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FocusIntervisteTradurre "Southern Bastards". Intervista ad Andrea Toscani

Tradurre “Southern Bastards”. Intervista ad Andrea Toscani

In un’intervista di qualche anno fa, realizzata da un quotidiano dell’Alabama, venne chiesto allo sceneggiatore Jason Aaron di spiegare qual era l’elemento proveniente dal sud degli Stati Uniti più presente nella sua scrittura: «Penso siano i dialoghi», disse lo scrittore. «Molti dei personaggi che ho scritto nel corso degli anni probabilmente sembrano un po’ provenire tutti dal sud. Il mio Wolverine sembrava un personaggio del sud, anche se lui è canadese. Credo di aver sviluppato un orecchio per i dialoghi cresciuti nel sud, o perlomeno cerco di averlo. C’è un modo diverso di esprimersi quaggiù che da scrittore non si può non amare e apprezzare».

La risposta pare quasi scontata, almeno se si è reduci della lettura di Southern Bastards, la serie edita da Image Comics che Aaron sta realizzando con il disegnatore Jason Latour. Ed è strano che questa sensazione di ritrovarsi improvvisamente in Alabama a crepare di caldo, discutere di baseball e rimuginare sui propri fallimenti, permanga anche nell’edizione italiana della serie pubblicata da Panini. Perché se sono i dialoghi a far emergere il DNA sudista, il merito di un’atmosfera praticamente immutata dall’originale va alla traduzione precisa e attenta di Andrea Toscani, al quale ho posto alcune domande sulle sue scelte di traduzione, sulla trasformazione in lingua italiana del southern drawl (il “dialetto” del sud degli Stati Uniti) e sul rapimento mistico degli schemi tattici del football.

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Nel primo volume di Southern Bastards c’è un momento preciso in cui la tua traduzione mi ha catapultato dal treno su cui viaggiavo a Craw County. È quando Dusty riconosce Earl e gli dice «Earl Tubb. Sei te vero? Orcodue se non sei te!». Non è stata tanto la frase in sé a tirarmi dentro al racconto, ma proprio quell'”orcodue”. Nel leggere quella parola (in originale tra l’altro era un meno colorito “I swear to God”) si è come creato un ponte tra Craw County e la provincia in cui ho sempre vissuto. Da quel momento in poi è stato davvero semplice condividere le idee e le emozioni di Earl e degli altri abitanti di Craw County. C’è stato anche per te un momento del genere, mentre prendevi le scelte per la traduzione su come rendere in italiano il southern drawl?

Non so se c’è stato un momento preciso, però hai ragione sul fatto che l’idea sia stata quella di cercare di creare un ponte che il lettore potesse attraversare per ritrovarsi in qualche misura lì, a Craw County. Un fumetto così linguisticamente connotato non ti lascia stabilire una strategia di traduzione unica a monte. Devi per forza conquistarti il suono e il senso balloon dopo balloon, cedendo a volta qualche yarda sul colore per poi recuperarla alla prima occasione, a volte anche infilando qualcosa dove l’originale è piuttosto tranquillo. Nel punto di cui parli mi son detto: I swear to God vuol dire Giuro su Dio, ma swear è anche imprecare, e vuoi che Rusty Tutwiler – pace all’anima sua – non c’infila uno pseudociccio come intercalare? In genere prima cerco di tradurre più o meno tutte le sfumature che sento nella frase originale, poi, in sede di revisione, limo e aggiusto un po’ (anche per le esigenze di lettering, qualcosa che il traduttore di fumetti deve sempre avere ben presente).

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Nel tuo rendere viva la parlata del sud attraverso un italiano sporco e impreciso, penso ci sia anche il tentativo di restituire al lettore tutto un sistema di valori che potremo definire rozzo, ma che ci affascina per il suo essere così arcaico e viscerale. Mi viene in mente per esempio quel “I reckon” che Earl Tubb si rimastica spesso tra i denti e che è una forma più rude e western del mite “I suppose”. Come sei arrivato alla traduzione di questo verbo che è anche l’intercalare di Earl e in parte anche una chiave per capire il personaggio?

Quel reckon è stato un incubo (e per certi versi lo è ancora). In Earl l’ho spesso reso con un suppongo, posto a fine di frase. Non sempre però, perché a volte ho preferito sacrificarlo per restituire meglio il senso generale della battuta nella sua immediatezza. Trattandosi di un intercalare che però non appartiene solo a Earl, non si trattava di farne una caratteristica privata della lingua di quel personaggio. Ho cercato di trovare una rosa di soluzioni diverse (come il condizionale direi) che mi permettessero di alternare e di utilizzare di volta in volta la forma che si adattava meglio alle esigenze del dialogo. Più in generale, e mi fa piacere che in qualche misura si riesca a cogliere, la lingua di Southern Bastards cerca di essere molto vivace dove ci sono scambi tra i personaggi, mentre concede qualcosa di più alla lingua scritta nel caso dei monologhi interiori o dei racconti.

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Ci sono poi delle parole per le quali hai dovuto creare un corrispettivo italiano, come quel “Materhead” che nella tua traduzione diventa “Cocciavuota”. Com’è nata la scelta di creare da zero una parola e non di tradurla con una parola italiana vicina al significato originale?

Mater è il corrispettivo redneck per tomato, ovvero pomodoro. Quindi materhead sarebbe letteralmente testa di pomodoro. Poi Materhead è anche un soprannome tipico del sud, che spesso si tramanda di padre in figlio (una sorta nomignolo ereditario, secondo una modalità che ritroviamo anche nelle nostre campagne). Inoltre è il nome originale del carro attrezzi bifolco e ingenuo del cartoon Pixar Cars, che in italiano è stato reso con Cricchetto. Mettendo insieme tutte queste suggestioni e sposandole con il carattere del personaggio, ho cercato un nomignolo che suonasse bene e rendesse al meglio le sfumature.

Oltretutto spesso il soprannome Materhead viene abbreviato in Mater e Cocciavuota funziona anche dimezzato in Coccia. Infine Coccia, inteso come Testa, mi tornava comodo per inserire un po’ di colore lessicale anche in altre occasioni (Coccia di cazzo, Mi sono spaccato la coccia ecc.). Più in generale sono convinto che ogni testo da tradurre faccia storia a sé. Nel caso di un fumetto seriale esiste uno stile da impostare all’inizio e da tenere presente in ogni successivo volume. Essere fedele a quella voce, riuscire a recuperarla ogni volta, con in mezzo mesi di traduzioni con voci anche molto diverse, è forse il compito più difficile di chi svolge la professione di traduttore nell’ambito del fumetto. In effetti è un lavoro un po’ da schizoidi.

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In Southern Bastards c’è poi la grande divinità del football. Come ti sei approcciato alla traduzione dei termini tecnici e mistici di questo sport? Tra l’altro la sensazione che si ha leggendo è che tu non abbia voluto fare chiarezza o spiegare il gioco al lettore, ma hai voluto mantenerne la distante sacralità.

Già nell’arco narrativo del primo volume, Questo era un uomo, il football emergeva come una sorta di divinità, una presenza pervasiva che assume progressivamente un valore simbolico fortissimo. Nel secondo volume, Griglia (in originale la gridiron, che identifica la graticola delle linee sul campo di football), questo diventa ancora più evidente, tramite il racconto biografico della vita del Coach Boss, un personaggio titanico nella sua ossessione per questo sport (e che a me, con tutti i dovuti distinguo, ricorda non poco il personaggio del Giudice Holden di Meridiano di Sangue di Cormac McCarthy).

In generale ho cercato di mantenere l’alone mistico che Aaron sembra voler conferire al gergo tecnico di questo sport. Nel secondo volume c’è una scena in flashback molto bella che riassume in sé questa cosa: Big ha da poco iniziato ad allenare il giovane Euless, che vuole a tutti i costi entrare in squadra. Euless è davanti a un muro di mattoni coperto dai complicatissimi diagrammi usati per raffigurare gli schemi di gioco e Big gli dice: «Inizi a vederlo, ragazzo?». Euless gli risponde: «Vedo così tante X e O da non pensar dritto». E Big: «Ma lo vedi il volto di Dio?». Durante le telecronache o nel corso degli allenamenti ho cercato di tradurre il gergo tecnico esplicitando quei punti che descrivevano un’azione di gioco che per il lettore era importante riuscire a capire, ma senza mai sacrificare la complessità terminologica. Molti termini restano in originale (come del resto d’abitudine anche fra i cultori italiani di questo sport), tranne i casi in cui esistono calchi o traduzioni già entrate nel nostro orecchio, magari grazie ad adattamenti cinematografici (un film su tutti Ogni maledetta domenica di Oliver Stone).

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Ti sei occupato anche della traduzione di Men of Wrath, sempre scritto da Jason Aaron e sempre ambientato nel sud degli Stati Uniti, ma molto diverso rispetto a Southern Bastards. Che differenze linguistiche hai trovato tra i due fumetti?

Men of Wrath, ovvero I figli dell’ira se vogliamo dargli un sottotitolo in italiano che espliciti un po’ quello originale, è un’opera compiutamente nera, una vicenda di violenza e disperazione che con biblica determinazione si tramanda di padre in figlio. Lo spunto è autobiografico (è lo stesso Aaron a dircelo nell’introduzione) e per certi versi questa storia sembra quasi assumere una specie di valore catartico per il suo autore. Dal punto di vista linguistico Aaron ha trattenuto la penna, lavorando più per sottrazione, inserendo qualche espressione colorita, ma tenendosi alla larga dalla caratterizzazione più marcata in senso regionale. Dal punto di vista traduttivo è sempre l’autore a condurre il gioco (almeno per come intendo io questo mestiere): leggendo l’originale chi traduce può sentire le briglie e a quel punto decidere di assecondare l’andatura scelta dall’autore, fare il ronzino sordo anche ai più pungenti schiocchi di frusta o prendergli la mano e gettarsi in una folle corsa (che spesso può portare giù da un dirupo!).

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