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FocusProfiliDormire nel Fango. Intervista a Michelangelo Setola e Edo Chieregato

Dormire nel Fango. Intervista a Michelangelo Setola e Edo Chieregato

Dormire nel fango (Canicola edizioni) di Michelangelo Setola e Edo Chieregato è uscito alla fine del 2012 e raccoglie storie precedentemente pubblicate su “Canicola” e su altre riviste. Per chi non li ha letti, diciamo che si tratta di fumetti attraversati da una forte carica sensoriale, dove il racconto del quotidiano non si adagia mai sul minimalismo, ma è mosso da un’inquieta, e forse inevitabilmente precaria, ricerca di significato. Il significato dei gesti, delle parole e delle apparizioni. Nella sua cura allucinata del particolare, il segno di Michelangelo Setola, non crea solo un suo sistema di rappresentazione, ma definisce un tempo del racconto e una qualità dell’attenzione diverse da quelle che, anche i lettori esperti, concedono abitualmente al fumetto. I fumetti che mettono in discussioni le abitudini consolidate del nostro sguardo sono quelli di cui è più difficile parlare, forse per questo di Dormire nel fango, uno dei libri più importanti degli ultimi anni, s’è scritto poco. Eppure sono storie che testimoniano un’idea di racconto e di disegno che può essere definita marginale solo se guardiamo al fumetto dal lato sbagliato. In aggiunta all’intervista, abbiamo selezionato una serie di tavole e illustrazioni di Setola, che potete trovare qui.

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Vorrei partire dal tempo del vostro raccontare. L’ambientazione della maggior parte delle storie in un più o meno riconoscibile passato e il punto di vista infantile portano a riconoscere che alla base ci sono dei ricordi, una forte componente autobiografica. Eppure, questa la mia percezione, sono storie raccontate “al presente”. Nella lettura, oltre la velatura e l’elaborazione della memoria, arriva immediata l’impressione di presenza, di qualcosa che sta avvenendo ora. È una cosa che riconoscete? E, se la riconoscete, cosa significa per voi?

MS: Sì, io la riconosco in pieno. Anche se il riferimento a un certo periodo storico è forte, ben visibile anche nei disegni, diciamo che nel libro il passato è un luogo della mente, di ricordo per Edo e fascinazione per me. È un passato scenografico in cui rivivono oggetti che ci piacciono, canzoni legate all’immaginario di quel tempo, in cui raccontiamo di un modo di relazionarsi e immaginare il mondo circostante che era molto diverso; non c’è mai la volontà di una reale ricerca storica a cui attenersi fedelmente. È vero che ci sono episodi, ripercorsi o sfiorati in alcune storie del libro, che sono realmente accaduti, ma questo non è fondante. Il soggetto del libro, più che il passato, credo sia il ricordo, che in genere è nebuloso, non definito, così come il tempo e il contesto in cui si svolge. Più importante del tempo cronologico in cui si svolgono i fatti è la sua rielaborazione, che nel momento in cui riaffiora in Edo è condizionata dal suo vissuto presente. La stessa cosa vale per la mia reinterpretazione grafica, ho cercato di disegnare queste storie provando a tradurre in immagini quelli che pensavo potessero essere i suoi ricordi. Cercavo di indovinare e riprodurre l’aspetto visivo di un passato immaginario, ma nel disegnare ciò che avviene nelle vicende del libro mi rifacevo alle mie esperienze quotidiane, ascolti, incontri, letture, sensazioni, pasti, qualsiasi cosa. Nel mio lavoro sia di disegnatore che di fumettista penso ci sia una forte esigenza forse inconscia di rappresentazione del vissuto quotidiano, con un filtro personale forte, deformante. Ma è una realtà anche misera, insignificante, che non suscita un interesse intrinseco e che non viene tradotta con la rappresentazione di se stessa, non è reportage o biografia, ma una presenza trasversale, che come un ombra attraversa quello che disegno. Non è diverso in Dormire nel fango.

EC: Sinceramente non avevo mai pensato in che tempo fossero raccontate le nostre storie. Di Hemingway si dice che racconta al presente, che i suoi racconti sono drammi che vediamo rappresentati in scena, e che i personaggi non hanno passato e non hanno futuro… Se raccontare al presente può voler dire “in diretta” allora mi ci ritrovo come definizione, cioè quando scrivo penso a una situazione che sto vivendo, a dialoghi “veri” che probabilmente non sono sempre funzionali per lo sviluppo della storia, ma che mi permettono maggiore immedesimazione. Il rapporto con l’autobiografia nei cinque racconti è ogni volta diverso, nel senso che a volte c’è ed è forte, in altre pura aneddotica, in altre ancora “del tutto assente”. E anche il rapporto con il presente è diverso. Se si toglie il racconto Dormire nel fango, tutti hanno a che fare con il passato. Da una parte è un tempo che non c’è più – gli anni Settanta/Ottanta con il loro immaginario fatto di macchine, motorini, musiche, videogiochi, giocatori di calcio ecc, dall’altra è l’infanzia e l’adolescenza che rivedo e rivivo un po’ pensando a me un po’ a quello che rappresentano come tappe della crescita. In questo senso il mio pensiero è rivolto al passato ma lo è oggi, cioè nel tempo in cui scrivo, con forte immersione e lucido distacco. Il passato, come dice Michelangelo, non è mai ricostruito con fedeltà storica, ma semmai con il piacere di prelevare alcune cose con molta precisione, come una Fiat Ritmo o una Renault 4, quasi per imprimere e congelare qualcosa di simbolico che amiamo ben oltre il loro essere vecchie automobili, ma nello stesso tempo l’apertura alla finzione e la libertà di rappresentazione è totale. Se per me quel periodo ha a che fare con certo vissuto, con i miei amici, i miei fratelli, per Michelangelo credo si tratti anche di un recupero del vissuto con i suoi genitori che non sono troppo più vecchi di me. Cioè, oltre a una fascinazione personale, ho sempre avvertito la sua possibilità di stabilire un rapporto emotivo autobiografico e personale con le mie storie, che in un qualche modo credo lo abbia motivato.

Michelangelo, la “presenza trasversale” del quotidiano di cui parlavi carica il tuo disegno di una particolare qualità fisica, vorrei capire meglio in cosa consiste e come nasce. Dove ti trovi quando disegni, che cosa vedi, da dove cominci e quando decidi che un disegno è finito?

MS: Ho una predisposizione per il copiato, mi piace copiare, mi piace e mi rilassa enormemente disegnare oggetti riproducendoli minuziosamente, i sassolini sulla terra battuta, le venature del legno, gli infiniti segni, crepe e macchie presenti su un muro, gli aghi di pino. Cerco di riprodurre la superficie degli oggetti, la ruvidità, la liscezza, le asperità con la giustapposizione infinita o la totale assenza di linee; cerco di disegnare quasi tutti i peli di un cane, non alla ricerca di un virtuosismo, ma per puro piacere autistico. Per questo forse si percepisce, come dici tu, una presenza fisica anche nelle tavole a fumetti. Mi piace avvicinarmi al disegno fino quasi a sprofondarci dentro, e in quei momenti, anzi dopo, avverto come la sensazione di essere stato sospeso. Non sempre è così, chiaro. Comunque, ci sono oggetti, immagini e situazioni – visti coi miei occhi o suggeriti da sceneggiature – che mi colpiscono talmente tanto da vincere la mia innata pigrizia e innescare in me la necessità di riprodurli. Una volta preso il ritmo, la pratica stessa del disegno suggerisce nuove immagini e così via. Anche nel lavoro con Edo in parte è così: lui mi propone degli scritti e nella maggior parte dei casi gli elementi visivi o lo scenario contenuti nello scritto mi coinvolgono e innescano un’inclinazione al raccontare altrimenti non molto viva in me. Non sono un narratore puro, ho bisogno di inseguire le immagini per creare una storia. Edo mi fornisce la storia, ma nella maggior parte dei casi ho anche la libertà di perdermi e seguire quello che mi preme più disegnare, cercando ovviamente di rimanere all’interno del racconto.

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Il termine “copiare” è interessante. Ti chiedo allora a che punto percepisci che il disegno è finito. Quando si esaurisce il piacere di disegnarlo (Se piacere è un termine sensato)? Quando il disegno stesso dichiara in qualche modo di essere finito?

MS: Sì, piacere è un termine sensato, molto sensato, credo che la stragrande maggioranza delle volte che non sento il piacere e la tranquillità che il disegnare sa darmi, il risultato finale non mi soddisfa. Certo non è sempre così netto, ci sono delle sfumature, piccoli gradi di insoddisfazione, ma mentre disegno sento molto questa cosa e la avverto una volta che, finito di lavorare, guardo quello che ho fatto. Mi spiego meglio:, mi è capitato di disegnare la seconda parte di Io sono pianto, che è cronologicamente l’ultima cosa disegnata per il libro, in un periodo difficile e di tensione. Riguardandolo ora riesco a percepire nettamente dai disegni le tavole fatte in momenti di relativa calma, si tratta di una certa fluidità e freschezza del segno.

Ogni disegno ha tempi diversi, e qui parlo soprattutto di disegni e non di fumetto. Ogni disegno sembra suggerire un suo equilibro man mano che si procede, ovviamente parlo per me, che quasi mai seguo uno schema di costruzione ben preciso, neanche per lavori su commissione come manifesti, locandine o altro del genere. A volte è sufficiente poco, e tutto è già così funzionale che senti di non dover aggiungere altro, che sarebbe un errore. Altre volte invece il disegno alimenta altre idee e si stratifica riempiendosi sempre più, non credo ci sia un metro. Il piacere finisce quando l’impulso forte di disegnare non è più alimentato dallo stimolo che inizialmente il soggetto ti ha dato. Nel fumetto è diverso perché bisogna attenersi a una sceneggiatura e quindi ci possono essere vignette funzionali alla narrazione che non presentano particolari stimoli, però anche questo è un fattore variabile. Ci sono vignette che magari cominci a disegnare senza particolare slancio e man mano che le disegni il piacere aumenta. È anche un lavoro psicologico: un amico mi ha insegnato a cercare qualcosa che faccia scaturire il piacere anche nelle vignette più noiose, provare ad aggiungere un elemento che possa in qualche modo renderle più interessanti. In alcuni casi probabilmente ci si ferma troppo tardi e in altri non si approfondisce abbastanza. Nel mio caso, lavorando molto d’istinto, è una cosa dettata anche da influenze esterne, da un determinato stato d’animo, il modo di disegnare e quello che disegno dipende molto da questo. E anche dal materiale che uso per disegnare: cambiando il mezzo cambia molto anche lo stile, i soggetti, la sensazione che la stessa azione del disegnare suscita in me. Chissà forse tutti i disegni stampati sono ancora da finire…

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