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Howard il Papero e il ridere oggi, senza pensare al domani

Qualche tempo fa girava, sospinta dal perpetuo meccanismo di rilancio da social network, una di quelle strip umoristiche realizzate sfruttando fotogrammi di vari film e didascalie inserite ad hoc. Nella prima vignetta trovavamo uno smagliante Robert Downey Jr. munito di giacca sartoriale e sorriso sprezzante d’ordinanza. Ad accompagnare l’immagine la didascalia «Io sono Tony Star…». Esattamente così, troncata sulla erre del cognome. Subito sotto prendeva posto un buffo omone barbuto, dotato di occhiali fuorimoda già trent’anni fa e un bizzarro cappellino da pescatore. Si trattava ovviamente di George R.R. Martin, creatore della saga del Trono di Spade. Si noti bene che non era prevista nessuna nota o didascalia a indicarlo. Il ricchissimo scrittore se ne usciva semplicemente con un «Tony chi??». Nel terzo riquadro tornava Downey Jr. Questa volta sfatto e trasandato, con gli occhi quasi fuori dalle orbite. «Sherlock Holmes» esclamava, dando per scontato che il lettore fosse riuscito a cogliere tutti i rimandi di questo fulmineo scambio di battute.

Ho odiato questo patchwork per ben due motivi: in primo luogo perché si trattava di un umorismo così sfacciatamente postmoderno da racchiudere in se stesso tutti i problemi della narrazione contemporanea. Ovvero autoreferenzialità estrema, tendenza all’appropriazione culturale, estemporaneità e il solito, immancabile disincanto. In seconda battuta non ho potuto fare a meno di detestarlo perché davvero, davvero divertente. Nonostante tutte le accuse di nerdismo allo stadio terminale gli potessi lanciare, non potevo non notare quanto fosse acuto e scritto benissimo, con una gestione dei tempi e delle fonti davvero eccezionale. Il cambio di idea e/o opinione in un lasso di tempo infinitesimale – in questo caso reso ancora più funzionale dal fatto che ad affrontarlo abbiamo un personaggio risoluto e poco avvezzo alle regole – è uno dei meccanismi comici più rodati. Eppure qui era reso qualcosa di brillante da una serie di sovrastrutture che ormai portiamo dentro di noi senza neppure accorgercene. Sappiamo riconoscere uno scrittore di narrativa fantastica – se escludiamo Stephen King non una cosa così scontata fino a poco tempo fa – probabilmente senza aver mai neppure letto una sua pagina, consideriamo divertente sapere Downey Jr. prigioniero dei due suoi ruoli più mainstream, conosciamo a menadito i meccanismi narrativi di una saga da migliaia di pagine. Insomma, senza rendercene conto, mettiamo parecchio del nostro. Incuranti del fatto che tutto questo funzionerà in maniera così fluida e perfetta per un lasso di tempo brevissimo.

Ammettiamolo, anche solo fra cinque anni buona parte dei nuovi arrivati non avrà la minima idea di quello di cui sta parlando. Volete una prova certa? Se avete superato i trenta e avete a che fare con ventenni nella prima metà della loro decade, provate a fargli una battuta con un riferimento anche solo pre-2000. Nel 90% dei casi otterrete una persona spazientita che vi fisserà come se aveste appena parlato una qualche lingua incomprensibile. E non potete azzardarvi a fargli un torto, a meno che non vogliate costringere tutti a vivere nel nostro limbo nostalgico.

howard il papero

Se avete afferrato il senso dell’interminabile preambolo qui sopra avete già in mano tutti gli strumenti per capire cosa si possa dire su questa nuova serie di Howard il Papero. E del perché, nonostante su queste pagine se ne fosse già parlato, forse vale la pena spenderci ancora qualche parola. Sul fatto che si tratti di un fumetto spigliato, frizzante e ben allineato ai suoi tempi nessuno ha cambiato idea, solo non avevamo preso bene le misure dell’enorme difetto alle sue spalle: l’universo Marvel, ormai paragonabile a un sacco di mattoni legato al collo di qualunque buona idea gettata nel mare magnum dell’intrattenimento moderno. Sono davvero troppe, nelle pagine di questo volume, le intuizioni funzionali a una narrazione umoristica imbrigliate in richiami alla continuity delle ultime stagioni editoriali e ai luoghi comuni della grande M. Oltretutto spesso in maniera davvero troppo sottile per trattarsi di nozioni fondamentali alla comprensione di certe battute. Adesso possono anche strapparci un sorriso – sempre se vi faccia piacere rileggere per la quattrocentesima volta le vicende di un personaggio seriale che riflette sull’essere un personaggio seriale – ma anche tra solo tra un paio di anni, sfilando questo libro dalla vostra libreria, finirete per chiedervi perché vi facesse tanto ridere. Una cosa è l’omaggiare il primo numero in assoluto di Howard del 1973 replicando l’intrusione dell’Uomo Ragno anche nel debutto di questa serie, un’altra è pretendere che certi risvolti di Secret Wars siano chiari a tutti da qui a tutti gli anni in cui questo volume rimarrà disponibile alla vendita.

L’aveva capito bene anche Warren Ellis quando, messo alla guida di quel gioiello che rimane Nextwave, si era sforzato di mettere in piedi sceneggiature dotate di più piani di lettura. Per chi era al suo primo incontro con i supereroi si trattava semplicemente di una serie fuori di testa, costruita più sul modello di 2000 AD che sui canoni dei comics statunitensi. Per i conoscitori della materia invece era un pozzo di richiami e riferimenti. Quando Elsa Bloodstone, accusata di vittimismo, si indicava con foga il grosso simbolo dell’euro stampato sul petto – facendo notare beffardamente al suo avversario come quella lettera non stesse per America – non tutti sapevano si trattasse di una parodia rovesciata della famigerata battuta di Capitan America sulle pagine di Ultimates. Per molti era semplicemente un’uscita velenosa da parte di un personaggio europeo pubblicato da una casa editrice statunitense. Ognuno decodificava la battuta al suo livello di fruizione e tutti vincevano. Allora come adesso, senza grossi scarti temporali.

Questo concetto va chiarito perché, in questo Howard il Papero, del caustico personaggio di Steve Gerber non è rimasto praticamente più nulla, relegando il compito della satira alla serie del 2007 a opera di Ty Templeton e Juan Bobillo. Qui piuttosto si gioca col fuoco, richiamando il film omonimo del 1986, seppur privato di ogni forma di grottesco riferimento sessuale. Si rimane dalle parti di una stravaganza innocua e priva di asperità, senza nulla di davvero grosso di cui lamentarsi. Perfino l’iconico sigaro è stato fatto sparire. Al suo posto un bel selfie – con annessa battuta sulla duck face – con i Guardiani della Galassia. E forse il problema è proprio questo. Senza più nessuna sparata a grana grossissima sul politico o sul sociale, il tutto si limita a un gustoso gioco pop che non riesce a bastare a se stesso. Da qui il bisogno di una continua raffica di riferimenti che ne decreteranno la scadenza imminente. Destino ingrato a cui i due autori avrebbero potuto strappare la serie se si fossero limitati a mettere in piedi una commedia brillante, con un suo universo dedicato.
Anche perché in questo campo Chip Zdarsky e Joe Quinones dimostrano di saper fare il loro mestiere in maniera davvero esemplare. Il ritmo è travolgente e la necessità di infilare una battuta per ogni vignetta non infastidisce come succede in altre testate simili.

howard the duck

Encomiabile il lavoro di Quinones nell’asciugare il suo stile al limite della stilizzazione, limitando il suo approccio iper-dettagliato alle stupende copertine. C’è da dire che i Rivera alle chine aiutano parecchio in questa direzione, dando al tutto un tono davvero diverso rispetto ai canoni delle proposte statunitensi. Potrebbe apparire paradossale, ma si riesce a finire in territori ricercati sforzandosi di voler apparire più piatti e ruvidi possibile. Una forma di snobbismo che va perfettamente a braccetto con la profonda conoscenza della cultura pop richiesta per poter capire ogni sfumatura di ogni scempiaggine messa su carta dalla coppia di autori.

Forse il vero pregio di Howard il Papero è proprio questo, il saper interpretare al meglio una concezione di umorismo del tutto innocua ma che non vuole passare per completamente idiota. Metto sul mercato una serie dedicata a un papero antropomorfo che si guadagna da vivere come investigatore, ma la faccio disegnare come un fumetto indipendente dei primi anni Novanta e costringo chi la legge a sfoggiare una cultura del superfluo al limite dell’enciclopedico. Si tratta di una fastidiosa e diffusissima forma di elitismo pop che ti costringe a dire che The Big Bang Theory non lo si può guardare se non in lingua originale, perché altrimenti tutti i riferimenti migliori te li perdi. Anche se ci sono buone probabilità che di Lanterna Verde, quello della maglietta di Sheldon, non ne sai praticamente nulla. O, se siete passati al livello successivo, potreste essere tra quelli che considerano Modern Warfare – il famigerato episodio della serie über nerd Community diretto da Justin Lin – come il punto di non ritorno dell’umorismo postmoderno. Quello che ti manda in solluchero quando vedi una puntata di una sit-com universitaria dedicata al paintball e l’unico personaggio orientale della serie viene vestito come Chow Yun-Fat. Mentre, ça va sans dire, al belloccio di turno toccano canottiera e piedi nudi alla McClane. Tutto bello, verrebbe da dire tra uno stallo alla messicana e l’altro, non fa niente se dal quel punto in avanti un’ottima serie umoristica viene costretta a trasformarsi in una mera galleria di citazioni e rimandi indirizzati a una ben precisa fetta della popolazione.  Andando, tra le altre cose, a definire uno standard copiato da chiunque. Perché a noi interessa ridere adesso, e al domani ci penseremo poi.

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