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La morte di Superman, abisso degli anni Novanta

C’è ancora qualcosa da dire su La morte di Superman, quel pezzo di storia fumettistica americana datato 1992 in cui Superman perse la vita per mano del colossale Doomsday? Prima di mettermi a scrivere ho letto un po’ di tutto, scoprendo che molto è già stato detto su questo evento, a suo tempo tanto pompato dalla stampa quanto segaligno nei fatti. Persino nel nostro piccolo cortile della stampa specializzata si sono visti articoli che hanno detto tutto (o quasi) il dicibile.

Eppure qualcosa negli anfratti si può ancora trovare su quella definita come «la più grande catastrofe che si sia mai abbattuta sui fumetti dai tempi della commissione d’inchiesta di Kefauver». A parlare è Chuck Rozanski, fondatore della storica catena di fumetterie Mile High Comics. Per Rozanski tutta la saga rappresenta il nadir della speculazione che coinvolse i fumetti negli anni Novanta e, soprattutto, un certo modo di pensare al mezzo come veicolo per mosse a effetto in grado di intaccare la consapevolezza comune.

morte di superman
La copertina di Superman #75

Alla fine degli anni Ottanta, la prominenza di opere come Maus e Watchmen aveva costretto i media a occuparsi di fumetti, con una concreta conseguenza economica: un maggiore interesse verso i fumetti più “rari”, venduti a cifre via via più alte. Molte persone iniziarono infatti ad acquistare più copie dello stesso albo come forma di investimento a lungo termine, non capendo che la rarità dei pezzi era data dalla loro scarsa reperibilità, dato che per anni i fumetti erano stati pensati come un passatempo per bambini e venivano buttati una volta esaurito l’interesse. In quel periodo era la Marvel a dominare le classifiche, e DC Comics era alla ricerca di una qualche idea che smuovesse le vendite.

L’editor Mike Carlin coordinava le testate dedicate all’Uomo d’Acciaio, scritte da Dan Jurgens, Roger Stern, Louise Simonson, Jerry Ordway e Karl Kesel. Durante le periodiche sessioni in cui il team di autori programmava la stagione di storie del personaggio, fu proposta l’idea di far convolare a nozze Lois e Clark. Non propriamente un’idea all’avanguardia, però era qualcosa che avrebbe di sicuro titillato i giornali. Scrissero sulle loro lavagnone dodici mesi di storie, spalmate sulle quattro serie, Superman, Superman in Action Comics, Adventures of Superman e Superman: Man of Steel.

Nel frattempo, la ABC sta sviluppando una serie tv con Thomas Carter (Hill Street giorno e notte). Se la immaginavano come un The Newsroom anti-litteram, con Lois e Clark impegnati tra vita privata, vita di redazione e investigazioni sul campo. Quando i produttori vennero a sapere che nei fumetti Kal-El stava per sposarsi, posero il veto. Non avrebbero potuto farlo finché non l’avessero fatto loro, dicevano. Ma lo show era in stallo, perché Carter aveva mollato tutto per andare a dirigere Swing Kids – Giovani ribelli. La serie si sarebbe tramutata in Lois & Clark – Le nuove avventure di Superman, confezionata sul modello di John Byrne (Clark=personalità dominante) e traboccante di romanticismo. Ma intanto il gruppo DC Comics doveva ripartire da zero e trovare altri dodici mesi di storie.

«Non ci veniva in mente niente», raccontò Mike Carlin, «e Jerry Ordway propose di ucciderlo. Era un tormentone, lo diceva a ogni riunione, quando arrivavamo a un punto morto. Questa volta però gli demmo retta».

Risultato: Kal-El muore (resuscitato dopo qualche mese, passerà il resto del decennio pettinato con un mullet) e il suo vuoto viene riempito da quattro figuri che si proclamano il nuovo Superman. Qui ci sono alcune tra le idee più matte mai partorite da un editore di supereroi dopo Marville: Superboy, un clone adolescente del Nostro; Steel, al secolo John Henry Irons, un incrocio tra l’eroe folkloristico John Henry e la “quota nero” del fumetto; Cyborg Superman, un altro clone di Superman ibridato con Cyborg, un vecchio nemico dell’Azzurrone; e poi l’Eradicatore, un alieno diventato un corpo d’energia miscelato con le ultime forze rimaste nelle cellule di Superman. A posteriori, alcuni accademici cercheranno di trovare delle letture da far aderire ai quattro, che sarebbero, nella visione di saggi come The Ages of Superman: Essays on the Man of Steel in Changing Times, il riflesso della società americana – la paura della tecnologia, la geopolitica post-guerra fredda, la lotta delle minoranze.

Interpretazioni peraltro interessanti, ma che cozzano con una generale confusione nella messa in scena della saga in questione, ora troppo ingarbugliata, ora troppo semplicistica. A rendere il tutto ‘tirato via’ ci pensa soprattutto Doomsday, antagonista tutto muscoli creato per essere un contrappunto fisico a Kal-El (dove tutti gli altri suoi avversari erano cerebrali) e le cui origini verranno raccontate postquam nella miniserie Il cacciatore e la preda – dove si scopre che in realtà Doomsday è una vittima degli eventi. Un a posteriori che ti priva del piacere di parteggiare senza riserve per Superman.

La battaglia vera e propria con Doomsday si articola in quattro numeri, ognuno dei quali utilizza la medesima soluzione compositiva: una ‘griglia’ comune. Prima pagine da quattro vignette, poi tre, poi due, finendo con Superman #75, il numero della morte, composto da ventidue splash page. Un espediente che nelle intenzioni degli autori avrebbe dovuto comunicare il crescendo dell’azione e che sembra il corrispettivo su carta di un approccio alla Michael Bay o Zack Snyder. Come nel fumetto, per questi registi ogni momento, anche il più insignificante, merita un grandangolo. D’altra parte, la storia punta tutto sull’evento capitale della morte di Superman, ma privata di quella non si ritrova poi ad avere molto. Un po’ come una lunga puntata di Dragon Ball Z. L’episodio del funerale, a patto di calarsi nei panni del lettore dell’epoca – che si vedeva crollare il terreno sotto i piedi – potrebbe ancora fare un certo effetto. Ma oggi l’unica persona che può commuoversi per quella storia è Louise Simonson, che l’ha scritta.

morte di superman
Tre pagine, affiancate, di Superman #75

Nel panorama dell’intrattenimento a banda larga, l’evento DC è stato (ri)legittimato solo di recente, con l’acme dell’apparizione cinematografica di Doomsday in Batman v Superman: Dawn of Justice (e in precedenza nel cartone Superman: Doomsday e, con una comparsata, in Smallville). La storia non è granché rimarchevole, e di certo non la possiamo annoverare tra le bagnamutande dei fan.

La domanda che costringe a farci tutto ciò: perché riallacciarsi a quel pezzo di memorabilia pop? Perché, in pratica, La morte di Superman è come il cunnilingus per i rapper.

Seguite il filo: nei testi dei rapper a cavallo tra i due secoli, il cunnilingus (e in parte il suo cugino sotto la Manica, il rimming) viene stigmatizzato come una cosa che un vero nigga non farebbe. Rilievi ce ne sono a sbrancate, direi che il più esemplificato è quello di DJ Quik, che ha dedicato un’intera canzone, Can I Eat It?, al rifiuto di baciare all’austrialiana. Così l’insieme degli atti orali viene usato dalle poche rapper come Lil Kim, Khia o Foxy Brown come strumento di dominio sessuale. A dire, gli uomini per legittimarsi scrivono di quanto scopano in giro, le donne si vantano di poter far fare tutto quello che vogliono ai loro partner. La cosa si è estesa nella cultura popolare: in Clerks II l’anilingus viene bocciato senza appello, e sappiamo tutti cosa pensa del cunnilingus Michael Douglas. Poi, negli anni Dieci, l’ascesa di molte cantanti rapper e lo sdoganamento tra artisti come Drake o, soprattutto, Li’l Wayne, che lo usano come dimostrazione altruistica del loro interessarsi al piacere della donna, hanno portato a una generalizzazione del cunnilingus (con conseguente ascesa del rimming a strumento di controllo da parte delle donne, perché non altrettanto mainstream).

Ora, La morte di Superman non è forse la stessa cosa? È una cosa che, pur essendo stata sulla bocca di tutti, a metà degli anni Novanta nessuno voleva toccare. In quegli anni la Warner Bros stava tentando di rilanciare Superman al cinema e non voleva saperne di avere a che fare con «quelli che fanno fumetti». Era una cosa che, nelle sue estreme diramazioni, portò a Emerald Twlight, una storia in cui la Lanterna Verde Hal Jordan diventava un supercattivo (portando un gruppo di lettori talebani a fondare la lobby HEAT per spingere a ripristinare lo status quo precedente). Fu una cosa che contribuì a far scoppiare la bolla speculativa: alla fine del 1993, per colpa di questa e altre lordure, nove fumetterie su dieci chiusero i battenti, e il mercato del fumetto si ridusse dell’80%. E ora è stato – in parte – adattato per un blockbuster multimilionario.

doomsday
Il Doomsday di Batman v Superman

Come insegna Mr. Brainwash, che nel mocumentary Exit Through the Gift Shop comprava balle di vestiti a 50 dollari e rivendeva i singoli pezzi a 400, il riciclo è sempre remunerativo: ci vengono proposti concetti e idee spacciandole per recuperi nostalgici nella speranza che il tempo abbia scartavetrato le asperità. Certo, parlare di recuperi nostalgici ha superato da tempo la soglia della scontatezza. Più interessante è rivelare che, mentre la gran parte delle produzioni pesca molto nel mare degli anni Ottanta – il prossimo X-Men sarà un frullato di situazioni e personaggi di quel decennio – la DC abbia gettato l’amo nel sordido laghetto degli anni Novanta. Nel 2012 Il cavaliere oscuro – Il ritorno presentava IL cattivo scialbo di Batman, Bane, creato come Doomsday negli anni Novanta per una saga ‘trasformativa’ (Knightfall) in cui Batman si rompeva la schiena e veniva sostituito da un francese. Dall’altra parte della barricata, la Marvel si tiene ben lontana dal produrre adattamenti de La saga del clone – almeno al cinema, poi nei fumetti fa molto meno la schifiltosa. Non so se sia la volontà di pescare nel nostalgico per il puro esercizio di farlo o se sia un tipo specifico di recupero, una nostalgia cinica e denigratoria, fatta su misura per i giovini disillusi dall’arido cuore post romantico (©Diego Cajelli) che possono latrare insieme a Mickey Rourke: «L’ho odiata quella merda degli anni ’90!». Si situa su questa stessa linea di condotta il corto di Max Landis Death and Return of Superman, un riassunto della storia in versione drunk history che insieme omaggia e canzona una trama zeppa di momenti stranianti.

Però Landis spara ai pesci in un barile. Così ho fatto una cosa: ho scritto direttamente a Dan Jurgens, per fargli riequilibrare la situazione. Jurgens è uno degli autori del think tank che portarono alla morte di Superman ed è lui l’artefice materiale della dipartita (viene pure ringraziato nei titoli di coda di Batman v Superman). Prevedibilmente, non ha che parole d’affetto verso questo suo figlio scalcagnato: «La gente l’ha adorato. È stato un evento storico nel mondo dei fumetti. È stata apprezzata da tutti e ha portato un grande numero di nuovi lettori. Non passa convention senza che una persona mi dica che La morte di Superman è stato il suo primo fumetto letto».

Superman #75, il numero in cui Superman tirava le cuoia, uscì il 18 novembre 1992 e vendette sei milioni di copie, grazie a una campagna mediatica pantagruelica e a una doppia edizione, da edicola e da fumetteria, quest’ultima con l’albo chiuso in un sacchetto nero contenente varie amenità – la fascia da braccio per il lutto, una copia del Daily Planet, il fumetto stesso. «Non succederà mai più» dice Jurgens. «Un evento del genere, con tutta quella copertura mediatica. Troppe cose dovrebbero allinearsi per farlo funzionare e pare improbabile che questi fattori siano in grado di sincronizzarsi di nuovo». Quando parla di copertura mediatica, Jurgens minimizza. Televisioni, quotidiani, picchetti a presidiare fuori dalle fumetterie. L’evento fu talmente strombazzato che perfino il Saturday Night Live ne fece una parodia. E anche da noi, un po’ tutti i giornali ne parlarono.

morte di superman roger stern
Una caricatura di Roger Stern prende in giro l’evento editoriale, creando un cortocircuito metanarrativo

All’epoca, gli eroi DC erano più conosciuti dal pubblico e più facilmente notiziabili. Il sondaggio telefonico per decidere il fato di Robin in Una morte in famiglia aveva catturato l’attenzione dei quotidiani; il matrimonio tra Clark Kent e Lois Lane più tardi avrebbe fatto lo stesso. Che la Marvel avesse fatto dichiarare a Northstar la sua omosessualità era un fatto privo di interesse, perché nessuno conosceva Northstar. Anzi, mettersi a spiegare che era un membro di Alpha Flight avrebbe peggiorato la situazione. Ma gli uffici stampa DC, stando alla vulgata, non si erano preparati per tutti quei riflettori. Impararono a loro spese che la luce dei fari scotta da morire (quest’ultima frase va letta con l’intonazione di Federico Buffa, sennò non rende).

A ridosso dell’uscita di Superman #75, Peter David scrisse un lucidissimo pezzo nella sua rubrica But I Digress… in cui raccontava gli affanni d’immagine della DC, «che mi ricorda quei professori universitari negli anni Sessanta che si facevano crescere la barba e indossavano collanine per far vedere ai più giovani che anche loro potevano essere fichi». David analizzava gli uffici stampa del fumetto in generale, spesso impreparati a una comunicazione di massa. Concludeva dicendo che «No, la morte di Superman non è una storia, perché la morte nei fumetti è senza senso».

Forse sta qui il lascito ultimo della saga. Nello stesso anno d’uscita del fumetto, il 1992, veniva dato alle stampe il saggio di Francis Fukuyama Fine della storia. Fukuyama diceva che, mentre gli eventi continueranno ad accadere, la Storia come evoluzione sociale è terminata insieme alla ricerca di una forma di governo definitiva – che per l’autore è la democrazia liberale. Similmente, dopo La morte di Superman, pur continuando a venire raccontate storie in cui il protagonista della testata muore (e rinasce poco dopo), il senso di morte ha perso qualsiasi peso e contesto. Le parole di David hanno senso adesso, ma prima degli anni Novanta c’erano state morti definitive che avevano lasciato un segno permanente sulla narrazione seriale. In pratica, La morte di Superman ha ucciso il concetto stesso di morte.

Non è per caso che Joe Quesada, editor-in-chief della Marvel a cavallo tra i due secoli, ideò la regola “Morto resta morto” per evitare di annacquare la forza del meccanismo. Ma non è servito a granché. La regola aurea secondo cui esistono solo tre personaggi dati per morti nei fumetti, Jason Todd (il secondo Robin), Bucky, la spalla di Capitan America, e zio Ben, l’amato parente di Peter Parker, sembra una barzelletta, e anche figure illustri come Gwen Stacy o, per l’appunto, zio Ben sono in pericolo di (ritorno alla) vita. Poi Gwen Stacy, grazie a/per colpa di Spider-Gwen, è come se fosse qui a tormentarci ogni giorno.

Visto da qui, La morte di Superman è stato uno dei momenti che hanno plasmato una strana decade del fumetto. Dan Jurgens, che l’ha vissuta, ha altre idee e apre spiragli che non sono sicuro di voler indagare: «Gli anni Novanta non sono stati un periodo strano per i fumetti. È stata un’era con le sue caratteristiche, certo, ma non la definirei strana. Francamente, il momento in cui viviamo ora è più strano di quanto siano mai stati quegli anni».

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