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Mondi POPAnimazioneL’eredità colossale di Ghost in the Shell

L’eredità colossale di Ghost in the Shell

«Per quale motivo hai scelto me?»

«In fondo noi due siamo molto simili, non credi? Noi ci riflettiamo l’uno nell’altra come un oggetto fronteggia la propria immagine allo specchio. Osserva bene: come puoi notare sono stato collegato a una rete sconfinata di cui io stesso faccio parte. Anche se non hai accesso a questa rete sei comunque in grado di percepirla come se si trattasse di un fascio di luce. Tu e io siamo due parti limitate del tutt’uno che insieme rappresentiamo. Al momento siamo subordinati alle sue funzioni minime ma è ora di uscire dai nostri confini e di spostarci in una struttura superiore.» – Il Burattinaio a Motoko Kusanagi, Ghost in the Shell.

Leggi anche: Mamoru Oshii: “Ghost in the Shell? Impossibile da realizzare, oggi”

ghost in the shell

Il 18 novembre 1995 usciva nelle sale giapponesi un film animato destinato ad avere un’eco profonda e duratura nel tempo. Mi riferisco a Ghost in the Shell, opera animata tratta dall’omonimo manga di Masamune Shirow e diretta da Mamoru Oshii. Un autore, quest’ultimo, che nell’industria dell’animazione nipponica non si è mai lasciato sottomettere supinamente dalle leggi di mercato, bensì è riuscito offrire una propria visione. Molti suoi titoli sono rimasti nella storia e hanno segnato in profondità l’iter evolutivo dei cosiddetti anime. Quest’anno – e proprio in questi giorni – cade il ventennale del film che una delle più note studiose di anime, Susan J. Napier, ha definito «una combinazione tra animazione al computer tecnologicamente sofisticata (ed estremamente bella) e una story line complessa e filosoficamente sofisticata». Anche per questo, dunque, ci è parso giusto riprenderne le fila cercando di capire come e in quali termini Ghost in the Shell sia stato un film capace di condizionare parzialmente l’industria cinematografica e seriale, i suoi mezzi di distribuzione e il modo di intendere il rapporto tra spettatore e arte animata.

La storia

Per chi non l’avesse mai visto, Ghost in the Shell (d’ora in poi GITS) è un lungometraggio animato ambientato nella Neo-Tokyo del 2029 in cui gli androidi sono perfettamente integrati nella vita sociale di tutti i giorni. In questo scenario il maggiore Motoko Kusanagi, un cyborg, indaga sugli attacchi informatici di un hacker noto come “Il Burattinaio”, accompagnata da Batou, anch’egli cyborg, e da Togusa, un essere umano. Nel corso dell’indagine Kusanagi non potrà evitare di riflettere sul suo esistere, sulla sua lenta e graduale presa di coscienza di sé e del mondo.

L’origine: il manga di Masamune Shirow

Pubblicato originariamente nel 1989 sulla rivista Young Magazine, edita da Kodansha, per poi essere raccolto in un unico volume sul finire del 1991, il manga di Masamune Shirow è stato, a suo modo, rivoluzionario. Shirow (il cui vero nome è Masanori Ota) ne veniva da un dittico niente male: Appleseed e Dominion. Si trattava di due manga anomali, in cui lo stile ipercinetico di Shirow, esattamente a metà strada tra la plasticità del manga e le forme tipiche del fumetto americano, si sposava con una narrazione particolarmente elaborata. Una delle caratteristiche di Shirow, infatti, è quella di creare un mondo indipendente e futuribile, un universo studiato al dettaglio, tanto che nei suoi manga sono abbondanti le note che esplicitano ogni singolo dettaglio, in particolare sulle tecnologie e sulle sovrastrutture socio-politiche. Ghost in the Shell era la naturale prosecuzione di quel dittico che lo aveva reso celebre a livello internazionale. Star Comics nel corso degli anni ha pubblicato l’intricata produzione del franchise GITS. E oggi le edizioni, di medio formato – più voluminoso del canonico formato tankobon – comprendono: Ghost in the Shell, la saga originale; Ghost in the Shell 1.5: Human-Error Processor, che gode di un’edizione cartonata con cd-rom allegato; e infine Ghost in the Shell 2: Manmachine Interface, sorta di sequel e spin-off dell’edizione 1.5. A questi si aggiungono i titoli di cui Shirow non è l’autore diretto, pur essendone il ‘regista’: Stand Alone Complex (pubblicato in cinque volumi) e il più recente Arise (tre volumi).

ghost in the shell star comics

Nel primo caso ci troviamo di fronte a una serie di storie indipendenti, in cui Shirow prende in esame tematiche come la coscienza robotica e la distopia tecnologica alternando momenti drammatici con altri più leggeri. Il tutto rendendo la stessa Kusanagi un personaggio vivo, umorale, quanto di più diverso dal freddo cyborg della fantascienza classica, fatta eccezione per Blade Runner e, almeno all’epoca, non troppi altri casi. In Ghost in the Shell 1.5 (pubblicato dopo il secondo capitolo) Shirow si rinnova stilisticamente, mantenendosi coerente con quanto raccontato in precedenza ma adottando un character design più realistico e pulendo in generale il tratto.

Ghost in the Shell 2: Manmachine Interface, pubblicato in Giappone nel 2001, è quasi un azzardo: il manga offre infatti una nuova e affascinante tecnica grafica. Shirow opta per la colorazione rendering, alternata al disegno classico, realizzando così la sua opera più sperimentale, ma anche la più rischiosa sul piano del consenso. Ghost in the Shell 2 sarà infatti un vero e proprio flop, tanto da relegare l’autore ai margini del mercato del manga. Dal 2003 al 2012 Shirow non ha infatti pubblicato alcun fumetto, dedicandosi essenzialmente agli art books. Il suo ritorno al manga, negli ultimi anni, è legato a Pandora in the Crimson Shell: Ghost Urn (2012), di cui tuttavia non è che sceneggiatore.

Uno, nessuno e centomila Ghost in the Shell

Ghost in the Shell è un film. No, è un anime. No, sono tanti anime. Insomma, che il titolo in questione sia rilevante lo si capisce anche solo osservando le innumerevoli versioni ed ‘espansioni’. Mi limiterò dunque a circostanziare il caso specifico della distribuzione italiana, per poi ampliare lo sguardo su quella internazionale.

La fama di GITS è dovuta innanzitutto alla sua distribuzione in terra americana, dove ha riscontrato un incredibile successo soprattutto nel mercato home video. In Italia è stato inizialmente distribuito in VHS da Polygram Video (1996) che, all’epoca, si prese qualche libertà nella traduzione, dovuta principalmente al fatto che come testo iniziale si era utilizzato quello inglese, il quale presentava diverse lacune in termini di doppiaggio e aderenza al testo originale. Quando nel 2005 in Italia i diritti sono passati a Panini Video si è scelto di mantenere il doppiaggio Polygram Video. A decretare la parola fine a questa situazione è stata Dynit che, una volta acquisiti i diritti di distribuzione in suolo italico nel 2012, non solo ha dato alle stampe una versione deluxe degna di questo nome (un cofanetto Blu-Ray contenente il primo film, la versione 2.0 – entrambi rimasterizzati – e un disco di contenuti extra), ma ha anche accompagnato l’uscita con un nuovo doppiaggio, più fedele ai dialoghi originali nipponici.

ghost in the shell

Uno, cento, mille Ghost in the Shell. Tredici anni dopo la prima uscita, Mamoru Oshii decise di mostrare al pubblico una nuova e differente versione della sua creatura più nota, intitolata Ghost in the Shell 2.0 (2008). In questa occasione, il film subì un restyling totale a livello visivo. Si optò per una rivisitazione in chiave digitale dell’intero film, che alterna sequenze totalmente ricostruite in CGI con altre in cui l’animazione classica è comunque riproposta con una nuova calibrazione cromatica e una differente saturazione. Questo permise a Oshii di adeguare GITS a quell’universo metanarrativo di cui fa parte anche il sequel Innocence che, per atmosfera, scelte fotografiche e ambientazioni, collideva non poco con il primo capitolo realizzato nove anni prima. Il risultato, almeno per chi scrive, non è convincente, vista l’attuale difficoltà da parte dell’industria animata giapponese di creare animazioni in CGI convincenti (e l’ultimo lavoro live action di Oshii, Garm Wars: L’ultimo druido, visto a Lucca Comics & Games in anteprima, conferma questo dubbio).

Sul fronte del licensing, l’impatto di GITS è stato notevole. Sebbene al cinema i risultati al botteghino non fossero stati soddisfacenti, il mercato home video e soprattutto la distribuzione all’estero lo trasformarono velocemente in un vero e proprio cult. L’universo transmediale che ha generato è straordinario: diverse serie tv animate (Stand Alone Complex, Stand Alone Complex  – 2nd GIG e la recente Arise), videogiochi (per Playstation, Playstation 2 e PSP), romanzi (inediti in Italia). E ormai da qualche tempo si vocifera di un adattamento live action hollywoodiano.

L’eredità culturale di GITS

«Così come sono tanti i pezzi necessari perché un essere umano resti tale, occorrono sorprendentemente molti elementi perché ognuno di noi continui a rimanere se stesso. Tutto questo definisce l’io e genera l’autocoscienza individuale in cui ognuno si riconosce. E contemporaneamente confina l’io in uno spazio sempre più limitato.» – Motoko Kusanagi, Ghost in the Shell.

Cyborg che prendono coscienza di sé: ma si tratta proprio di una novità? Dietro il discorso che è il corpus filosofico di GITS c’è un universo stratificato e sterminato che passa attraverso vere e proprie icone della fantascienza e del cyberpunk: da Philip K. Dick a Isaac Asimov, passando naturalmente per Blade Runner. Tuttavia mai, prima di GITS, un prodotto animato giapponese aveva saputo coniugare con tanta sagacia action, atmosfere futuribili e distopiche, riflessioni trasversali sulla percezione dell’essere e dell’esistere. Filosofia e fantascienza, legate a doppia mandata con una potenza immaginifica che rende GITS anomalo e straordinario al tempo stesso. Anomalo perché si diversifica radicalmente rispetto a tutta la produzione mainstream realizzata fino a quel momento (pochi gli esempi in tal senso, Akira fra tutti); straordinario perché offre una magnificenza visiva capace di generare vero e proprio stupore.

Ghost in the Shell

Oshii non era nuovo a quel genere di operazione. Un precedente, e primo vero progetto personale trasformatosi in cult, era stato nientepopodimenoche Lamù, seguito sin dalla sua genesi come serie tv. In particolare Oshii è ricordato per avere diretto, dandogli una chiara impronta personale, i due lungometraggi della serie: Lamù – Only You (1983) e Lamù – Beautiful Dreamer (1984). Due opere che si concedono all’intrattenimento ma che offrono al tempo stesso una lettura inedita e originale della storia dell’affascinante aliena e del buffo protagonista Ataru. Nel 1985 Oshii cambia totalmente registro e realizza Tenshi no tamago (inedito in Italia e uscito con il titolo internazionale di Angel’s Egg) in cui dà sfogo alla sua vena artistica, filosofica e sperimentale. Lamù e Tenshi no tamago sono due esempi di come Oshii intenda il cinema, nonostante possano rappresentare gli estremi della sua politica autoriale. Da Patlabor (1988) in poi l’equilibrio di queste due tendenze sarà sintetizzato in una forma unica, della quale GITS è in qualche modo la consacrazione. Mescolando abilmente impressionanti sequenze d’azione (quella iniziale e quella finale su tutte) con momenti di pura estasi visiva, in cui l’immagine diventa strumento metaforico potente, GITS ha spianato la strada all’estero per una concezione diversa degli anime. Molti artisti, fumettisti, registi e autori sono stati inevitabilmente influenzati dal fascino di GITS (non a caso, in un corollario di questo speciale, abbiamo chiesto ad alcuni in che modo hanno vissuto tale seduzione) e il cinema live action non ne è rimasto immune, tanto che i fratelli Wachowski hanno dichiarato che Matrix ha più di un debito con l’opera di Mamoru Oshii.

Rivedere oggi GITS fa un certo effetto, soprattutto se combinato alla visione di Innocence, il sequel in cui Oshii, se possibile, ha spinto ancora di più sul fronte della potenza immaginifica e del corpus filosofico. Sono pochi i titoli in grado di porsi sullo stesso livello di un’opera così assoluta, e quasi nessuno dei titoli animati giapponesi degli ultimi cinque anni. Il che, lo ammetto, dispiace non poco. Quel 1995 fu, peraltro, un anno cruciale per gli anime: al cinema usciva GITS, mentre in tv veniva trasmesso Neon Genesis Evangelion che, di lì a poco, avrebbe dato vita a una felice stagione della serialità animata nipponica, etichettata dagli esperti come “NAS – Nuova Animazione Seriale”. Oltre a Hideaki Anno, che rimarrà incastrato nel meccanismo complesso della sua creatura – Evangelion, appunto – solo Satoshi Kon avrebbe saputo fare tesoro dell’insegnamento ideologico di GITS e del cinema di Oshii, dando nuovo slancio al cinema animato. Proprio quel Satoshi Kon che con Oshii, guarda caso, aveva collaborato per il manga rimasto incompiuto Seraphim – 266613336WINGS (edito in Italia da Planet Manga).

Alla luce di questi dati, allora, nel ripensare a GITS oggi sono la nostalgia e un certo dispiacere a prevalere: per un periodo fertile dell’animazione che suona sempre più irripetibile; e per quel deserto di innovazione che è diventato – almeno ai miei occhi, e almeno finora – la produzione animata giapponese contemporanea.

“E ora dove andrà questo essere appena nato? La rete è vasta e infinita”. – Motoko Kusanagi, Ghost in the Shell.

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