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Il mago didascalico

Alan Moore era un mago. Teorizzava che la magia, come la psicanalisi, ruotasse attorno alle parole. La magia era, secondo lui, una grammatica, cioè un sistema di regole che consentono di combinare simboli e dominare il mondo attraverso il linguaggio. “Con una parola puoi curare o uccidere”. Forte di questo credo, scriveva storie potenti per un solo lettore: il disegnatore. E meno talentuoso era il disegnatore, migliori erano i risultati agli occhi del lettore.

alan moore cinema purgatorio

Poi Alan Moore è diventato Alan Moore, il lettore di fumetti più colto e intelligente del mondo intero. Ha letto tutto, connette tutto, capisce tutto e, di conseguenza, può dire e scrivere tutto.

Purtroppo, la consapevolezza raggiunta è tale da avergli ispirato la più totale sfiducia nell’umanità. Alan Moore ha capito chi siamo e, tocca ammetterlo, gli facciamo un po’ schifo.

Però, ha anche deciso che lui ci salverà: ha costruito una pedagogia del racconto volta a renderci migliori, più intelligenti, più colti. Non si sa mai: in un mondo dai confini sempre più labili, a qualcuno di noi, anche senza intenzione di pellegrinaggio al domicilio del Maestro, potrebbe pungere vaghezza di passare da Northampton, costringendolo a rischiare di incontrarci.

Quella che un tempo era la magia della parola, ora è scrittura fluviale. Balloon e didascalie grandi e pesanti si adagiano sulle pagine dei suoi fumetti: i disegnatori ora possono essere bravi perché, in mezzo a tutte quelle parole, il loro lavoro si vede poco.

Prendiamo Cinema Purgatorio, il suo lavoro più recente (di cui aveva scritto in dettaglio, qualche mese fa, anche Andrea Fornasiero). Lo leggo con attenzione, cerco anche di guardare il lavoro di Kevin O’Neill che è un disegnatore che amo dai tempi di Marshall Law. Ma le parole mi richiamano all’ordine: non mi devo distrarre. È un lavoro metatestuale e intertestuale: metatestuale perché Moore gioca con i codici delle forme espressive e li smonta per mostrarne gli ingranaggi; intertestuale perché lo sceneggiatore riscrive, prosegue e decontestualizza istanze dell’immaginario contemporaneo che, sembra dirci, ormai afferiscono di diritto al mito.

alan moore cinema purgatorio panini

Art Spiegelman, sollevando il sopracciglio e soffiandoci in faccia il fumo della sua sigaretta, ci ha detto con chiarezza che il fumetto non è solo per grandi. Con questo, l’autore di Maus (e, diciamocelo, poco altro; ma se nella tua vita hai fatto Maus hai il diritto di vivere di rendita finché il tempo te lo concede) ci ha spiegato che i fumetti li possono leggere tutti: sono facili. Anche quando sono fatti da giganti della narrazione come Frank King, Chris Ware, Guido Crepax, Richard McGuire, Art Spiegelman, Martin Vaughn-James, Gianni De Luca, Harvey Kurtzman, Hergé…

Gestire la complessità è il mestiere del fumettista, noi lettori dobbiamo godere infischiandocene degli ingranaggi.

Alan Moore oggi non nasconde la complessità. Da due o tre lustri la rovescia direttamente sul lettore, che vuole colto e intelligente, capace di entrare in sintonia con narrazioni articolate, reticolari, proteiformi, molecolari e qualsiasi altro aggettivo che, associato al racconto, mostri la propria inutilità. Poi però non si fida. E allora commette il peccato più grave: diventa didascalico.

Guardiamo il secondo episodio di Cinema Purgatorio. L’idea è semplice e ci si può costruire un buon fumetto breve: cinema in costume, antica Roma, peplum; i personaggi scoprono di essere sul set di un film ma non sono consapevoli di essere attori; tragedia. E sarebbe ottimo se non fosse che, alla fine del film, l’invisibile sognatore che vive il racconto in soggettiva sente il dovere di spiegarmi cosa è successo.

In che momento Alan Moore ha iniziato a disprezzarci e ha smesso di fidarsi di noi?

Leggi anche: La più grande bugia che Alan Moore mi abbia mai raccontato

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