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FocusInterviste"L'adolescenza? Una malattia che prima o poi passerà". Intervista a Charles Burns

“L’adolescenza? Una malattia che prima o poi passerà”. Intervista a Charles Burns

C’è un bambino dalla testa d’uovo, tonda e liscia come una palla da biliardo. O, forse, simile a quella di un insetto, con una bocca come piccoli tagli e un naso come un bottone. Legge fumetti e guarda in tv film horror, e la fantasia si mescola con la realtà. Così, nel giardino di casa, vede presenze aliene e quelle creature, uscite dalle pagine dei comics o venute dallo spazio profondo, possiedono giovani fanciulle e le infettano di morbi che le trasformano in mutanti.

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Basta per parlare di incubi? Magari poi il bambino cresce e i rapporti sessuali li sperimenta in prima persona, e la malattia, questa volta, s’impossessa anche di lui e lo trascina in un buco nero senza luce o via d’uscita. Basta per una psicopatologia? Sicuramente basta a Charles Burns per mettere in pagina con un bianco e nero, duro e netto come un rasoio, che non conosce mezzi toni o mediazioni, la metafora di una generazione e di un’età della vita, l’adolescenza, vissuta come una malattia.

La generazione è quella cresciuta tra i 50 e i 60, tra fumetti della EC Comics e B-movies, tra l’horror grottesco e pazzo – Mad – di Harvey Kurtzman, tra Bradbury, Poe e i cattivi lombrosiani disegnati dal Chester Gould di Dick Tracy. «Li leggevo sui giornali che compravano i miei genitori – racconta un Burns alto ed elegante, con occhialini e mise grigia da intellettuale – ma di Dick Tracy non m’importava nulla. Mi interessavano di più i cattivi».

Come non credergli. E come non sospettare che nel Big Baby che gioca con i mostri di plastilina e spia da dietro il divano di casa gli horror che passano in tv non ci sia un po’ del piccolo Charles? Sentite qua: «Passavo molto tempo da solo a guardare fumetti, ancor prima di saper leggere, e a guardare la tv, con mia madre che mi sgridava e che mi ordinava di andare a letto».

"Black Hole" di Charles Burns è il graphic novel preferito di Bertolucci.

Charles Burns è nato a Washington nel 1955 e il suo Black Hole – realizzato nell’arco di 11 anni (in Italia lo ha raccolto in unico volume la Coconino Press) – è considerato uno dei capolavori del fumetto contemporaneo. Il suo nuovo lavoro è una trilogia cominciata nel 2010 con X’ed Out, proseguita con The Hive e terminata col recente Sugar Skull (qui un’anteprima), in cui Burns si cimenta con il colore, rendendo omaggio, a suo modo, ai colori piatti, alla linea chiara e persino all’aspetto del Tintin di Hergé.

L’immaginario di dell’autore è una galleria di incubi grafici freddi, inquietanti e disturbanti, popolati di esplicite simbologie sessuali ma, allo stesso tempo, dotati di una forza di fascinazione ipnotica che scaccia via qualsiasi repulsione.

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Nel suo curriculum c’è l’esperienza di Raw, la celebre rivista diretta da Art Spiegelman: «Mentre andavo in treno da Filadelfia a New York – ricorda – portando i miei disegni in un’enorme cartella, mi studiavo Raw. Ero colpito da quel grande formato, dalla carta, dalle diverse dimensioni dei fascicoli, dalla raffinata e continua ricerca grafica della rivista per cui, di lì a poco, avrei lavorato».

E poi c’è il coinvolgimento in Valvoline Motorcomics, un gruppo di allora giovanissimi autori italiani, Carpinteri, Mattotti, Igort e altri: «Il primo contatto lo ho avuto durante una vacanza in Italia con Spiegelman. Poi dal 1983 sono stato per un paio di anni nel vostro Paese, seguivo mia moglie che insegnava arte a Roma. Mi colpiva la sensibilità diversa dei vostri autori, l’attenzione a movimenti artistici come il Futurismo, alla moda, a tecniche pittoriche, come quelle del Mattotti di Fuochi».

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Nella sua vita c’è l’esperienza dei 60, di un Burns adolescente in un’epoca nella quale «la rivoluzione sessuale – spiega – era data per scontata e le droghe non erano più un passatempo da hippy». In quel «buco nero» precipita la spensieratezza dei 60 e da esso, negli 80, affiorerà la paura dell’Aids, tremendamente analoga alla misteriosa epidemia che provoca mutazioni genetiche e costringe i protagonisti del fumetto di Burns ad una fuga dolorosa.

Malattia dell’adolescenza o adolescenza come malattia? Metafora personale o collettiva? «Certo che è una metafora – spiega Burns – una mia risposta personale ad una situazione generale e sociale. Un mio amico, Dan Clowes (altro autore americano di fumetti, ndr ) dice sempre che le storie migliori sono quelle in cui riveli di te stesso più di quanto ti faccia sentire a tuo agio. L’ho potuto fare perché a quell’epoca, a quelle situazioni ho partecipato».

Se poi si possa guarire da morbi e mutazioni, dall’adolescenza, insomma, chi lo sa? «Nella versione Usa di Black Hole – spiega Burns – si dichiara che, nonostante tutto, l’adolescenza è una malattia che passa». Magari sarà dura, guarire, ma la speranza c’è. Un po’ come succede, applicando la metafora alla politica, nel caso di Obama che Burns dichiara con orgoglio di aver votato: «Lo ha fatto anche una delle mie figlie che ha votato per la prima volta. Non avrei mai immaginato che un afroamericano sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti. Persino il suo nome, un nome non cristiano, è simbolo di un cambiamento. Non so se ce la farà, ma posso solo dire che gira un tale ottimismo che nel mio Paese non avevo mai avvertito».

*Articolo originariamente pubblicato su l’Unità del 11 Marzo 2009 (pagina 40) nella sezione “Culture” e qui rivisto e aggiornato.

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