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Mondi POPAnimazioneMamoru Oshii: “Ghost in the Shell? Impossibile da realizzare, oggi”

Mamoru Oshii: “Ghost in the Shell? Impossibile da realizzare, oggi”

Lucca Comics and Games 2015. Sono nervoso, in attesa di incontrare uno dei registi più importanti nella storia dell’arte animata. Sono di corsa: subito dopo l’intervista devo partecipare al Comics Talk organizzato da Matteo Stefanelli in compagnia di Claudio Acciari e del compagno di tante avventure Enrico Azzano. Emozione che si aggiunge all’emozione. Ma perché sono così agitato?

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Foto: Diego Malfatto (Onpix)

Mi fermo un attimo a riflettere. Buona parte della mia produzione di critico ha a che fare con l’animazione giapponese. Negli anni in cui ancora in pochi scrivevano di animazione nei modi in cui si faceva per il cinema “live”, mi battevo insieme a pochi altri per un riconoscimento de facto degli anime come forma artistica cinematografica, con un’indipendenza e una dignità intellettuale pari a quella della Settima arte dei grandi autori: Antonioni, Kubrick, Tarkovskij come Miyazaki, Ôtomo e, naturalmente, Oshii. Oshii, tra tutti gli animatori, è peraltro quello che più si è posto come “regista puro”, autore in un senso classico, europeo (come lui, forse, solo Isao Takahata). Ma più di altri, Oshii mi ha sempre dato l’idea di essere, se possibile, ancora più estraneo alla molteplicità di un’animazione veramente stratificata su mille livelli, ancora più netto nel suo voler sviscerare temi complessi. Dopo aver trovato un equilibrio al proprio modo di narrare e al mettere in scena le proprie visioni (“ossessioni”, come ama definirle), si è imposto. Punto. E non sul piano produttivo, quanto su quello intellettuale. Nel cinema di Oshii gravitano diversi elementi che, inevitabilmente, si scontrano, diventando tutt’uno. L’ossessione per lo “spirito”, ovvero una coscienza che non si limiti a quella ‘umana’ ma che vada in profondità, alla ricerca di un senso altro, inedito, si intreccia con le dinamiche politiche, sociali e storiche che, spesso, sono il riflesso di quelle di un paese – il Giappone – che ancora oggi fa i conti con il proprio passato ferito. E in questo trovo che la sua coerenza autoriale abbia pochi concorrenti (penso spesso a David Cronenberg, per fare un nome).

È quasi il mio turno. Ripenso ad alcuni titoli che mi hanno lasciato senza fiato: Ghost in the Shell, Patlabor 2, Innocence, The Sky Crawlers ma anche Jin-Roh: Uomini e lupi, che porta la regia di Hiroyuki Okiura ma che è un progetto decisamente oshiiano. Mi agito ancora di più. Sono troppo coinvolto per rimanere distaccato e assumere un atteggiamento professionale. Mi chiamano, è il mio turno. È lì, seduto, sorridente, cappello giovanile e giacca in pelle, jeans. 64 anni e non sentirli. Mi calmo, all’improvviso. Gli sorrido, lo saluto e lo ringrazio, stringendogli la mano. Tutto scompare, rimaniamo io e il papà di un intero immaginario che, volente o nolente, mi appartiene, fa parte di me. Mi sento un po’ a casa, insomma.

Leggi anche: L’eredità colossale di Ghost in the Shell

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Foto: Diego Malfatto (Onpix)

Ghost in the Shell, nella sua incarnazione filmica, compie quest’anno vent’anni. Come nacque questo progetto, e come si sviluppò il suo coinvolgimento?

Il progetto di Ghost in the Shell nacque per ragioni puramente commerciali. In quel momento mi servivano dei soldi… e fortunatamente mi fu proposto questo progetto, che accettai subito. La proposta iniziale riguardava un film tratto dal manga. Ma dopo averlo letto ho capito che, così com’era, non poteva funzionare. Per questo il risultato è diviso a metà tra il manga di Shirow e qualcosa di mio, di personale. E più andavo avanti nel progetto, più questo mi appassionava.

Difficile non parlare della presenza massiccia della tecnologia in Ghost in the Shell? Rivisto oggi, sembra quasi una visione preveggente su un presente tecnologicamente alienante…

Quello era un periodo in cui la tecnologia stava entrando lentamente nella vita delle persone. I computer, i telefoni cellulari cominciavano a essere introdotti nelle nostre case. Per questo motivo l’immagine di una tecnologia diversa, futurista, era più facile da immaginare. Ora che questa tecnologia fa parte del nostro presente, mi rendo conto che un film come Ghost in the Shell sarebbe impossibile da realizzare oggi.

Ghost in the Shell è diventato, nel tempo, un tassello fondamentale nella produzione cinematografica tout court e in particolare in quella animata giapponese. Ha ispirato serie tv, film di Hollywood (Matrix ne è un esempio) e ha costretto l’Occidente a guardare agli anime come un prodotto diverso. Per la cultura cinematografica e per l’industria Ghost in the Shell è stato una rivoluzione. Ma, per lei, cosa ha rappresentato Ghost in the Shell?

Spesso mi viene chiesto se con Ghost in the Shell sono diventato ricco. La realtà è che non è successo nulla di tutto ciò. Non è stato un film campione di incassi, sicuramente non lo è stato per me. Il fatto che qualcuno lo pensi, in fondo, mi infastidisce parecchio. Al tempo stesso, però, il fatto che abbia avuto successo all’estero mi ha dato la possibilità di realizzare altri lavori a cui tenevo. Quello per cui mi dispiaccio è che in Giappone il successo è stato veramente limitato. Probabilmente, meno di un centesimo della fama riscossa dai Pokémon o Naruto

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Foto: Diego Malfatto (Onpix)

Il suo cinema, a partire da Tenshi no tamago fino a The Sky Crawler, passando per i film che ha sceneggiato come Jin-Roh o Blood the last Vampire,  è un intricato universo in cui la filosofia dell’esistere si scontra con le logiche pragmatiche della società e della politica. Patlabor 2 lo trovo ancora un esempio in questo senso, che ci obbliga a riflettere sull’immagine, la rappresentazione come strumento di deformazione della realtà. Deformare la realtà attraverso l’immagine è un po’ quello che fa il cinema. Cosa ne pensa?

Nel mio caso è il racconto a essere centrale. Le forme che prende non influiscono su di esso, che si tratti di film di animazione, film dal vivo, di manga o di romanzi. Mi viene spesso detto che tendo a fare le stesse cose, che mi ripeto e che i miei lavori siano simili. Ritengo che quello che faccio sia l’unica cosa che io sia in grado di fare, l’unico modo in cui riesco a lavorare. Anche il personaggio di Khara (la protagonista dell’ultimo film di Mamoru Oshii, Garm Wars: l’ultimo druido, presentato in anteprima a Lucca e in uscita nei cinema italiani a gennaio; ndr), il suo essere sexy, il suo taglio di capelli non deriva da una scelta ponderata ma semplicemente, come nel caso di Hitchcock a cui piacevano le attrici bionde, finisce per essere così perché il mio gusto è così. Quindi, per lo stesso motivo, anche se all’inizio sviluppo temi e situazioni diverse, con il tempo, lavorandoci torno sempre al filone principale che è sempre lo stesso: la mia ossessione.

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