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FocusPantera Nera, l'Africa e la questione identitaria

Pantera Nera, l’Africa e la questione identitaria

Tra i numerosi supereroi di Marvel Comics, Pantera Nera non è mai stato annoverabile come un personaggio di punta, nonostante le sue ‘nobili’ origini. I suoi ideatori sono i padri costituenti in persona della Casa delle Idee, Stan Lee e Jack Kirby, anche se forse la sua creazione è attribuibile più al secondo che al primo. La sua prima apparizione è sulle pagine di Fantastic Four #52 del luglio 1966, albo in cui Pantera Nera – alias T’Challa, scienziato e sovrano dell’immaginaria e tecnologicamente avanzata nazione del Wakanda – si scontra con i Fantastici Quattro, prima di allearsi con loro per affrontare il criminale Ulysses Klaw, che diventerà poi uno dei suoi arci-nemici principali.

pantera nera
La prima apparizione di Pantera Nera su Fantastic Four #52

Il 2016 segna dunque il cinquantesimo anniversario del personaggio, ma anche l’anno in cui potrebbe per lui arrivare la notorietà internazionale. Pantera Nera sta infatti per fare il suo ingresso nel Marvel Cinematic Universe, a partire dal lungometraggio Captain America: Civil War in uscita a maggio – che porterà poi a un film interamente dedicato a lui, previsto per il 2018. Questa settimana, inoltre, è arrivata nelle fumetterie americane una nuova serie regolare a fumetti che ha fatto molto parlare di sé ancora prima dell’uscita del primo albo, grazie in particolare al nome dello sceneggiatore, Ta-Nehisi Coates, giornalista e romanziere afroamericano, definito come una delle più influenti voci della comunità afroamericana, finora estraneo al mondo del fumetto (anche se grande appassionato fin da bambino). Il primo numero ha superato le trecentomila copie in pre-ordine, facendo registrare un ottimo risultato e dando ragione alla scelta della Marvel.

Come già accaduto in passato, quindi, il nome di Pantera Nera – primo supereroe nero del fumetto americano – è legato a quello di un autore afroamericano: Coates succede infatti ad autori come Dwayne McDuffie, Denis Cowan e Reginald Hudlin. Il supereroe fu tra i più popolari nei college statunitensi negli anni Sessanta e Settanta – quelli della nascita della controcultura – per la sua capacità di attrarre un pubblico trasversale e attento alle questioni sociopolitiche d’attualità, anche se il suo nome non ha nulla a che vedere con il coevo movimento delle Pantere Nere – tanto che Stan Lee glielo cambiò, per un breve periodo, in Leopardo Nero, per evitare una sovrapposizione ideologica non voluta.

In una recente intervista rilasciata al New York Times, Coates ha sottolineato come una delle più grandi contraddizioni del personaggio risieda però da sempre nel fatto che si tratta di un re africano impegnato per la maggior parte del tempo negli Stati Uniti, in compagnia dei Vendicatori o di altri supereroi, anziché nel proprio paese natale: «Nel procedere della serie, una domanda si impone sulle altre: T’Challa è davvero un buon re? Non sono sicuro che gli piaccia fare il re. Questo tipo viene visto a New York in continuazione. È come se avesse sempre qualcos’altro da fare, oltre a essere re». Questa contraddizione era già particolarmente evidente, tanto da essere già rilevata da altri sceneggiatori fin dagli anni Settanta, anche se non particolarmente sfruttata.

Pantera Nera è il più importante supereroe africano della storia del fumetto americano, figlio se vogliamo di una visione idealizzata e a tratti parodistica – tipica degli anni Sessanta – del continente, ma non privo di spunti interessanti come quelli messi in rilievo negli anni Settanta da Don McGregor nel ciclo di storie intitolato La rabbia della Pantera Nera (QUI da noi recensito) e pubblicato tra il 1973 e il 1976. Il personaggio di McGregor – tornato di stanza in Wakanda – era fortemente patriottico e politicizzato, tanto da rivendicare in pieno le proprie origini indossando per esempio tipici abiti e ornamenti africani. Nonostante questo, era considerato un ‘traditore’, dato che passava più tempo con i Vendicatori che con i suoi compatrioti, ma – in un’epoca in cui il confine tra luce e ombra era quasi sempre molto netto – lui era necessariamente il buono della situazione, e quindi poteva godere dell’appoggio incondizionato della maggioranza dei suoi sudditi.

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La collocazione geografica del Wakanda, resa graficamente da John Romita Jr. e Klaus Janson

Con McGregor, lo stesso Wakanda – paese spesso collocato nel cuore dell’Africa nera, tra Somalia, Kenya ed Etiopia – assunse dei connotati più realistici. Se prima di allora era annoverabile come stato africano quasi solo per la presenza di giungle e animali selvaggi, in queste nuove storie iniziò ad avere contorni più precisi e contemporanei, caratterizzandosi come una nazione con un forte contrasto tra tradizione e modernità (come potrebbe essere oggi la Nigeria) e in cui le agitazioni politiche erano all’ordine del giorno. Ed è su questa base che gli scrittori hanno poi continuato a caratterizzare la nazione, da Christopher Priest (tra il 1998 e il 2003) a Reginald Hudlin (che ha raccontato le avventure del personaggio nel 2005). Quasi dalle stesse premesse – ma aggiornate con una sensibilità più moderna – è partito ora anche Ta-Nehisi Coates, che nel primo albo della sua nuova serie sembra volerci offrire proprio un Wakanda lacerato da guerre intestine, partendo da un’altra forte contraddizione da lui rilevata: «Wakanda è la nazione più avanzata al mondo, con una popolazione particolarmente istruita. Perché questa dovrebbe accettare una monarchia?».

Ma com’è visto nella realtà di oggi il personaggio di Pantera Nera dai lettori di fumetto africani? A questa domanda ha provato a rispondere dalle pagine del portale Bleeding Cool Abdulkareem Baba Aminu, giornalista, autore di fumetti, scrittore e poeta nigeriano e co-proprietario di una fumetteria nel suo paese natale. «Da bambino, era indescrivibilmente incredibile che un personaggio come Pantera Nera anche solo esistesse», rivela Baba Aminu. «C’era qualcosa del personaggio che parlava a me e al mio essere africano. Mi faceva sentire orgoglioso, perché era un nobile. Mi faceva sentire sicuro, perché era potente. E mi faceva sentire anche responsabile, perché, voglio dire, era un re con tutto il potere che si potesse immaginare, ma si sporcava le mani facendo il supereroe e combattendo i cattivi per salvare il mondo. Per salvare me e ovviamente voi. Se un potente monarca poteva essere così altruista, che doveva dire un semplice mortale come me?»

Dai commenti di Baba Aminu e dei suoi amici ospitati nell’articolo citato, emerge un dato fondamentale: nonostante le contraddizioni e i limiti di un personaggio che comunque fa parte di un mercato mainstream come quello del fumetto americano – costretto a vivere le sue avventure principalmente negli Stati Uniti per questioni di semplificazione narrativa e di immedesimazione da parte del grosso dei lettori –, Pantera Nera crea un senso di appartenenza identitaria come pochi altri supereroi sono riusciti a fare nel corso dei decenni. Neppure Capitan America – pur con il suo costume bianco, rosso e blu – riesce probabilmente a incarnare con altrettanta forza il popolo americano.

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Una tavola di Brian Stelfreeze per la nuova serie Black Panther, sceneggiata da Ta-Nehisi Coates

Baba Aminu riusciva a esaltarsi quando, nella serie dei primi anni Duemila scritta da Priest, Pantera Nera e gli altri wakandani parlavano una lingua chiamata hausa, una delle tre principali della Nigeria, «la lingua che parlavo da bambino e che ancora parlo, la lingua franca da cortile a Kaduna [una delle principali città nigeriane, ndr], dove sono cresciuto».

A lui, nello stesso articolo, fanno eco altri lettori africani. «La ricchezza del personaggio di Pantera Nera mi parlava», riferisce Mohamed Marwa. «Era un re, intelligente e, ovviamente e soprattutto, era africano. Negli anni Ottanta, tra gli stereotipi africani c’erano l’affamata Etiopia o uomini selvaggi alla Tarzan, così era davvero confortante avere Pantera Nera a cui guardare. A quei tempi, pensavo anche che avesse preso il suo nome dal movimento delle Pantere Nere, il che ovviamente ne innalzava la statura, ai miei occhi.» Sewedo Nupowaku si sofferma invece sulla serie più recente, quella di Hudlin, definendola «un potente miscuglio di commenti sociopolitici su razzismo, economia e tecnologia, oltre che uno spaccato visionario del futurismo africano».

Coates è quindi nelle condizioni – per attitudini personali e materiale a disposizione – di potersi calare nello spirito della Marvel attuale, caratterizzato dal multiculturalismo di Sana Amanat e Willow G. Wilson, e spingere magari il confine un po’ più in là, offrendoci un punto di vista forse non inedito, ma perlomeno stimolante.

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