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La polemica del Premio PEN a Charlie Hebdo, e le riflessioni di Christian Raimo

Si è chiusa martedì scorso l’ultima controversia riguardante la rivista satirica Charlie Hebdo. Lo scontro ha coinvolto il PEN American Center, organizzazione statunitense affiliata alla storica associazione internazionale di scrittori PEN (attiva anche in Italia), in seguito alla decisione di assegnare uno dei suoi prestigiosi premi alla rivista: quello a favore della libertà di espressione.

Sei dei suoi componenti – per l’esattezza i noti romanzieri Peter Carey, Teju Cole, Francine Prose, Michael Ondaatje, Rachel Kushner and Taiye Selasi – si erano rifiutati di presenziare alla cerimonia di consegna, avvenuta martedì sera a New York. Secondo il testo di una lettera scritta da oltre 200 scrittori che hanno aderito alla protesta, assegnando questo riconoscimento il PEN non avrebbe semplicemente manifestato sostegno alla libertà di espressione, “ma sta anche dando valore a del materiale discriminatorio e offensivo: materiale che intensifica i sentimenti antislamici, antiarabi già diffusi nel mondo occidentale.”

Reagendo a questa reazione, però, altri scrittori, tra cui in prima linea i fumettisti-bestseller Neil Gaiman, Art Spiegelman e Alison Bechdel, si sono offerti di rimpiazzare i colleghi che hanno preferito dissociarsi dalla premiazione, contro-sostenendo la rivista al loro posto, per varie ragioni che hanno ben spiegato in un’intervista al sito Salon.

Ma dove comincia e dove finisce la legittimazione della libertà di espressione? Cosa significa, oggi, essere una voce contro il potere come lo è in qualche modo Charlie Hebdo? E fra gli schieramenti degli scrittori, chi ha ragione e chi ha torto? Lo scrittore e giornalista Christian Raimo ha provato a rispondere a queste – non semplici – domande in un articolo d’opinione pubblicato su Internazionale. Raimo riassume per bene i termini della vicenda, riconoscendo innanzitutto come le questioni sul tavolo, nonostante la grande eco mediatica, siano ancora le stesse del dopo-strage:

È una polemica che ricalca quelle di gennaio. Quando, per esempio, il direttore del New York Times non si schierò da subito con “Je suis Charlie”, o quando uno dei sei scrittori, Teju Cole, scrisse un bellissimo articolo sul New Yorker intitolato “Unmournable bodies”, in cui già allora esprimeva i suoi dubbi sui toni di Charlie Hebdo, citando tra i vari esempi discutibili una vignetta di Charb in cui la ministra della giustizia francese Christiane Taubira, che è nera, era ritratta come una scimmia.

«Ma la questione non si è dissolta», rileva giustamente Raimo, «come altre volte capita a queste polemiche, nel giro di qualche scambio su Twitter». E la situazione ha assunto un aspetto paradossale, che «sembra una gara a chi è più liberale». Tuttavia, questo più recente episodio di polemica permetterebbe, sempre secondo Raimo, di non farsi sfuggire due aspetti che sembravano finiti in secondo piano:

Primo: la constatazione che in un contesto globale la critica al potere politico deve passare al vaglio di un pensiero decostruito, postcoloniale. Non è forse un caso che vari scrittori della protesta potrebbero essere definiti scrittori postcoloniali di seconda generazione, e che si scontrano senza pudore con uno scrittore simbolo della prima generazione, come Salman Rushdie […]

È probabile che questi scrittori più giovani abbiano fatto propria una prospettiva in cui il multiculturalismo ha ormai una storia complessa in cui le categorie di laicità e fondamentalismo non sono sufficienti a definire i campi.

Secondo: l’esaltazione degli eroi della tolleranza e delle libertà suona sempre un po’ sospetta e forse contraddittoria. Del resto quello che chiedono questi scrittori non è un boicottaggio ideologico, ma una riflessione.

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