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Intervista a Gabriele Mainetti, regista di ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’, tra fumetti e film

di Tina G. Neri

Abbiamo incontrato Gabriele Mainetti, regista di Lo chiamavano Jeeg Robot, con l’intento di stilare una sorta di suo scaffale di letture fumettistiche e di capire quali fossero le suggestioni alla base del suo film, in uscita proprio oggi, 25 febbraio. Senza dimenticare che il progetto del film è nato in stretta collaborazione con gli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti.

Enzo, il protagonista del film, è un piccolo criminale immerso in una Roma violenta, alla Suburra, ma anche un supereroe: la conquista dei superpoteri a seguito di un incidente cambierà il corso della sua vita e quella delle persone che lo circondano. L’elemento fantastico dei poteri, tipico della narrazione supereroistica americana, ha fatto gridare al primo vero cinecomic italiano di questi anni (anche se nel recente passato abbiamo già avuto un primo tentativo, forse poco ascrivibile a un solo genere, con Il Ragazzo Invisibile di Gabriele Salvatores).

Partiamo subito col dire che questa definizione sta un po’ stretta a Mainetti e che la chiacchierata ha spaziato dai fumetti al cinema, ai cartoni animati, all’interrogarsi su cosa e come raccontare.

[L’intervista non è stata registrata ma trascritta in seguito]

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Domanda di rito: quali sono le tue letture fumettistiche?

Devo dire che non sono realmente un grandissimo lettore di fumetti. In questo, Nicola (Guaglianone) è molto più ferrato di me. Però sicuramente i fumetti sono stati parte della mia formazione fin da piccolo. Potrei citare il Corriere dei Piccoli, ho letto molto Topolino. Amavo in modo particolare le strisce di Silver, le storie di Lucky Luke e mi affascinava tantissimo Jacovitti, sia come narratore che come disegnatore.

A un certo punto è arrivato anche il Gruppo TNT, che stravolgeva totalmente le regole. Mi riferisco soprattutto ai numeri disegnati dal grande Magnus. Il colpo di fulmine poi è stato Dylan Dog, che ho iniziato a leggere attorno ai dieci anni. Vorrei ricordare come lo raccontava Umberto Eco: il genere horror è solo un aspetto, anche secondario, della narrazione. Dylan Dog parla dell’anima, della lotta con la solitudine, con i mostri interiori. E questo lo avevamo capito molto bene all’epoca, ed era questo aspetto che ci affascinava.

Mi viene in mente un episodio di un Color Fest di qualche anno fa, scritto da Giovanni Gualdoni  [e illustrato da Mastantuono e Intini, Ndr]. Dylan doveva aiutare un anziano professore in un mondo divorato da strani esserini. Alla fine si scopriva che a portare caos e orrore nella sua realtà era una terribile malattia reale che affliggeva il professore. In quel ribaltamento finale, in quell’emozione e nella vicenda umana, c’è l’anima di Dylan Dog.

Per quanto riguarda Lo chiamavano Jeeg Robot, quali sono stati i vostri riferimenti fumettistici?

Non sono soddisfatto della definizione di ‘cinecomic’ che è stata data al film. Sicuramente c’è l’aspetto dei superpoteri e ci sono moltissime citazioni che una vasta fascia di appassionati può cogliere. Ma il senso dell’operazione, quello di cui io e Nicola parliamo da diverso tempo (collaboriamo ormai da anni) è la possibilità di raccontare storie reali e inserire l’elemento fantastico, utilizzare quella chiave per richiamare un atmosfera (di un sogno, di un ricordo) o raccontare altro.

Se ci pensi, solo il primo corto Basette ha un riferimento diretto al cartone animato di Lupin (e le nostre suggestioni sono molto più legate ai cartoni animati che non ai fumetti). Anche il secondo corto, Tiger Boy, richiama il cartone L’Uomo Tigre solo per gli elementi della maschera e del combattimento, il racconto è fruibile anche da chi non conosce il personaggio di Naoto Date.

Per quanto riguarda Lo chiamavano Jeeg Robot, la citazione è ancora più indiretta, dato che il cartone animato di Jeeg Robot è l’ossessione nella mente della coprotagonista. Abbiamo scelto proprio Jeeg perché Hiroshi ha un potere segreto che gli permette di guidare il robot, e la sua è una storia di crescita e consapevolezza dell’uso dei poteri. Ma comunque rimane una citazione collaterale rispetto alla trama del film.

Quindi non sei più un lettore di fumetti.

Lo sono ancora. Ora la mia attenzione però è più rivolta ai manga. Penso che i giapponesi siano dei grandissimi narratori, lo sviluppo della storia è sempre forte così come lo è l’attenzione per la descrizione e la crescita dei personaggi. Nel mio immaginario c’è sicuramente il grande Devilman di Go Nagai.

Ultimamente mi ha colpito molto L’attacco dei Giganti di Hajime Isayama, anche per la quantità di violenza rappresentata. Mi piace il disegno più realistico, quando vengono usati meno “gli occhi grandi”, per capirci. Il disegno di Isayama ha quel tipo di realismo. Mi piacciono molto le trame complesse di Naoli Urasawa, ho letto 20th Century Boys, Pluto… gestione della trama e complessità, profondità dei personaggi, sono tutti elementi importanti. In posizione privilegiata metto Shamo, di Hashimoto e Tanaka, e i manga di Yamamoto, come Homunculus. Takashi Miike ha tratto diversi film dai manga di Yamamoto, tra cui Ichi the Killer.

Mi viene in mente il film coreano Oldboy, di Park Chan-Wook, che è proprio tratto da un fumetto giapponese: c’è una scena di combattimento esemplare. Tutta la violenza, tutto il sentimento e l’effetto della scena si poggiano da un lato sulla regia stessa, dall’altro sulla creazione del contesto che ha portato il personaggio in quella scena. Narrazione, regia e approfondimento sui personaggi, è tutto legato.

Sono quindi ancora un lettore di fumetti, anche se le nostre suggestioni, mie e di Nicola (e ovviamente anche di Menotti, anche se in questo senso la collaborazione tra me e Nicola è ventennale), sono più legate all’animazione. Nicola parla di “generazione Bim Bum Bam”. Quelli cresciuti davanti alla televisione. La televisione, e la sua fruizione, sono ad esempio temi molto più centrali di altri all’interno di Lo chiamavano Jeeg Robot. Raccontare personaggi forti e credibili in contesti assurdi. Utilizzarli per raccontare altro. Questo era quello che ci interessava.

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Il linguaggio a fumetti ha formato invece il tuo gusto narrativo o registico?

Penso che i fumetti abbiano la grande capacità di poter raccontare tutto. Senza limiti, di budget, di fantasia. E’ un enorme bacino di contenuti. Ed è un linguaggio a sé, diverso da altri e da quello cinematografico. Non posso sapere se, ad esempio, il montaggio di un cartone come Holly e Benji abbia influito sul mio modo di montare. Però sicuramente è parte del mio immaginario. Mentre giravo le scene d’azione di Jeeg Robot, mi sono chiesto se avrei potuto utilizzare qualche elemento tipico dei cartoni animati: gli effetti cinetici del vento, i rallenty… poi ho deciso di no. Anche in quel caso, parliamo di linguaggi diversi.

Ci sono autori, molti nel panorama americano, che attingono a piene mani da un immaginario fumettistico, anzi, cartoon, legato all’animazione. Ad esempio, i fratelli Coen, soprattutto nei primi film, usavano un’estetica fortemente cartoonesca, che si traduce poi nel grottesco. Grandangoli che deformano i visi, prospettive particolari, personaggi che si picchiano senza ferirsi, macchina a mano che prende vita quasi fosse presente un osservatore invisibile. Penso che sia un’estetica influenzata dal cartoon. Anche Spielberg usa questo tipo di narrazione. Noi però abbiamo preferito un altro approccio, realistico.

Pensi che sia possibile in futuro una serialità televisiva o un cinema legato alle serie fumettistiche italiane?

C’è un grosso problema legato ad una certa esterofilia degli anni passati… Dylan Dog è ambientato a Londra, Martin Mystère a  New York… come si potrebbero trasporre in serie girate in Italia? Eppure una volta avevamo il genere, l’azione, il poliziesco, anche qui in Italia: Milano Calibro 9 è un esempio di film. Dario Argento o Bava raccontavano con forza linguistica innovativa e allo stesso tempo avevano il consenso della critica e del pubblico. Perché non possiamo tornare a utilizzare linguaggi diversi?

Sei soddisfatto del fumetto che la Gazzetta dello Sport ha portato in edicola, contestualmente all’uscita del film?

Sono molto contento della riuscita. Roberto Recchioni è uno scrittore molto solido. Quando da Lucky Red mi hanno parlato della possibilità di realizzare il fumetto, ho accettato subito.

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