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Illustratore per l’infanzia

principe rospo 1

Ci sono immagini che ti restano addosso. Le guardi velocemente, sicuro che le dimenticherai presto, ed esse, invece, rivelano una persistenza che non ti saresti aspettato.

Settimana scorsa, per esempio, mi aggiravo per i padiglioni della fiera di Bologna, cercando di capire qualcosa dello stato dell’editoria per ragazzi. Per chi, come me, è un lettore curioso di libri con le figure, ma non può definirsi un conoscitore di quegli oggetti, la “children bookfair” che si tiene annualmente in quella città è sempre un’occasione di festa.

Guardiamo quei volumi illustrati in libreria, catturati da un vortice di seduzione, e, quando qualcosa ci stupisce, mettiamo mano al portafogli, sicuri di aver trovato un gioiello.

Poi può succedere che, indagando un altro po’, noi si scopra che quelle idee e quelle soluzioni che ci avevano sorpresi non sono poi così innovative.

A Bologna, mi sono aggirato tra gli stand scartando properties malvagie e libri brutti. Maledicendo un 90% abbondante di quello che ho visto e sperando di essere fortunato e di non portarmi a casa una brutta immagine o un brutto racconto, infissi tra l’aorta e l’intenzione.

Jorge Luis Borges mi ha insegnato che l’oblio è la miglior vendetta e io cerco di mostrare un animo vendicativo nei confronti di tutto questo pattume.

La prima scrematura è facile: le schifezze portano impresse stigmate così evidenti che il loro riconoscimento non richiede alcuno sforzo. Il restante 10% è difficile da valutare. Accidenti! Per quello ci vogliono strumenti: sguardo attento, sensibilità per la composizione, idea di racconto e consapevolezza della storia. Perché, nelle narrazioni, l’assunto di Leibniz (e Linneo, e Aristotele) che specifica l’incapacità della natura di spiccare salti è una sciocchezza. La storia delle storie si compone di discontinuità, elementi così evidenti da segnare, con nettezza, un prima e un dopo.

Intercettare quei punti notevoli è difficilissimo. A questo servono i maestri.

Sono un uomo fortunato.

A Bologna, c’era una mostra importantissima. In uno spazio centralissimo, subito dopo il corridoio d’ingresso e accanto al caffè degli illustratori, c’era un’esposizione di originali di Ugo Fontana.

Un disegnatore straordinario e vulcanico che ha illustrato oltre duecentocinquanta libri in quarant’anni di carriera. Talvolta ha apposto il suo nome in calce ai propri lavori, spesso ha usato pseudonimi e, in alcuni casi, ha addirittura lasciato che amici e colleghi firmassero al suo posto.

Alla molteplicità di nomi, ha affiancato innumerevoli stili e tecniche, reinventandosi continuamente per oppore ai testi verbali che illustrava un contrappunto visivo che non si limitasse ad appoggiare uno strato di colore divertente su un’opera chiusa. Ha sempre cercato, riuscendo spessissimo, di trasformare la storia di parole da cui partiva in un nuovo racconto, nato all’incrocio tra il codice verbale e le immagini.

Sono un uomo fortunato, ti dicevo. A mostrarmi le immagini appese alle pareti c’erano i miei amici e maestri Giorgia Grilli e Fabian Negrin, che hanno curato questa mostra, nata da un anno di ricerche tra bancarelle, fondi, archivi e memorie domestiche della famiglia Fontana.

Mi hanno fatto osservare particolari di quei disegni che ho poi ritrovato nel saggio pubblicato nel catalogo della mostra. Mi hanno mostrato gioielli perduti e hanno rispolverato ricordi d’infanzia.

principe rospo 2

Ricordavo pochissimo delle “Fiabe Sonore” Fabbri. Erano grandi fascicoli fittissimi di parole in cui si incastravano a fatica disegni. I miei occhi di bambino di provincia non subivano il fascino di quelle immagini. Molto più interessante era la voce narrante che, mentre il disco girava sul piatto, scandiva un racconto tra fruscii e mossette. Prima della fiaba c’era una sigla, cantata da Vittorio Paltrinieri.

“A mille ce n’è

nel mio cuore di fiabe da narrar.

Venite con me

nel mio mondo fatato per sognar…

Non serve l’ombrello,

il cappottino rosso o la cartella bella

per venire con me…

Basta un po’ di fantasia e di bontà.”

La mia generazione non ha più dimenticato quella canzone e ancora oggi, qualche volta a cena, ci si chiede che scuola frequentassero i bambini di quelle fiabe, costretti a coprire il tessuto nero e democratizzante del grembiule con un cappottino rosso e una cartella bella.

Anche le immagini ci sono rimaste impresse. Ma, innestate in un muro di parole, hanno perso molto del loro impianto narrativo.

Quando Giorgia e Fabian mi hanno mostrato le illustrazioni di Ugo Fontana per il Principe rospo, ho capito che quello straordinario disegnatore, per confrontarsi con un vincolo editoriale che richiedeva di alleggerire le immagini in favore di una predominanza verbale, aveva scelto di non disegnare: la parete e la tovaglia che copre la tavola tagliano, con il loro nitore abbacinante i corpi del rospo e della principessa. In quella campitura bianca un’impaginazione – che, grazie alla maledizione borgesiana, ho dimenticato – ha potuto disporre tutte le parole necessarie. E nonostante tutto, quel vuoto si è stagliato nel mio immaginario bambino. Ha costruito un nido caldo e, apparentemente, è andato perduto, come lacrime nella pioggia. E lì, avvolto dall’oblio, ha aspettato per quasi quarant’anni, dormiente, in attesa che uno stimolo risvegliasse quell’amore, che oggi non mi lascia in pace.

Sfortunatamente, nessun bambino, nessuno di quelli che Fontana considerava i propri datori di lavoro, avrà visto quell’immagine appesa alle pareti della fiera. Già. Perché la “Bologna Children Bookfair” ha regole ferree e inviolabili: “Non sono ammessi bambini. Non sono ammessi ragazzi minori di 18 anni.”

Quasi a dire che i libri per bambini sono una cosa seria; il mercato che gli si costruisce attorno, meno.

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