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FocusIntervisteJohn Cassaday, una carriera da sogno

John Cassaday, una carriera da sogno [Intervista]

*English text

I disegni di John Cassaday sono la cosa che meno rappresentano l’uomo John Cassaday. Dove i primi sono belli ma algidi, rigorosi e in grado di soggiogare l’occhio di chi guarda, il secondo è alla mano, un tranquillone straigh outta Texas dalla parlata piana e onesta. Artefice di alcuni dei più grossi blockbuster a fumetti degli ultimi quindici anni, Cassaday ha navigato le acque alte di Planetary, ha consegnato alla storia uno dei cicli più memorabili degli X-Men (Astonishing X-Men, con il compare Joss Whedon) e ora è una delle matite più prestigiose del fumetto americano.

Concept artist (Watchmen) e regista (Dollhouse), Cassaday è stato uno degli ospiti Panini della scorsa Lucca Comics and Games, dove Fumettologica lo ha incontrato per parlare della sua carriera.

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I tuoi inizi come fumettista sono per lo più sconosciuti. Come hai cominciato?

Sono entrato nel mondo dei fumetti nel 1996, dopo aver portato un portfolio di miei lavori alla convention di San Diego. Era la prima a cui andavo. Sono cresciuto in Texas, ero stato a delle convention organizzate vicino a me quando ero più giovane ma non c’era mai nessuno a cui mostrare nulla. San Diego fu la mia prima, grande, convention. Portai il portfolio e lo mostrai in giro, incontrai alcuni editor della Dark Horse e loro furono subito ricettivi. Iniziai così.

Leggevi fumetti da piccolo?

Sì, li adoravo. John Byrne, Frank Miller, Jack Kirby. Leggevo un sacco di fumetti, per lo più Marvel, ma anche tanta DC.

Niente di sudamericano? Perché hai un certo gusto argentino.

No, ma deve essere così perché quando mi chiamano dalla Francia o dall’Europa per qualche progetto pensano sempre che io sia europeo o di qualche altro posto. Anche loro ci vedono un qualcosa d’altro in me.

Una tua grande ispirazione è l’illustratore N. C. Wyeth. Un sacco di fumettisti citano gli illustratori come modelli. Eppure fumetto e illustrazione sono cose diverse.

In realtà non molto. Sono simili. Gli illustratori non sono altro che copertinisti. Raccontano una storia con una sola immagine. Guarda ai lavori di N. C. Wyeth. Faceva illustrazioni per romanzi classici come Robinson Crusoe o L’isola del tesoro, erano dieci o dodici dipinti per tutto il libro. Ognuno di loro raccontava una storia. Poteva cogliere un momento che nel romanzo era solo accennato, un momento che non viene descritto e di cui non leggi. Per esempio, ne L’isola del tesoro il ragazzo dice di aver lasciato casa, trovato la nave e intrapreso il suo viaggio. Ma non viene descritto mentre se ne va di casa. Uno dei dipinti del libro invece ritrae il giovane che va via con uno zaino in spalla e sua mamma alla finestra che piange perché vede il figlio partire. Wyeth colma una lacuna. Erano cantastorie anche loro, solo che lo facevano con un’immagine singola, eppure cercando di raccontare più di quanto quell’immagine mostrasse.

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Riguardando uno dei tuoi primi lavori, la miniserie X-Men/Alpha Flight, si vedono già alcune delle caratteristiche del tuo stile, però nel complesso il segno è molto diverso. Quando ripensi a quei lavori, ti ci rivedi ancora?

È difficile riguardare le vecchie cose. Poi, sai, quel lavoro voleva essere un tributo alle vecchie storie di Chris Claremont e John Byrne e ai vecchi numeri degli X-Men e di Alpha Flight. Era un omaggio con infuso un po’ di me. Ed ero nuovo nel settore, stavo ancora imparando e assorbendo tutto quanto. Quando inizi c’è un periodo di tempo, ogni due o tre anni, in cui, dopo qualche numero di qualsiasi cosa tu stia facendo, pensi «Oh, questo non l’ho mai fatto prima. Okay… Bello». Uno di quei passaggi per me fu Desperados. Se guardi all’inizio e alla fine… Posso guardare il numero uno e il numero cinque e vedere un grosso salto. Guardo Planetary, guardo i primi dodici numeri e vedo una progressione. Non so se fossi alla ricerca del mio stile o cosa, ma di certo ero via via sempre più a mio agio a raccontare quella storia.

Io sono legione è un altro di quei salti, mi pare.

Lì ho dovuto adattarmi perché la sceneggiatura era densissima. C’era un sacco da raccontare e dovevo essere certo che ci fossero tutte le informazioni dove di norma avrei avuto più spazio per respirare, più spazio per giocare. Ma avevo un certo numero di pagine e si trattava semplicemente di una storia più fitta che andava raccontata in meno pagine.

Frank Cho si è lamentato del fatto che il fumetto sia in mano agli sceneggiatori e che questi non siano capaci di pensare al fumetto come a un mezzo visivo. Concordi?

Non so se sono d’accordo. Dipende dagli autori. Dipende dalle persone con cui stai lavorando e io lavoro con sceneggiatori con grande senso visivo. Sanno come raccontare una storia e io devo soltanto dirigerla. Sono il regista, scelgo le inquadrature e le performance e tutto il resto. Ma con un grande sceneggiatore dovrebbe essere già tutto lì. Leggo la sceneggiatura e lo vedo. È semplice. Leggo le pagine e vedo quello che devo disegnare.

Quindi non pensi che gli sceneggiatori siano poco equipaggiati per pensare attraverso le immagini?

Di nuovo, dipende dalle persone. Alcuni autori devono scrivere il doppio di altri per comunicare tutte le informazioni necessarie a un disegnatore, ma varia da persona a persona. Altri scrivono pochissimo e il disegnatore ha già capito tutto ed è fatta. Gli sceneggiatori con cui ho lavorato ricadono in quest’ultima categoria, non complicano le cose. E io parto da lì per fare il mio lavoro.

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Su Star Wars immagino che tu abbia avuto difficoltà a ricreare volti di attori noti, magari appoggiandoti a foto di scena. Non avevi paura di un effetto uncanny valley?

Be’, ogni volta che ti basi su qualcosa di reale aggiungi una complicazione. È una sfida, cerchi non soltanto di ottenere le facce giuste e di renderli simili al modello ma devi anche fare in modo che stiano dicendo le cose che vogliono dire. In generale, l’esperienza su Star Wars è stata diversa dal solito. Una volta che hanno assemblato il team creativo, ci hanno portato allo Skywalker Ranch, alla Lucasfilm, e ci siamo seduti con il comitato che tiene le fila di tutte le storie a canone. Fanno in modo che tutti i pezzi siano coesi tra di loro. Gli abbiamo spiegato che cosa pensassimo di fare e ci hanno detto: «Potreste pensare a questo o a quest’altro/No, questo va bene/Sì, ok, fate come volete/Ah, con questo personaggio faremo questa cosa, tenetene presente perché potrebbe interferire».

Hai lavorato come concept artist e regista. Il processo creativo quando usi mezzi diversi è lo stesso?

Nei suoi meccanismi base, sì, è la stessa cosa. Ma quando dirigi hai una troupe intorno a te, invece di disegnare qualcosa devi spiegare agli attori di che si tratta, devi spiegare al direttore della fotografia di che si tratta, allo scenografo e così via, non puoi disegnarlo e basta. E poi, quando sei sul set, devi fare in modo che tutti abbiano capito cosa vuoi. Essenzialmente, hai un’inquadratura e sai nella tua mente che cosa vuoi. E continui finché non ce l’hai.

Ma il grosso del lavoro è abituarsi a lavorare in gruppo. Del tipo, mi mettevo a disegnare ogni oggetto di scena e loro mi facevano «No, quello è compito di un reparto apposito». Quindi facevamo delle riunioni sul design e io gli mostravo i miei schizzi. Oppure andavo dal direttore della fotografia e gli dicevo «Ecco gli storyboard». Anche se in realtà non c’era mai tempo per fare nulla, dovevi andare, avere idee sul da farsi e poi andare andare andare.

I fumetti sono più facili e più difficili allo stesso tempo, ma entrambi i lavori hanno lati positivi e negativi. Io li amo entrambi, si tratta di raccontare una storia, cosa succede, cosa succederà. È tutto lì, e molto di quello che faccio nei fumetti ha un gusto cinematografico, quasi da storyboard, una sensibilità fluida. Fare il regista è stata una conseguenza naturale di questo aspetto.

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Con Planetary sei entrato nel canone fumettistico, non so se fai mai una lista delle tue cose preferite.

Be’, le cose di cui sono più fiero sono Planetary, Astonishing X-Men, Star Wars…

Ma eri consapevole della portata dell’opera che stavi realizzando?

Ne ero consapevole fino a un certo punto. Sapevo che stavamo facendo qualcosa di speciale. Era speciale per me, come lettore e fan dei vecchi romanzi pulp, dei vecchi film, non stavamo giocando con l’idea di vecchi fumetti e vecchie icone, giocavamo con tutto. Con il cinema d’azione di Honk Hong, i film di John Woo e la fantascienza in generale. Già all’epoca mi sembrava una cosa unica.

E senti mai Planentary come un peso o un paragone importante, quando accetti un nuovo incarico?

Non penso «Oh, questo sarà come Planetary», perché è uno standard difficile da raggiungere e perché per raggiungere Planetary occorre qualcosa di molto rimarchevole. Quando devo scegliere se ipegnarmi in un progetto pondero a lungo, è un processo di scelta lungo e ragionato. Sono molto schizzinoso su quello che faccio, in generale.

Ti fanno tante proposte anche fuori dal mondo dei fumetti?

Sì, ma bisogna essere molto cauti sui lavori da regista, perché sono molto impegnativi. Se decidi di fare qualcosa è meglio che tu sia molto appassionato dal progetto. Per quanto riguarda il concept artist o i lavori di design, di solito non li accetto. L’ho fatto una volta per il film di Watchmen ma solo perché era una cosa speciale. Capita che mi offrano lavori del genere, ma non mi piace essere un ingranaggio nella macchina, voglio essere al posto di guida, non voglio perdermi nelle profondità del macchinario. Sono lavori incredibili, eh? E quelli che lo fanno spesso sono molto talentuosi, ma non è una cosa che mi entusiasma.

Quando pensi alla tua carriera, se mai ci pensi, vedi un qualche percorso?

Quasi tutto quello che ho fatto, l’ho fatto prendendo molte decisioni, ed erano tutte atte a realizzare un sogno, in un certo senso. Planetary rispondeva al mio amore per fantascienza retrò, vecchi film, romanzi, show radiofonici. Era un modo di incanalare tutto questo in qualcosa di speciale e unico e apparentemente nuovo al pubblico. Quando feci X-Men fu un altro sogno realizzato, perché sono cresciuto con gli X-Men e accadde nel migliore dei modi, con Joss [Whedon]. Stessa cosa con Star Wars: riuscire a farlo in quel modo, il primo fumetto Marvel della saga dell’era moderna, in canone e con uno sceneggiatore bravissimo. A grandi linee, tutto quello che ho fatto finora nella mia carriera risponde alla ricerca di un certo sogno. Ma ho ancora tanti sogni da realizzare. Ho un triliardo di altri sogni.

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