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RecensioniNovitàAlan Moore, Providence e il citazionismo

Alan Moore, Providence e il citazionismo

Con il secondo volume dell’edizione italiana di Providence, prosegue l’incursione di Alan Moore e Jacen Burrows negli Stati Uniti all’inizio del XX secolo. Un viaggio che si snoda su molti livelli, in cui l’esplorazione dell’Es – rifacendoci alle classiche categorizzazioni freudiane – del protagonista si mescola e si confonde con una lenta discesa nel subconscio di un’intera nazione.

Delle tematiche affrontate da Moore nel corso di questa rivisitazione del corpus lovecraftiano abbiamo già trattato ampiamente in occasione della recensione del primo volume di Providence. Le postfazioni di Antonio Solinas, che arricchiscono i due bei volumi finora pubblicati, rappresentano inoltre un’ulteriore – e molto ben condotta – occasione di approfondimento. Per chi volesse invece districare nell’intrico di rimandi all’opera di Lovecraft si consiglia di rivolgersi all’approfondita analisi, dal “mostruoso” livello di dettaglio, pubblicata sul sito Facts in the case of Alan Moore’s Providence. Si raccomanda però la consultazione di questa guida dopo la seconda se non la terza lettura del fumetto.

In questa seconda recensione tralasceremo comunque, per lo meno parzialmente, questi aspetti di Providence, per concentrarci su altri, forse meno evidenti.

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Si può arrivare a creare una narrazione ambigua seguendo percorsi differenti. Per narrazioni ambigue si intendono narrazioni polisemiche, che si aprono al mistero della vita intesa come divenire e scoperta e che tendono a includere aspetti poco chiari o del tutto oscuri, spesso descritti tramite la loro polivalenza o la loro assoluta, reale o percepita, mancanza di senso. Per dirla con uno scrittore caro – anche – a Lovecraft, narrazioni che prendono come assunto che «Tutto quello che vediamo, quel che sembriamo / non è che un sogno dentro un sogno».  Moltiplicare i punti di vista è un modo per arrivare a tale risultato. Un racconto a là Rashomon, per intenderci, mina il concetto di verità oggettiva, spostando però l’attenzione sulle esperienze soggettive degli attori di un dato avvenimento o sulla loro, più o meno menzognera, narrazione dello stesso. Il lettore/spettatore non ha gli strumenti per distinguere quale delle versioni riportate sia quella reale, né, cosa ancora più importante, se esista una realtà oggettiva a cui poter riferirsi.

In alternativa è possibile lavorare invece sottraendo, omettendo, attraverso ad esempio una narrazione non lineare ma ellittica. Nel primo caso la moltiplicazione di punti di vista, tipica dei drammi giudiziari, distrugge l’illusione che si possa giungere a una verità ultima e definitiva. Nel secondo, tale verità o risoluzione ultima è negata – o per lo meno posticipata più o meno a lungo evitando di fornire al fruitore (e spesso con lui al protagonista) tutti gli elementi di cui avrebbe bisogno per la risoluzione del “caso”. La figura che si vede seduta alla finestra della casa di Norman Bates in Psycho è presentata allo spettatore come la madre dello stesso Norman, ma solo nel finale del film scopriamo che le cose non erano quelle che sembravano. Entrambe le modalità descritte sono tipiche (anche) del racconto investigativo, ed entrambe prevedono un forte coinvolgimento del fruitore, il quale, da una parte, deve prendere una posizione – o assumere che non è possibile prenderne una – oppure cercare di risolvere il giallo, nella misura in cui ciò gli è permesso dalla quantità e veridicità dei dati forniti.

Con Providence, non a caso un altro racconto investigativo anche se in salsa orrorifica, Alan Moore prova a stabilire un diverso grado di complicità con il proprio pubblico. Il carattere inedito di tale operazione – specialmente per quanto riguarda il campo del fumetto – si manifesta soprattutto attraverso l’adozione di un certo tipo di sguardo. Il punto di vista scelto dallo sceneggiatore britannico è, mutuando una definizione cinematografica, semisoggettivo. La semisoggettiva indica, in ambito cinematografico, quelle inquadrature in cui il personaggio, solitamente di schiena e spesso fuori fuoco, è incluso nell’inquadratura che mostra quello che il personaggio stesso sta guardando. Pasolini teorizzò poi la soggettiva libera indiretta, trasposizione nel “linguaggio filmico” del discorso libero diretto letterario, operazione grazie alla quale il punto di vista del personaggio, in altri termini la sua lingua, si impone su tutte le inquadrature, anche quelle normalmente considerate oggettive, cioè non risultanti da uno sguardo esplicitamente soggettivo o semisoggettivo. Moore applica questa modalità dello sguardo cinematografico – ma non solo –  al fumetto in maniera ossessiva e rigorosa nel caso particolare di Providence. In quest’opera non è possibile trovare una sola vignetta – tranne che nell’iniziale sequenza del primo volume, riguardante il suicidio dell’amante di Black – che non comprenda la presenza del protagonista, che non sia frutto del suo sguardo o che non metta in scena una sua visione più o meno allucinatoria.

Il “lettore” viaggia costantemente insieme a Robert Black, condividendone sensazioni, esperienze e visioni, ma da un punto di vista leggermente sfasato che permette sì l’identificazione ma favorisce al tempo stesso il distacco critico. Naturalmente, tale distacco è dovuto anche semplicemente al fatto che il lettore è soggetto altro rispetto a Black, non solo in quanto lettore ma anche in quanto ente appartenente a un’altra epoca e con un diverso bagaglio di conoscenze ed esperienze. La differenza sostanziale tra chi legge le avventure di Black e chi tali avventure le vive è che i primi sono a conoscenza di uno scrittore di nome Howard Phillips Lovecraft e del suo articolato mondo finzionale, il secondo no. Poco importa quanto tale conoscenza sia approfondita e consapevole.

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Ci si può approcciare a Providence e alle altre opere che lo sceneggiatore inglese ha dedicato allo scrittore americano da esperti, da appassionati o anche solo sapendo vagamente che tale scrittore è esistito in una data epoca e che ha prodotto un certo numero di racconti che si muovono fra il fantastico, l’orrorifico e la fantascienza e che così profondamente hanno permeato l’immaginario comune, influenzando a vari livelli la successiva produzione culturale globale. Il complesso di informazioni che Moore desume dalle opere e dalla vita – i riferimenti alla biografia di Lovecraft sono moltissimi – dello scrittore di Providence va a costituirsi come fondamento dell’universo in cui si muove Black. A seconda del livello di conoscenza pregresso dell’opera di Lovecraft cambia naturalmente il tipo di complicità che Moore instaura con chi usufruisce della sua opera, ma questa complicità non cessa di essere in atto alle spalle, per così dire, del suo protagonista.

Questo leggero sfasamento cognitivo pone dunque il fruitore un passo avanti a Black, ma comunque sempre un passo indietro rispetto alla narrazione, le cui svolte e i cui rivolgimenti sono saldamente nelle mani della scrittura di Moore, il quale esercita un controllo ferreo su ogni aspetto, configurandosi, forse mai come prima, come un vero e proprio creatore di mondi. Il braccio di ferro fra l’autore, il protagonista e il suo pubblico è quindi duplice se non triplice. La strada scelta dallo sceneggiatore è di certo rischiosa e presenta alcuni aspetti equilibristici sui cui vale la pena spendere due parole in più. Pur, come detto, organizzando il proprio racconto come un’esplicita indagine investigativa – Black esplora il New England per scrivere un romanzo basato sul suo folklore – Moore deve tenere desta l’attenzione creando colpi di scena che non risultino troppo telefonati anche al più grande appassionato lovecraftiano. Quando, ad esempio, Black trova ospitalità da Hector North, molti riescono facilmente a identificare in questi un personaggio di un famoso racconto di Lovecraft, Herbert West, rianimatore e di conseguenza potrebbero supporre che per lo sventurato aspirante romanziere non si prospetti la serata tranquilla che aveva sperato. Moore costruisce, nello specifico passaggio citato così come in molti altri, una rete di rimandi che non ha aspira assolutamente a essere trasparente o esplicitamente ammiccante.

Lo sceneggiatore innanzitutto opera uno slittamento sui piano onomastico, in maniera tale da richiamare i personaggi dei racconti lovecraftiani ma mascherandone, spesso ironicamente, l’identità. Così l’Herbert West (Ovest) di Herbert West, rianimatore, diventa Hector North (Nord), mentre l’anonimo narratore dello stesso racconto acquista l’identità di James Montague. Allo stesso modo l’angoscioso dialogo fra i due ospiti di Blake rimanda ai fatti narrati da Lovecraft, ma con altri slittamenti, questa volta di tipo toponomastico. La città di Bolton, dove i due compari avevano iniziato la pratica della medicina e avevano proseguito la loro attività di rianimatori, diventa così Boston, successivo luogo d’incontro fra Black e Lovecraft. Anche se alcuni di questi innumerevoli accenni disseminati fra le pagine di Providence, senza contare i rimandi che intrecciano gli stessi capitoli dell’opera, possono costituire un divertente enigma per i fruitori di questo fumetto, tale gioco non sfocia mai nell’autocompiacimento, dimostrando invece il rigore quasi ascetico dell’approccio drammaturgico di Moore. Solinas nota inoltre come i giochi di parole riguardanti i nomi propri dei personaggi aprano verso nuovi universi di senso:

Un’altra tecnica molto efficace che Moore adotta è quella delle soluzioni ingegnose per quanto riguarda i nomi propri dei personaggi. Infatti, le denominazioni scelte per molti dei personaggi che costituiscono gli analoghi di quelli di HPL diventano suggestive e caratterizzanti. Per esempio, Robert Black (letteralmente “nero”) inizia in questo volume ad aderire al proprio cognome, adottando abiti neri e inoltrandosi sempre di più nell’oscuro reame dell’orrore cosmico. Anche Elspeth Wade, corrispettivo della Asenath Waite di La cosa sulla soglia, denota nel cognome la propria caratteristica principale (il termine wade rimanda all’attraversamento di qualcosa di liquido, esattamente come liquida è l’identità fisica del “trasmigratore” Roulet che possiede il corpo della giovane Elspeth).

Ancora più interessante è il lavoro fatto sulla controparte del fotografo Pickman (uno dei protagonisti della storia Il modello di Pickman, di HPL), che appare nel terzo episodio di questo volume […]. Pickman diventa, in maniera intelligente, Ronald Underwood Pitman. Si noti in come in inglese “Underwood” (letteralmente “sotto il legno” e Pitman (letteralmente “uomo del pozzo”) rimandino in maniera precisa alle caratteristiche del fotografo, che nella storia ha una camera sotterranea che fa da interfaccia fra le creature saprovare e il nostro mondo. (Antonio Solinas, postfazione a Providence Vol. 2)

E si potrebbe continuare ancora. Niente di nuovo, sia chiaro. L’utilizzo allegorico dei nomi propri di persona attraversa tutta la storia della letteratura, resistendo, seppur parzialmente, anche al vento di rinnovamento portato dal settecentesco romanzo inglese, il quale inaugura l’utilizzo di nomi comuni per descrivere personaggi comuni, persone e non più tipi, come invece succedeva nella gran parte della tradizione letteraria antecedente. Eppure, questo in apparenza semplice gioco intellettuale non solo si inserisce in un progetto d’opera più ampio, che confluisce continuamente nell’idea di un “sotto” nascosto sotto un “sopra”, un qualcosa che giace celato dalla superficie, sia essa una superficie fisica, psichica o morale, ma rende anche un accurato omaggio allo stille dello scrittore cui si ispira. Riportiamo solo un esempio:

La caratteristica distintiva della contea di Arkham può essere identificata nella Valle del Miskatonic, attraverso la quale scorre l’omonimo fiume Miskatonic. Il suffisso di questo nome ricorda da vicino quello del fiume Housatonic che attraversa il sud del Massachusetts, formando un equivalente strutturale che assomiglia a un nome derivato da una lingua tribale dei nativi americani che ha un significato non completamente traducibile. […] Linguisticamente, il suffisso -atonic può essere identificato come derivato dalla stessa radice moicana, come lo stesso fiume Housatonic che significa ‘al di là del fiume’. Uis- o uisa- è il lessico per ‘acqua, fiume’, e quindi il suffisso rappresenta il concetto di ‘oltre’. […] La Miskatonic Reservoir è utilizzata come una rappresentazione simbolica dell’alterazione fisica artificiale dell’ambiente per soddisfare le esigenze della popolazione moderna, con l’inondazione artificiale di una valle che seppellisce una terra storica ancora contaminata che riflette un tema diffuso in tutta la serie di testi mitologici. Il percorso di questo fiume, approssimativamente tracciabile grazie ai dettagli contenuti in tutto il corpus, può essere seguito come una breve introduzione ad una geografia approssimativa di questo paesaggio immaginario; proveniente dalle sorgenti sulle colline a ovest di Dunwich, corre verso est, gira verso sud-est, e scorre attraverso Arkham. Il fiume sfocia nel mare due miglia a sud nei pressi di Kingsport, che si trova appena a sud del promontorio attraverso il quale il fiume fugge nell’Atlantico. Questi tre insediamenti immaginari servono ruoli di primo piano e appaiono costantemente durante la scrittura di Lovecraft, e sono state concepiti per servire come nucleo stilistico attorno al quale è modellato il paesaggio. (James Odelle Butler, Name, Place, and Emotional Space: Themed Semantics in Literary Onomastic Research, pp. 176-177).

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Non stupisce che Moore, dopo essere stato inizialmente respinto dall’opera di Lovecraft (come descritto QUI e QUI), si sia calato tanto in profondità in essa, trovando probabilmente più di un’assonanza con il proprio immaginario e soprattutto con la proprie strategie creative. Questa interiorizzazione della poetica lovecraftiana che, come ho scritto altrove, ha attraversato tre fasi – un rifiuto dell’opera dell’autore motivato da accuse di misoginia e razzismo; un lavoro di destrutturazione condotto più sulla mitologia su Lovecraft che sulla mitologia di Lovecraft; un’analisi approfondita e non più pregiudizievole dell’opera e dell’uomo – permette al citazionismo di Moore di risultare estremamente coerente e necessario al progetto Providence. Necessario perché le citazioni non si presentano come superfetazioni superflue del mondo che Moore crea, ma perché di quello stesso mondo costituiscono la struttura.

In altri modi, questo tipo di approccio dimostra il superamento di quella che potremmo chiamare “strategia della strizzata d’occhio” che ha caratterizzato e continua a caratterizzare tanta, troppa, produzione narrativa contemporanea. Un esempio di questa strategia è rintracciabile nella citazione delle categorizzazioni freudiane che apre questo articolo, così come in quella della poesia di Poe A dream within a dream posta poco più avanti. Nel primo caso, il riferimento a Freud è per lo meno coerente con il tema di questo scritto, mentre la citazione di Poe sfrutta, allo scopo della propria legittimazione, l’ammirazione che Lovecraft portava allo scrittore e poeta di Boston. La “strategia della strizzata d’occhio”, in altre parole, rappresenta una delle devianze peggiori dell’estetica postmoderna, declinata spesso nella direzione del puro e semplice fan service. Torna qui il tema della complicità. La “strategia della strizzata d’occhio” cerca di mettere il fruitore allo stesso piano del narratore allo scopo di non far sentire il primo inferiore. Si sprecano, quindi, riferimenti finto-colti, strutture narrative semplicisticamente basate su modelli fisici teorici e citazioni spesso fuori luogo di personaggi più o meno noti dell’immaginario letterario-scientifico comune. Riferimenti che raramente influiscono in profondità sullo svolgimento delle vicende narrate, che risultano sovente marginali o accessori e che hanno per lo più lo scopo – spesso procedendo per accumulo degli stessi – di rivestire la narrazione di un’erudizione da supermercato. L’esempio forse più smaccato e di maggior successo degli ultimi anni è rappresentato dal romanzo Il codice Da Vinci.

Non mancano certo utilizzi ironici, coerenti e piacevoli della “strategia della strizzata d’occhio”. Si pensi al poeta inglese Chaucer, che diventa un improbabile vagabondo nel film Il destino di un cavaliere, o al fisico Albert Einstein, co-protagonista del Billy Bat di Naoki Urasawa. L’approccio di Moore a queste fonti è però, completamente diverso e di certo poco ammiccante. Si veda l’esempio di due personalità qui citate, Freud e Einstein. Freud (la cui opera non era particolarmente apprezzata dallo scrittore, a cui rimproverava in particolare il puerile simbolismo e l’ossessione sessocentrica) viene citato nelle pagine del diario di Black poste in fondo al settimo capitolo della serie. Black descrive i Saprovari, creature ricorrenti nei quadri di Pickman:

Compaiono nelle dimensioni più diverse e infatti, sebbene la maggior parte di questi bizzarri esseri dall’aspetto ferino si avvicini grosso modo alle proporzioni umane, alcuni sono ritratti con dimensioni molto inferiori, quasi fossero roditori di una grandezza spiacevole, mentre altri sono giganti colossali con un’altezza che, di volta in volta, varia tra i cinque e i dieci metri. In genere sono ritratti mentre partecipano ad attività macabre di ogni genere e mi sembra che rappresentino le nostre pulsioni più oscure e soppresse (quelle che il professor Freud attribuisce al notro “Id”), il che, almeno immagino, dovrebbe giustificare la loro insolita differenza di proporzioni.

Lovecraft non era particolarmente appassionato neanche delle teorie einsteiniane, anche se le assimilò molto velocemente, prendendo spunto da queste per i propri racconti. Si pensi, ad esempio, a come tempo e spazio siano profondamenti connessi, interdipendenti, in molti racconti lovecraftiani. Einstein è citato nel sesto capitolo di Providence, dove la creatura che possiede la giovane Elspeth Wade afferma che «Il professor Einstein dice che non possiamo più avere certezze sul tempo». Black risponde «Dice davvero così? Lo ammetto, non ho mai capito davvero i suoi ragionamenti. Forse non sono quel grande scrittore intellettuale che credevo di essere». I riferimenti a Freud e a Einstein non sono pretestuosi, e non soltanto perché i due scienziati ricorrono, direttamente o indirettamente, nell’opera pubblica e nella corrispondenza privata di Lovecraft, ma per almeno altri due motivi.

Il primo è forse autoevidente. Le opere dei due studiosi, in particolare L’interpretazione dei sogni e La teoria della relatività generale, si imposero come degli spartiacque nei rispettivi campi, influenzando i campi dell’arte, del cinema e della letteratura, e venendo discusse largamente anche in ambiti non accademici. Non è quindi anomalo che si possano ritrovare dei riferimenti a questi in conversazioni private o in appunti diaristici. Oltre a ciò Freud e Einstein sono utilizzati, in maniera diversa, allo scopo di punteggiare o far proseguire il racconto. Black è fondamentalmente un parvenue che aspira a una condizione sociale e intellettuale che non gli appartiene. Non a caso, in un momento di debolezza ammette che forse non è quel grande scrittore intellettuale che credeva di essere. Inoltre è anche un uomo fondamentalmente cieco, che rifiuta quello che dovrebbe essere evidente ai suoi occhi e ai suoi sensi. Il rifugiarsi in Freud per spiegare in senso inconscio un orrore reale è uno stratagemma che si inserisce nella strategia di fuga che Blake pone continuamente in atto. Moore, seguendo Lovecraft, ribalta la discesa nell’inconscio freudiana opponendo a un sommerso mentale un mondo sotterraneo e un altrove ben reali e sensibili. Le incomprensibili, almeno per Black, teorizzazioni einsteniane, invece, diventano, con la mediazioni dello sceneggiatore, una parte dell’architettura narrativa di Providence.

Il riferimento più esplicito – che rimanda anche a un film profondamente lovecraftiano come Il seme della follia – è quello del loop temporale in cui Black si trova intrappolato durante la sua visita a Manchester e che come tutte le esperienze che sfuggono al proprio controllo razionale rifiuta, relegandolo al reame dell’allucinazione. La “strategia della strizzata d’occhio” avrebbe forse previsto due o tre citazioni freudiane o einsteiane esplicite per focalizzare l’attenzione del lettore sulle conoscenze dell’autore; Moore si limita, in superficie, a qualche brevissimo accenno di passaggio, mentre più in profondità permea il proprio racconto con le idee dei due autori, fra l’altro perfettamente coerenti con il contesto storico del periodo, facendoli diventare davvero materia viva della propria narrazione. La – modesta – sovrastruttura intellettuale a cui Blake si aggrappa come scialuppa di salvataggio per evitare di sprofondare in un mondo di orrori innominabili – ma quanto ancora potrà salvarsi? – diventa così metafora di un rifiuto di portata più ampia. Credere di conoscersi e di conoscere il mondo in sostituzione di un vero e proprio abbandono all’esperienza e alla conoscenza di sé.

La cecità di Black, che in alcuni momenti, bisogna dirlo, rischia di diventare poco credibile, acquisisce una sua particolare legittimità attraverso le pagine del diario del protagonista che Moore pone in calce a ogni capitolo. Abbiamo già detto come Providence sia strutturato principalmente su due livelli, sopra e sotto, città e sotterranei, pubbliche virtù e vizi privati, le cose come appaiono e come sono e via dicendo. Questa alternanza sopra/sotto è resa attraverso una semplicissima ma al tempo stesso limpida ed efficace strutturazione del layout della pagina. Quando Black si trova nel mondo di sopra, la scansione delle tavole procede per vignette orizzontali, mentre quando questi si avventura nel mondo di sotto le vignette si verticalizzano, sottolineando visivamente il senso della discesa.

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Moore utilizza anche un’altra dicotomia, quella basata sulla discordanza fra narrazione visuale e testuale. Abbiamo già visto come i dialoghi di Moore, così come la scelta dei nomi delle persone e dei luoghi, instaurino una complessa tessitura di rimandi e doppi sensi. Nonostante ciò, le parole e le immagini in Providence instaurano diversi regimi di realtà. Nonostante la natura ammiccante e sottintesa di molti dialoghi rimandi in continuazione ad altro, la parola mantiene sempre una propria trasparenza. Quasi tutti i momenti di svelamento sono invece risolti attraverso momenti di narrazione puramente o prevalentemente visuali.

Si guardi ancora una volta alla già citata sequenza del loop temporale. Nella prima pagina del volume qui preso in esame, l’entrata di Black a Manchester viene raccontata attraverso una soggettiva dello stesso che entra in macchina in città. Black commenta l’avvenimento in “voice over” (didascalie narranti in prima persona) notando come l’autunno sembra essere arrivato in anticipo in quella zona degli Stati Uniti. L’oziosa conversazione, di cui la tavola successiva svelerà il secondo attore, non sembra particolarmente significativa. Bisogna essere particolarmente attenti per notare il progressivo rinverdirsi delle foglie degli alberi e, soprattutto, la piccola figurina sulla sinistra della tavola che può essere placidamente scambiata per un passante che cerca di sfuggire all’acquazzone. Molti altri particolari successivi ci svelano la natura disturbante di questa tavola, ma solo le vignette che concludono questo stesso capitolo ci forniscono una chiave di lettura completa, consentendoci di scoprire che quell’anonima figurina era lo stesso Black in fuga dalla città a piedi mentre osservava se stesso arrivare qualche settimana prima. Di esempi di questo tipo in Providence ce ne sono molti, e per lo più non sono decifrabili a una prima lettura, visto che i rimandi, che nel passaggio descritto si chiudono in una manciata di pagine, altre volte si inseguono per tutta l’estensione dell’opera.

La parola, in questo caso scritta, acquisisce un peso ancora diverso nelle pagine del diario di Black che Moore pone in calce ad ogni capitolo. In questi capitoli la cecità di Blake viene rimarcata. Il protagonista riassume gli avvenimenti salienti della giornata cercando di ricondurre ogni anomalia ad una spiegazione logica e rassicurante. Il primo impatto con queste pagine è respingente. Sembra, a una prima lettura, di assistere a un superficiale e autocompiaciuto vezzo di Moore, visto che ci viene ri-raccontato in forma di prosa quello che abbiamo già conosciuto in forma di narrazione fumettistica. Torna però il discorso libero indiretto in una delle sue forme più riconoscibili, quella della narrazione diaristica. È vero che il racconto che Black compila circa la giornata o le giornate appena trascorse sembra proporsi come una replica di quello che si è già visto, ma la discrepanza si afferma presto come evidente. La soggettività della percezione di Black, espressa attraverso il testo verbale, si scontra con l’oggettività delle immagini delle tavole a fumetti. La realtà della narrazione visuale, una realtà fisica, pragmatica, anche se non priva di ambiguità e duplicità evidenti, si scontra con quella estremamente più soggettiva del diario.

Questa moltiplicazione dello sguardo e dei piani attraverso la moltiplicazione dei codici concorre a un altro grande tema che accomuna Lovecraft e Moore (tema trattato piuttosto esplicitamente in Neonomicon) e che attraversa l’opera di entrambi: la capacità del linguaggio di influenzare e configurare la realtà attraverso delle proprietà che potremmo definire, in senso lato, magiche. Non a caso, nelle pagine del diario di Black iniziano a insinuarsi delle crepe, dei dubbi che lo scrittore cerca di arginare con correzioni e cancellature. Crepe che a breve potrebbero portare a catastrofici sviluppi. La parola quotidiana, presupposta portatrice di verità, non è capace di contenere la realtà, o quello che c’è sotto i margini del reale. Non solo, non è neanche capace di contenere ed esprimere lo stesso mondo interiore di Blake, che anche in un contesto così intimo si autoinganna, mente persino a se stesso su se stesso. Allo scopo di liberare la realtà o le realtà contingenti e al tempo stesso svelarci per quello che siamo servono linguaggi e parole nuove, come forse vedremo nei prossimi capitoli.

Providence vol. 2
di Alan Moore e Jacen Burrows
Panini Comics, 2016
176 pagine a colori, € 19,00

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