine. Pratt invece era fatto di carne, era enorme, vivo, vitale e trasudava felicità.”
Mentre sghignazzavamo, commossi, riempiendoci di nuovo i bicchieri, qualcuno, lì accanto aveva iniziato a spiegarci l’importanza di Hugo Pratt. Aveva parlato di Letteratura Disegnata, di Nona Arte, di Grande Avventura e del fatto che il Fumetto era una delle Grandi Forme dell’Espressione Umana, che nulla aveva da invidiare alla Grande Letteratura. Si sentiva nella sua enfasi la presenza di ognuna di quelle fottute maiuscole. Il Fumetto è Arte, diceva il nostro vicino, infervorandosi. Ed è stato quello il momento in cui Paolo, secco, ha interrotto l’interminabile sproloquio da dopocena: “Nel 1979 ho letto Le Elvetiche e Umberto Eco, nella prefazione, mi ha spiegato chiaramente che il fumetto non aveva nulla da invidiare alla letteratura. L’ho capito e, da quel momento, il discorso è chiuso. Ripeterlo è inutile.”
Ora, forse non conosci Paolo Bacilieri. È un uomo minuto, molto simile Zeno Porno, che dice cose, spesso intelligenti, parlando con una voce bassa, pacata e un po’ nasale, che si sviluppa attorno a un accento che sente di un nord est poco ridente. È capace di affermazioni perentorie, ma le muove con tono talmente controllato, e con una tale ossuta cadenza veneta, da farti credere che, in realtà, stia dicendo una cosa gentile. Il nostro interlocutore, ammorbidito dai modi di Paolo e dall’alcol, ha piegato il capo di lato ed è sprofondato in un silenzio sorridente.
Va be’…
Durante un altro dei miei dopocena, questa volta uno assolutamente domestico, mi sono messo a battibeccare con i miei due figli circa la loro gestione degli spazi. Criticavo l’ammasso di libri che infittiva una loro libreria: tutta roba che, secondo me, non interessava più. Ho chiesto loro, facendo leva sul molle vigore che mi riconoscono, di fare delle scelte e di mettere un po’ di quella carta, che non veniva sfogliata da anni, in una scatola, perché fosse destinata a usi migliori. Un’ora dopo, con faccia scocciata, i due mi hanno consegnato ben due pigne di libri: una per la biblioteca della scuola elementare e l’altra per il macero. Alla biblioteca erano destinate alcune nefandezze di cui tutti avevamo perso memoria e nessuno osava ricordare la ragione della loro presenza in casa. Al secchio del riciclo, alcuni fumetti, amati anni prima e ora guardati con indifferenza.
I libri con predominanza di parole da un lato e quelli dominati dalle immagini dall’altro. Che stranezza! Sono ingenuo e ho chiesto la ragione di questa distinzione netta, ottenendo la più logica tra le risposte: “Nella biblioteca della scuola non si possono portare fumetti.”
In quella biblioteca, qualche volta, ci sono anche entrato. Me la ricordo. Ripenso alla distesa di Geronimo Stilton che infittisce le mensole di quella bibliotechina e alla totale assenza di fumetti. So che non è un problema che riguarda solo la scuola elementare di provincia da cui i miei figli sono stati precettati. Lo so e sospiro. Spero che un chiacchieratore da dopocena, uno di quelli che il Fumetto è Arte e altre Sentenze Apparentemente Inutili e Sicuramente Noiose, dica ai responsabili di quella biblioteca (e delle altre costruite aderendo alle stesse regole) il fatto loro, travolgendoli di Amore e Maiuscole.
Paolo Bacilieri e io, con il nostro tranquillo snobismo, saremo altrove a bere aglianico e, con un po’ di vergogna, faremo il tifo per il Difensore della Nona Arte.