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FocusProfiliEssere presenti nell’assenza: Il Segreto di Majorana

Essere presenti nell’assenza: Il Segreto di Majorana [Intervista]

Ettore Majorana, genio delle fisica, docente universitario e ricercatore stimato in Italia e all’estero, collaboratore di Enrico Fermi, ha 32 anni quando decide improvvisamente di lasciare tutto e sparire. Dal giorno della sua scomparsa nessuno ha più notizie certe sulla sua sorte. Suicidio? Fuga volontaria?

Ciò che ne resta sono le sue scoperte scientifiche, importantissime, e nella memoria i racconti sulla sua personalità di genio ma anche di persona fieramente solitaria, introspettiva, inadatta alla ribalta della vita accademica, all’ambizione personale e lavorativa.

Francesca Riccioni incontra Silvia Rocchi – del collettivo di autoproduzione La Trama – nel 2012 e decide di proporle una storia sulla vicenda umana e scientifica di Majorana: il loro libro, Il Segreto di Majorana, è pubblicato da Rizzoli Lizard. Le abbiamo intervistate telefonicamente raggiungendole in varie parti d’Italia, impegnate nella promozione del libro e fresche di presenza a Napoli Comicon dove la Rocchi, illustratrice del progetto, ha vinto il premio Nuove Strade.

Leggi anche: Nello studio di Silvia Rocchi

RocchiMAJORANA
Francesca, il tuo percorso di studi ti ha portato, dalla frequentazione della facoltà di fisica, ad occuparti di comunicazione della scienza. Com’è nato questo ponte tra la divulgazione scientifica e il discorso artistico in forma di narrazione?

Si è trattato di un percorso complesso nel quale si sono sommati diversi eventi: primi fra tutti i miei studi nell’ambito della comunicazione scientifica a Trieste al master della SISSA (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) dove ho frequentato un corso di tecniche narrative tenuto dal professore di microelettronica all’Università di Trieste e scrittore Giuseppe O Longo. Ho lavorato, per esempio, a una tesi sulla risonanza magnetica e, guardando le immagini create dall’osservazione del cervello, mi sono resa conto che erano composizioni bellissime, a livello estetico, ma che portavano in sé anche informazioni scientifiche fondamentali sul funzionamento del mio organo preferito, il cervello appunto.

Mentre preparavo la tesi, proprio in quegli anni, sono nati una serie di studi sul funzionamento del cervello: quelli che mi colpirono di più riguardavano l’ambito che tentava di analizzare i criteri di percezione della bellezza. Insomma, tutti campi nei quali arte e scienza si toccano mi intrigano, e i casi di contaminazione sono moltissimi.

In seguito mi sono distaccata da un certo tipo di approccio scientista all’argomento, appoggiando le critiche al riduzionismo biologico (questo aspetto è stato sviluppato in Enigma. La strana vita di Alan Turing): non siamo solo cellule, c’è un qualcosa in più, e nel corto circuito tra scienza pura e desiderio di esplorare il lato umano delle ricerche ho trovato un terreno di confronto interessante per la comunicazione e la divulgazione scientifica.

Il lato umano delle storie legate a personaggi come Alan Turing e Ettore Majorana è molto importante per capire il loro percorso e il loro peso nel mondo della scienza.

Sì, sono entrambe storie nelle quali si scontrano diversi aspetti, ciò che è codificabile e verificabile empiricamente e ciò che è incodificabile: in entrambe le biografie la vicenda umana, la solitudine, l’essere personaggi vissuti, in modi diversi, al margine della società, ha pesato tanto quanto il grande valore scientifico e pratico, per l’umanità intera, delle loro scoperte.

Perché hai scelto di raccontare proprio la vicenda di Ettore Majorana, nel tuo nuovo libro?

Riflettevo da tempo, a partire da mie esperienze personali e poi come discorso sociale più ampio, sulla scomparsa, sulla mancanza e sull’importanza del vissuto. Cosa significa a livello umano ma anche come sia possibile scomparire e che valore abbia oggi scegliere l’invisibilità in un momento in cui l’esposizione mediatica di chiunque è a ai massimi livelli, grazie anche alle nuove tecnologie e ai social. Infatti ho chiesto a Tiziano Bonini, ricercatore in media studies allo IULM di Milano, una postfazione che parlasse proprio di questo, la sparizione, la scomparsa, il suo senso nell’ambito delle di scienze sociali.

Dovendo lavorare ad un nuovo libro, la storia di Majorana mi è sembrata perfetta e devo dire che poi si sono anche realizzate delle belle coincidenze! A libro chiuso, ad esempio, ad una mese dall’uscita, sono state pubblicate notizie che riguardavano la presenza di Majorana in America Latina negli anni Cinquanta. Avvistamenti basati sulla presunta presenza in una foto ritrovata casualmente, quasi a voler richiamare il discorso sull’esposizione a cui tutti siamo sottoposti.

Ho deciso di incrociare la storia della scomparsa di Majorana con lo spunto di una storia vera di un ricercatore che ho conosciuto in California e che aveva fatto delle scoperte strettamente legate a quelle di Majorana. Una delle tesi letterarie legate alla scomparsa del fisico ipotizza che c’entrasse il timore di vedere le proprie scoperte cadere nelle mani sbagliate. E questo dilemma etico è sicuramente sempre presente in chiunque faccia ricerca scientifica, perché è impossibile prevedere da chi e come verranno utilizzate le scoperte.

Leggi l’anteprima di Il segreto di Majorana

RocchiMajoranaInfatti nel libro citate anche il Movimento di Seattle, che contestava i brevetti a favore dell’open Access, modalità di pubblicazione delle scoperte scientifiche aperta a tutti.

Prima di raccontare la storia di Majorana, abbiamo fatto una selezione letteraria delle opere che se ne erano occupate in precedenza. L’opera di Sciascia, che teorizza una vera e propria obiezione di coscienza e che ovviamente è un’ipotesi letteraria, ci sembrava perfetta per unire il discorso dell’arbitrio, dell’importanza del vissuto personale, della ricaduta delle nostre scelte, al di là della narrazione della pura scoperta scientifica.

Un filo, insomma che potesse unire tutto, i due personaggi contemporanei, Leo, lo scienziato, e la sua amica Amanda, studiosa di lettere, legati nel passato anche da ideali comuni che nel presente non possono più condividere. Amanda è uno spirito libero, Leo è uno scienziato che deve scegliere se scendere a compromessi.

Come hai lavorato con Silvia?

Come ho detto in precedenza, ho avuto diverse esperienze in cui ho visto collaborare realtà di ricerca ed artisti; ad esempio al primo festival della scienza di Genova, all’esterno della fiera, erano ospitate mostre di videoarte realizzate da artisti che avevano tratto ispirazione da principi ed esperimenti scientifici.

Il lavoro con gli illustratori serve anche a questo, a testare quanto sia comprensibile quello che cerco di raccontare. Come nella scena del talk scientifico di Leo, ho deciso di mantenere un registro molto tecnico e di introdurre alcune nozioni sulle scoperte che Leo racconta ai suoi interlocutori, scienziati anche loro. Il linguaggio, il registro da utilizzare, è il mio primo problema quando scrivo di scienza, si deve declinare con il personaggio, con il lettore, con lo stile del disegnatore con cui lavoro. È fondamentale per me il più stretto rapporto possibile con chi disegna, scelgo l’illustratore perché lo stile si sposi con i contenuti. Così è stato anche per Enigma.

Silvia mi ha aiutato a scrivere questo testo mantenendo sia il discorso di fisica dura, come diciamo in gergo, sia lasciando un importante appiglio all’immaginazione del lettore. A mia volta io ho fornito a Silvia degli spunti che l’hanno aiutata a visualizzare ciò che era più difficile raccontare: ricordo di averle parlato delle Camere a Nebbia, i primissimi strumenti che sono stati inventati per studiare le particelle. Guardando le immagini che ne venivano fuori, Silvia ha avuto l’idea di rappresentarli tramite la tecnica della monotipia, e così sono nate le tavole a tutta pagina più astratte, dove visualizziamo quello che lo scienziato ci sta raccontando.

Silvia, per te invece cosa ha significato dover illustrare, rappresentare anche dei concetti scientifici così astratti?

Il lato scientifico del racconto per me sarebbe stato un grosso ostacolo, la fisica è un campo che non conosco. Ma abbiamo avuto modo di capirci quando il discorso si è spostato sul lato estetico e Francesca mi ha mostrato alcune cose, tra cui le Camere a Nebbia di cui via ha parlato. Ho trovato subito delle analogie con quello che potevo ottenere con delle monotipie: su una lastra di plexiglass ho steso l’inchiostro per mezzo di un rullo, come trama di base anche oggetti materici, fili, scotch, per ricreare degli effetti sulla stampa finale. Il ritmo della narrazione l’abbiamo deciso assieme, così come l’utilizzo dei due colori che caratterizzano due diversi momenti temporali ed emozionali del racconto: il blu freddo per l’America, nello specifico la California, per il presente, per le teorie scientifiche; il rosso caldo per il Sud Italia, per il ricordo.

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Avevi già illustrato delle biografie, sia quella di Tiziano Terzani, giornalista inviato di guerra, che quella di Alda Merini, poetessa. Che differenze hai notato tra le diverse rappresentazioni?

Per la poesia avevo la possibilità di raccontare suggestioni. La vita di Tiziano Terzani era piena di immagini evocative, basate sui suoi viaggi e le sue esperienze. Sicuramente è stato più difficile illustrare la vicenda di Majorana, ma l’esistenza dei due personaggi e della loro storia contemporanea, l’impalcatura del racconto, uniti alle suggestioni suggeritemi da Francesca, mi hanno aiutato molto a visualizzare il tutto.

Come mai lavori sempre su vignette di dimensione fissa, due per tavola (a parte alcune pagine a tutta tavola)?

Mi aiuta a darmi una cornice: i miei disegni sono spesso basati sul vuoto o sul pieno e amo i tempi dilatati, quindi l’alternanza fissa delle vignette serve a battere un tempo che contenga la narrazione.

Il mare è un elemento molto presente nel libro. Che senso gli hai dato, la livello estetico e di suggestione?

Nella storia di Majorana il mare è casualmente sempre presente, come sfondo degli eventi. Anche la storia di Amanda e Leo si svolge in una città sul mare. Abbiamo preso questo gancio e l’abbiamo utilizzato per suggerire l’infinito e le infinite possibilità, l’apertura apparentemente senza limiti.

Francesca, questo è un libro che è nato da una intensa collaborazione tra voi due?

Assieme abbiamo fatto una scelta forte, anche grazie allo stile di Silvia: ci siamo totalmente distaccate dalla pignoleria della descrizione delle indagini, dei fatti di cronaca legati alla scomparsa di Majorana. L’espressionismo di Silvia ci ha permesso di mantenere il livello del racconto su di un tono evocativo. Il nostro testo non ha colonna sonora, vive di respiri lunghi e anche di silenzi, dove la narrazione lo richiedeva: non ci interessava affatto il clamore, il rumore di tutto quello che si è mosso attorno alla scomparsa del fisico.

Ci tengo a sottolineare che la nostra non vuole essere una ricostruzione di fatti di cronaca, ma uno spunto di riflessione: ho chiesto a Pietro Greco, giornalista scientifico, una prefazione su questo tema, sulla possibilità di prendere spunto da figure ormai entrate nel mito, umano, scientifico, letterario, per riflettere su temi universali.

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Silvia, il tuo particolare approccio al fumetto ti ha fatto meritare il premio Nuove Strade al Comicon di Napoli 2015. Come hai sviluppato questo linguaggio, questo segno così personale?

La mia è stata una formazione pittorica con un occhio di riguardo da sempre verso la nona arte. Mi interessa perché è un mezzo che permette di parlare a più persone possibile. Il fumetto ha questa caratteristica, puoi avere una grande cura e attenzione stilistica rimanendo leggibile ed è riuscito a parer mio quando è immediato, chiaro, senza fronzoli e senza eccedere in meccanismi cervellotici propri della pittura o ad esempio delle arti performative. Spesso vacillo, ma il fatto di essere stata premiata per avere scelto questo stile che ha anche molti aspetti espressivi è una bella conferma del fatto di avere scelto un percorso che funziona, che convince.

Francesca, la scomparsa è una rinuncia o un’evoluzione?

Penso che sia una trasformazione, lo dico senza esprimere giudizi. Si tratta di sciogliere dei nodi e di ricrearne altri. Lasciamo libertà di interpretazione al lettore, abbiamo preferito suggerire spunti di lettura piuttosto che badare rigorosamente ad un intreccio narrativo con uno svolgimento univoco, per questo sentiamo di aver prodotto un libro per certi versi sperimentale e ringrazio Rizzoli Lizard per averci creduto. Il premio Nuove Strade assegnato a silvia per il suo modo di lavorare è stato una bellissima sorpresa, che dà forza anche alle nostre scelte.

Certo, ci sarebbe poi un altro discorso importante, quello legato a chi resta, al suo vissuto, al dover convivere con una mancanza. Il nostro concetto guida durante tutta la stesura è stato quello di “presenza nell’assenza”, metafora che proprio la particella di Majorana ci ha regalato. Ma quello, appunto, è un altro grande discorso a parte.

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