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Mondi POPCinemaGodzilla, un probabile successo commerciale (che finirà dimenticato)

Godzilla, un probabile successo commerciale (che finirà dimenticato)

Godzilla, per la regia del quasi esordiente Gareth Edwards, si distacca nettamente sia dall’omonimo film di Roland Emmerich (1998) che dall’originale pellicola di Ishirô Honda (1954). La continuità tra l’originale giapponese e il film in uscita nelle sale il prossimo 15 maggio è, invece, voluta e ripetutamente sottolineata (in realtà la continuità è più con la versione distribuita nelle sale statunitensi, tagliata e rimontata per eliminare i riferimenti alla bomba H e per consentire l’inserimento di un personaggio-narratore americano, il giornalista interpretato da Raymon Burr).

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Lo sguardo di Gareth Edwards vuole, a differenza di quello di Emmerich, farsi autoriale. Autorialità messa in luce da alcuni soprendenti dettagli. Ad esempio la scelta di presentare tutti i personaggi principali del film di schiena. Di schiena (e ad altezza piedi) viene presentato il piccolo Ford Brody, di schiena vediamo per la prima volta Joe Brody (Bryan Cranston) mentre parla al telefono nel preludio al disastro che porterà al cuore dell’azione, di schiena – e lungamente – viene presentato l’ammiraglio William Stenz mentra ragguaglia i suoi sottoposti sul da farsi per contrastare la calamità che minaccia la vita sulla Terra. E’ così subito chiaro che siamo più dalle parti di Robert Bresson che da quelle di un qualsiasi trito film di mostri come se ne sono visti tanti. Cavolo, qui si parla di tutt’altra roba. Altri personaggi invece corrono. Come il Dott. Ishiro Serizawa (Ken Watanabe) che, nonostante sia (o per lo meno, dovrebbe essere) uno dei capoccia dell’intera operazione arriva a tutte le riunioni quando queste si stanno per concludere, giusto in tempo per pronunciare la sua battuta conclusiva, piena di saggezza ecologista-giapponese, con quello sguardo un po’ spaesato che hanno a volte certi anziani confusi sulla metropolitana.

Del resto anche l’indiscusso protagonista della pellicola, Godzilla, il re dei mostri, viene mostrato inizialmente solo attraverso dettagli (delle scaglie che emergono sulla superficie dell’oceano, la lunghissima coda illuminata da dei razzi di segnalazione etc.), attraverso un procedimento di svelamento parziale così originale che Steven Spielberg sta ancora prendendo appunti. Lo farebbe anche Jacques Tourneur, se la morte non gli avesse sottratto questa possibilità.

Anche il teatro dell’assurdo, evidentemente apprezzato e studiato da sceneggiatore e regista, fa sentire la sua influenza su un’opera in cui quasi tutto quello che viene detto e fatto non ha alcun senso. Perché, altrimenti, Brody padre e Brody figlio, arrestati nell’area proibita dove vivevano quindici anni prima mentre indagano sull’esplosione della vicina centrale nucleare, invece di essere ricondotti in un commissariato in città (come accade nel caso del primo arresto del dott. Brody) vengono portati proprio nel cuore di quell’esperimento che cercavano di rendere pubblico agli occhi del mondo? O come si spiega, altrimenti, che una squadra altamente specializzata di artificieri dell’esercito statunitense non riescano ad aprire lo sportellino di metallo che tiene chiuso il timer di una bomba pronta ad esplodere? Ma questi sono solo due dei tantissimi e divertentissimi esempi che il film riserva.

O come giustificare battute come “devi vivere, per nostro figlio” se non come un richiamo evidente al cinema di Godard, specialmente se pronunciate da un’impegnata attrice francese come Juliette Binoche (che se, da Incontri ravvicinati del terzo tipo in poi, non metti almeno un paio di attori europei nel tuo film di fantascienza o catastrofico, sei proprio uno sfigato)?

Così come fortemente autoriale deve essere indicata la scelta di mantenere gli scontri fra mostri quasi sempre sullo sfondo oppure mostrarli attraverso i molti schermi televisivi attraverso cui l’umanità, inerme ed arretrata (anche in senso fisico) assiste agli dei che si prendono a mazzate. Il tutto condito da una tavolozza luminosa desaturata e tendente a toni marroncini e grigiastri che sembra essere diventata un must, come largamente spiegato QUI.

E’ inutile, bisogna arrendersi al fatto che dopo tanti anni gli autori sono tornati a colonizzare il cinema spettacolare americano e sembra che non vogliano mollare la presa. Aspettiamoci, dunque, una lunga stagione in cui a spavento, meraviglia, tensione, verranno sostituite lunghe (fin troppo, nel caso specifico) riflessioni sulla natura e sull’ineluttabile strada verso la rovina che l’uomo sta costruendosi con le proprie mani. Film in cui – e qui il superfluo 3D svolge un ruolo particolarmente interessante – l’uomo è costretto a rimanere ai margini della s(S)toria con l’evidente, da parte degli autori, scopo di evitare in tutti i modi anche il minimo coinvolgimento emotivo dello spettatore rispetto a quanto viene raccontato.

Oppure, ma questa ipotesi pare davvero assurda, Godzilla è semplicemente un film che manca di un qualsiasi tipo di visione. Volendo giocare con questa assurdità, si potrebbe dire che Edwars non abbia la minima idea di dove mettere la macchina da presa per costruire il racconto. La facile retorica di fondo, presa dal film del 1954 e adattata rozzamente all’oggi, si configura solo come una stanca e loffia replica di tanti stereotipi presi da altri film e altre opere, cuciti insieme da una confezione che si vorrebbe apocalittica e morale ma che invece risulta solo terribilmente noiosa, priva di pathos e già vista. Buona solo per i fan del genere Kaijū eiga (o quello che è) capaci di intrecciare i riferimenti con l’opera originale e che magari avranno un brivido quando sentiranno Serizawa pronunciare Godzilla à la giapponese.

[NOTA: Honda, al di là della mitologia che ne é seguita e per l’influenza che ha avuto sull’immaginario globale, ha fatto cose molto più interessanti di Godzilla, come quello che resta il suo capolavoro, Matango]

Godzilla condivide con film recenti e assimilabili allo stesso genere – assimilabili nella scelta dei protagonisti, del plot, delle battute, degli ammiccamenti e dell’immancabile “aurea” nipponica –  etc. – come Battleship (gradevole, nel suo tono caciarone e scanzonato) o il terribile Pacific Rim, la profonda e totale incapacità di incidere sull’immaginario. Costato 160 milioni di dollari, e intensamente atteso,  Godzilla sarà probabilmente un successo (il brand tira) ma al pari dei suoi simili qui citati verrà presto dimenticato. Peccato, perché in un paio di occasioni (la sequenza del risveglio del primo antagonista di Godzilla, il volo dei paracadustisti sulla città distrutta) l’addormentata regia si risveglia, tenta l’azzardo, ma subito s’affoga nella mediocrità su cui tutta la pellicola si livella senza coraggio.

Una particolare menzione va fatta al montatore e ai tecnici degli effetti speciali per la bellissima sequenza dei titoli di testa, realizzata assemblando materiali di archivio (opportunamente modificati) e filmati originali. Quando si concludono, inizia il déjà vu.

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