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Tomorrowland, gli emboli grillini e l’utopia made in Disney [Recensione]

Prima fu Tomorrowland, l’area tematica di Disneyland aperta nel 1955 che avrebbe dovuto rappresentare la terra del domani e che in realtà funse da vetrina per le grosse aziende che sponsorizzarono la costruzione dell’area, dopo i tagli al budget.

Poi arrivò EPCOT, Experimental Prototype Community of Tomorrow, il prototipo sperimentale di comunità del futuro, l’ambizioso progetto che occupò gli ultimi anni di vita di Walt Disney. All’epoca Disney si era reso conto che i suoi parchi divertimento rappresentavano un senso di speranza e tranquillità latitante nella Los Angeles degli anni Sessanta, sovrappopolata e inquinata.

Voleva creare una città di fondazione, un laboratorio in cui architetti e ingegneri avrebbero potuto sperimentare soluzioni per la cittadella del domani (alcune delle idee vennero proposte nei padiglioni dell’Esposizione Universale newyorchese 1964-65, come gli animatronici dell’attrazione It’s a Small World).

Pensava al neourbanesimo, ai robot che avrebbe usato nei suoi parchi, ma anche a una sorta di assolutismo monarchico in cui i cittadini non avrebbero avuto diritti (in modo che Walt, qualora avesse avuto un’idea, avrebbe potuto attuarla senza chiedere il consenso dei residenti). Disney morì nel 1966 ed EPCOT con lui, salvo rinascere come area tematica in uno dei suoi parchi.

Il film prende le mosse da queste due attrazioni e immagina che, in realtà, quella terra del domani sia stata effettivamente creata. Non fisicamente, non qui, in un altro luogo. E Casey, la giovane protagonista interpretata da Britt Robertson, è stata scelta come prossima cittadina di Tomorrowland. Da qui si dipana un’avventura che vedrà coinvolto anche l’inventore Frank Walker (George Clooney, con la faccia più svogliata di sempre da Il ritorno dei pomodori assassini), che da bambino aveva presentato una sua invenzione proprio all’Esposizione di New York.

Tomorrowland mette in scena il disincanto di una società che non riesce più ad amare con passione qualcosa, un mondo dove la NASA sta abortendo tutte le missioni, l’ottimismo tecnologico è sotto i piedi e a ogni angolo di strada c’è un ‘giovine disilluso dall’arido cuore post romantico’ – per usare una definizione di Diego Cajelli – pronto a fare del sarcasmo sulla promiscuità della propria madre. Perché è più facile odiare e lasciar perdere che essere entusiasti per qualcosa.

Brad Bird recupera alcuni degli elementi cari al suo cinema, l’Iperborea disneyana ha lo stile retrò mischiato con le architetture ariose alla Calatrava e il film parla di persone speciali che non vengono comprese o accettate dal resto della collettività. Parte da un messaggio di apertura: tutto è ottimistico, tutto è out there, siamo noi a fare il futuro, con un’accettazione deterministica dell’universo. Poi, però, si elencano una serie di eccezioni che restringono il campo. Il progresso è sempre positivo, tranne quando è in mano alle grande corporazioni, che lo sfruttano. Tutti possono collaborare alla creazione del domani, ma in realtà no perché devi fare parte di un élite di prescelti, l’oligarchia dei Plus Ultra, e devi essere un prodigio nel tuo campo (e possibilmente giovane). Per il resto, sì, non ci sono restrizioni per accedere al mondo di domani. Viene da pensare che il regista non creda davvero al motto ‘tutti possono cucinare’ di Ratatouille.

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In trasparenze si leggono le idee dell’Oggettivismo, una corrente di pensiero che è stata usata come lente di analisi per altri film di Bird e che egli stesso ha ammesso di aver trovato pertinente con le sue idee quando aveva 20 anni. Ora forse concepire Gli Incredibili come un film fascistoide è un po’ troppo, ma provate a leggere il cappello della pagina di Wikipedia dedicata a La rivolta di Atlante, il libro di Ayn Rand che incorpora le sue idee filosofiche. Poi guardate il film e venite a dirmi che quel periodo giovanile Bird se l’è lasciato alle spalle.

Purtroppo, però, Tomorrowland espone queste tematiche con la delicatezza di chi va a un funerale e fa battute sulla mestizia della festa. L’enfasi è smascherata anche dal modo in cui punta il dito contro un’industria cinematografica che spinge film sì pensati per i giovani, ma dalla struttura distopica e post-apocalittica, che non lasciano margine di manovra all’ottimismo. A questo si aggiungono gli spiegoni di David Nix, il cattivo impersonato da uno Hugh Laurie con la fotta di fare il cattivo perché lo prevede il copione e a cui a un certo punto parte l’embolo grillino e fa una tirata sulla partecipazione diretta (ma solo dei migliori) e su come i messaggi e le notizie debbano arrivare al ricevente senza intermediazioni di sorta, per contatto diretto, come una grande e-democracy. Menzione d’onore allo sceneggiatore Damon Lindelof, che dopo aver scritto una delle più ridicole morti mai impresse su celluloide ci ricasca e fa cadere addosso a un personaggio un oggetto oblungo che poteva essere scansato di lato senza tanti sforzi.

L’ammonimento fatto a uno dei personaggi al non fare sempre domande e lasciarsi andare allo stupore è un consiglio rivolto anche al pubblico, che dovrebbe sospendere la propria incredulità e godersi lo spettacolo. Che è vero, ma è anche un bel modo di coprire tutte le magagne che ho appena elencato, contenute per la maggior parte nel terzo atto. È davvero un po’ troppo non chiedersi come funzionino certi meccanismi e il perché di molte dinamiche (ma quindi che diavolo di rapporto hanno Nix e Frank?).

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È un peccato perché quando il film smette di predicare funziona bene; i primi due atti sono ottimi, non c’è un momento di stanca e ogni elemento si incastra nell’altro senza sfasature. In generale, Bird è uno che sa girare e non solo un animatore prestato al live action. Non a caso le due scene migliori della pellicola sono un assedio al fortino che mescolano il western a Terminator 2, con quell’angoscia da “forza inarrestabile all’inseguimento degli eroi”, e una sparatoria nel negozio di memorabilia più ricco di easter egg di sempre. In più, compare Tim McGraw, che io purtroppo non avevo riconosciuto perché non aveva il cappello da cowboy.

Uso termini come ‘assedio’, ‘angoscia’ e ‘sparatoria’, ma preciso che non scorre una goccia di sangue – i corpi che cadono o sono robotici o vaporizzano all’istante. E il tono è solare, anche se abbastanza serio (perché le poche volte che fanno i simpatici, come nella scena d’apertura, non gli riesce tanto bene).

Tomorrowland parla del nostro disincanto, ci ricorda che dovremmo tornare a immaginare, a farci entusiasmare dalle scoperte, ma ce lo urla nelle orecchie con così tanta forza da vanificare il proprio messaggio.

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