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Citoyen Druillet

Le cose della notte non si possono spiegare nel giorno perché allora non esistono

(Ernest Hemingway)

Nonostante sia stato uno degli autori di fumetti più rilevanti della seconda metà del secolo scorso, non esiste attualmente in Italia un editore che abbia in catalogo le opere di Philippe Druillet. Non credo quindi che qualcuno proporrà al pubblico italiano la sua recente autobiografia – intitolata Delirium (scritta con David Alliot) – pubblicata l’anno scorso da Les Arènes, piccola e agguerrita casa editrice parigina. Un vero peccato.

delirium
La prima volta che ho incontrato Druillet era l’inizio del 1982, avevo quattordici anni. Sembra incredibile, ma il cinema Rialto a Nizza è esattamente dove stava allora, in Rue de Rivoli; dovevo aspettare mio padre che aveva impegni di lavoro e stavo decidendo che film andarmi a vedere. Rimasi affascinato da una locandina e decisi di andare a vedere quel film. Era di Jean Jaques Annaud e si intitolava La Guerre du Feu. Un gran bel film, raccontava una storia semplice: le peripezie di un gruppo di neandertaliani per recuperare il fuoco perduto durante una battaglia e tornare alla loro tribù. La cosa incredibile è che il film era senza dialoghi, solo gesti e grugniti e funzionava benissimo (solo molto più tardi scoprii che per farlo funzionare i questo senso Annaud aveva chiesto la consulenza di Antony Burgess e Desmond Morris). Se non conosci Annaud come regista recupera questo, poi la (bella) trasposizione del (mediocre) romanzo di Eco e assolutamente il suo primo film Bianco e Nero a Colori, una fulminante critica del colonialismo francese. Di quello che ha fatto dopo Il Nome della Rosa non so dire; il mio rapporto con Annaud si è guastato guardando L’amante.

Ma torniamo alla locandina che mi costrinse a vedere il film. Una agguerrita tribù di uomini primitivi, sormontata dalla testa di un guerriero spaventoso, getta su un fondo bianco ombre che ritagliano profili di belve feroci. Disegnata con quello che mi piace definire un tratto violento e disperato. Me ne innamorai di quel disegno violento, e volevo assolutamente sapere di chi fosse. In fondo a destra, dopo la scritta feu, c’era un ghirigoro che poteva anche essere la firma di chi l’aveva fatto, ma non riuscivo a decifrarla.

Laguerredufeu

Qualcuno, notando il mio sforzo di decifrazione, mi fece, impietosito:

– Proprio bella, vero?

– Certo – rispondo nel mio francese stentato – mi piacerebbe sapere chi l’ha fatta.

– Come chi… è uno cha fa fumetti, veramente bravo: Philippe Druillet. Se ti piacciono i fumetti, devi leggere almeno il suo Lone Sloane.

Non sto neanche a dire che quella sera, recuperato mio padre, prima di andare a cena, lo obbligai (lavorando sui sensi di colpa) a fare tappa in una libreria e a comprare tre libri di Druillet: Gail, Salammbò e La Nuit.

Leggo La Nuit in un soffio. Settantadue tavole che brucio e che mi lasciano senza fiato. Ero cresciuto con Zagor e Alan Ford, non sapevo e mai avrei creduto che con il fumetto si potesse lanciare un tale grido di dolore e disperazione. La trama era irrilevante: bande di guerrieri motociclisti che lottano per la droga e la salvezza da un mondo di zombie. Era il segno grafico, il colore e la forma delle tavole quello che contava. Quanto mi sembravano vecchi e datati i fumetti che conoscevo, dopo la lettura de La Nuit. Una struttura narrativa che si affrancava da tutto quello che pensavo fossero i codici dei fumetti, per appropriarsi delle strutture del rock che cominciavo a conoscere. Mi trovai trascinato in un abisso di disperata libertà espressiva, e capii una cosa: il fumetto è tutte le eventualità possibili.

La copertina originale de La Nuit
La copertina originale de La Nuit

Ma la sai una cosa? Il motivo di tutta quella disperazione, racchiusa in un fumetto che se non mi ha cambiato la vita – no, nessun libro lo fa – ha però cambiato la percezione che avevo del fumetto, l’ho scoperto soltanto qualche mese fa. Ci ho messo trentatre anni. E solo perché la scorsa estate, in una libreria di Marsiglia, mi è capitato tra le mani un libro che mi ha riportato alla memoria quel vecchio conto in sospeso con Druillet. La sua autobiografia, appunto. Delirium.

L’ho letta d’un fiato come avevo letto La Nuit. Perché l’inizio è folgorante. Arrivato all’età di settant’anni (è nato il 28 giugno del 1944) Druillet ha sentito la necessità di fare i conti con la propria storia. Lo dichiara nelle due smilze ma intense paginette iniziali: la sua storia famigliare è un dolore che si trascina da sempre e che da sempre chiedeva di essere esorcizzato. A un certo momento, senza sapere perché, ha deciso di raccontarlo.

Delirium1

Non è facile cominciare a raccontare la tua storia dall’inizio, cioè dalla tua nascita, se tuo padre e tua madre non solo sono stati due fascisti convintissimi, ma se tuo padre è stato anche un combattente nella guerra di Spagna dalla parte franchista e poi agenti zelanti della Milizia, di cui tua madre era segretaria e contabile, che cacciava, torturava e uccideva i partigiani e deportava gli ebrei. Non è facile trovare la forza per raccontare l’odio che ha caratterizzato la tua infanzia, l’odio verso due genitori infami e dichiararlo, senza mezze parole, in apertura della tua autobiografia. Non è facile, no. Ma Druillet ha trovato la forza, il coraggio o la disperazione per farlo.

D’altra parte tutta la sua opera, fin dal primo Lone Sloane pubblicato da Losfeld (e dovremo parlarne, un giorno, di un vero rivoluzionario dell’editoria come Eric Losfeld), è caratterizzato dalla disperazione/disillusione dell’ineluttabilità della morte. Del nulla che ci aspetta. Per accettare, forse, questo niente, Druillet ci ha consegnato un libro bellissimo. E non solo perché racconta cose che a noi interessano un casino, come il suo rapporto con Goscinny, il perché un sacco di autori preferivano pubblicare con Pilote che con Charlie Mensuel, la nascita di Metal Hurlant, gli scazzi con Mandryka, la stronzaggine di Moebius, le ragioni del dolore di cui gronda La Nuit, la dipendenza dall’eroina, il rapporto con il cinema … Ma soprattutto perché è un grande libro di memorie, che descrive con una lievità di scrittura le passioni e i tumulti culturali e sociali (le sue pagine sul Maggio sono da brivido) degli ultimi cinquant’anni. Un’opera fondamentale per comprendere quello che siamo noi che al liquido metallo urlante di quel gruppo di autori ci siamo attaccati come a una tetta materna. Non credo purtroppo nessun editore lo pubblicherà in italiano. [Fai una cosa: convinci il direttore di Fumettologica a comprarne i diritti (costeranno un cazzo, dai) e a farne un ebook. Te lo traduco io.]

Ah! Mi accorgo ora che non ho detto qual è l’origine della disperazione di cui si nutre La Nuit. Proprio nei giorni in cui si mette al lavoro su quell’opera, che avrebbe dovuto finanziare – con la pubblicazione su Rock et Folk – la rivista Metal Hurlant, ed essere poi il primo volume pubblicato dagli Humanoides Associés, la sua compagna Nicole ammalata di cancro è costretta ad abortire del figlio che aspettavano, e non supererà comunque l’operazione e la terapia a cui sarà sottoposta.

Druillet ne è distrutto, non sopporta la solitudine e il vuoto della casa in cui vivevano. Tenta il suicidio con un mischione esplosivo di droghe, sonniferi e alcol. È salvato in extremis dall’amico Charles Cohen. Dopo il ricovero all’ospedale, sente la necessità di dedicarsi a qualcosa:

Torno a casa. Mi rimetto al lavoro. Devo terminare la mia opera. Non posso dimenticare Nicole. Le costruirò un mausoleo. Sublimo così il mio dramma. Sono pazzo. Mi abita la follia. Un fuoco interiore mi divora. Non dormo più. Non mangio più. Bevo e lavoro senza sosta. Mi incateno alle crisi del mio delirio. Non so come sono sopravvissuto. Avevo trent’anni allora. Avevo una buona resistenza fisica. La mia carne ha resistito. Il mio medico mi prescrive un farmaco che avrebbe calmato un elefante. E nonostante continuo a elucubrare sulla vita e sulla morte. Il mio medico scappa, gli faccio paura. Ascolto dischi di Leo Ferré, degli Stones, dei Led Zeppelin e Jimmy Hendrix a tutto volume. Leggo le poesie di Baudelaire, di Apollinaire, di Verlaine, di Rimbaud, di Aragon. È la mia stagione in inferno. Arrivo a toccare la verità profonda dell’esistenza umana. Finisco La Nuit. La mia notte. (Delirium, Les Arènes, p.174)

Mentre leggevo queste righe, capivo le sensazioni provate tre decenni prima leggendo La Nuit. La sua notte, che per me era stata invece una fondamentale aurora.

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