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RecensioniClassicReinventare Iron Fist per gli anni Duemila

Reinventare Iron Fist per gli anni Duemila

Gli ultimi scatti della relazione tra lo sceneggiatore Matt Fraction e Marvel Comics non sono granché nostalgici. La pioggia di plausi di Occhio di Falco, serie che ha ridefinito il personaggio toccando vette altissime, in mezzo ai crossover e agli incarichi spuri; la presa in gestione della serie Thor, zavorrata dai dettami della divisione cinematografica, che mette bocca su cosa può o non può succedere nel fumetto; il rilancio di The Defenders, immaginato dallo sceneggiatore come «il lavoro che nella mia testa valeva più di Occhio di Falco», che floppa. Nell’ultima istantanea si vede Marvel rimuoverlo dall’incarico su Inhumanity e l’autore che non può fare a meno di notare, con un certo sfoggio di acidità, di essere contento che la sua visione per la serie – composta da due quaderni di annotazioni e una trama che copriva 64 numeri – sarebbe finita «nella libreria dei classici perduti di Hicksville».

Quella di Matt Fraction in Marvel, insomma, è una prevedibile parabola di ascesa-fallimento-rinascita mischiata con premi Eisner, acredine e ambizione. È la storia dell’aspirante scrittore che scopre la gioia del ‘corporativismo’, se ne innamora ma tradisce per colpa del richiamo dell’’indipendentismo’ chic (ovvero Image Comics, pronta a soddisfare la grandeur con progetti creator-owned e le relative, lucrose licenze di adattamento).

Eppure, poco prima della sua dipartita, Fraction era l’uomo di riferimento, in Marvel. Era colui che aveva fatto il giro d’onore a Occhio di Falco, aveva scritto un (mediocre) crossover evento, Fear Iself, e si apprestava a ricostruire la Casa delle Idee insieme agli altri Architetti, gli sceneggiatori di punta della compagnia. Ma le incomprensioni e il desiderio di sogni-più-sognanti ne hanno decretato la fine della carriera marvelliana.

Arrivata al capolinea – col botto – di Occhio di Falco, una delle serie più celebrate degli ultimi anni, la traiettoria di Fraction potrebbe dunque essersi interrotta in una saldatura perfetta con il suo inizio, la riscrittura attualizzante di L’immortale Iron Fist. Agli estremi della sua parabola mainstream, Fraction ha incontrato due opere figlie dello stesso modo di pensare il fumetto supereroistico, con una diferenza: la più recente delle due ha beneficiato della crescita professionale sua e del disegnatore David Aja, che lo ha accompagnato in entrambe.

immortale iron fist

Leggere oggi L’immortale Iron Fist pensando a Occhio di Falco dà la sensazione di leggere un prodromo, una prima bozza, un Fermo e Lucia o un Adventures of Luke Starkiller. Il pensiero (e gli autori) che le irradia è lo stesso: prendere un personaggio di seconda fascia e presentarlo al pubblico spogliato dalle insensatezze e dagli elementi vuoti che ne avevano circondato le storie. Non importa se conducendo una storia tradizionale e seria (Iron Fist) o una decostruzione ironica (Occhio di Falco): la lezione di Fraction è che basta essere credibili – e credenti – con ciò che si racconta. Quando gli domandano come abbia rivoluzionato Occhio di Falco, il Nostro non a caso schernisce l’intervistatore: «Era già tutto lì. Abbiamo ricordato al pubblico perché personaggi del genere sono così grandiosi. Stessa cosa con Iron Fist: abbiamo solo evitato di parlare degli alieni broccoli».

Per Fraction Iron Fist è stato un lavoro atipico, perché per qualche fugace momento è riuscito a essere se stesso, non il Matt Fraction che lotta con la regola e la misura dell’apparato Marvel, ma neanche l’hipster destrutturatore fuori tempo massimo di Sex Criminals o Casanova. Una via di mezzo, un prodotto non troppo slegato dalla formula tradizionale ma senza quell’odiata continuity che si metteva in mezzo tra lui e le sue aspirazioni iconoclaste.

Iron Fist nasce editorialmente nel maggio 1974, nel bel mezzo della mania degli americani per le arti marziali e i film di kung fu. I testi che, all’epoca, scrive Chris Claremont in varie sedi rimangono con i piedi per terra, ma dopo l’abbandono dello scrittore e l’affievolirsi della popolarità del genere, “Pugno d’Acciaio” (com’era noto in Italia fino a qualche tempo fa) passa attraverso le storie più assurde, finendo ucciso, resuscitato dagli alieni e infine dimenticato dai lettori.

immortale iron fist

Poi, nel 2006, Ed Brubaker viene chiamato a rilanciare il personaggio, orfano di una testata da decenni. Nel frattempo, un giovane esordiente di nome Matt Fraction entra nel vivaio Marvel con un paio di lavori underground alle spalle. Axel Alonso lo mette su Punisher War Journal, e dopo appena un numero («avevo FORSE appena consegnato la sceneggiatura del primo numero quando mi offrirono Iron Fist»), Fraction riceve la chiamata da Brubaker, troppo impegnato a scrivere Capitan America e gli X-Men per consegnare sceneggiature complete. Insieme elaborano la storia e Fraction passa alla sua scrittura, diventando d’un tratto la next big thing dell’industria fumettistica.

Nel libro Supergods, Grant Morrison afferma che ci sono cicli e ricicli storici in cui, nell’intrattenimento, fasi seriose si alternano a fasi scanzonate. Morrison passa dalla visione adulta e tagliente di New X-Men e al recupero della Silver Age in All-Star Superman. L’ho detta in maniera brutale, ma il punto è che all’alba del nuovo secolo la “fase seriosa” sta dettando legge, prima con la revisione oscura di supereroi come X-Men e Batman, in un ritorno ad atmosfere più congeniali ai soggetti (privati dei loro elementi più colorati, gli X-Men sono una profonda riflessione sulla diversità, mentre Batman è materiale fertile per studi psicologici), e poi con il contagio di cose che seriose non lo sono neanche in partenza, come il reboot duro e grezzo di James Bond, il cui Casino Royale introduce la spia a un mondo post-Jason Bourne, tutto misteri e cinepresa a mano.

Non è un caso (probabilmente sì, ma lasciatemi indugiare in questo parallelismo) che L’immortale Iron Fist sia uscito nel 2006, lo stesso anno di Casino Royale, film in cui l’agente segreto James Bond viene rebootato per il pubblico degli anni Duemila. Pur riuscendo negli intenti, quella operata da Casino Royale non è solo una modernizzazione del personaggio, ma una snaturalizzazione in cui un Bond precario e intimista, mai così poco scanzonato, di fronte alla riproposizione del suo tormentone «Agitato o mescolato?» risponde con un sacrilego «Che vuole che me ne freghi».

immortale iron fist

Brubaker e Fraction non vanno così a fondo ma eliminano comunque lo sguardo divertito. Guardano il personaggio non con la durezza degli autori di Casino Royale, ma con ammirazione. Lo si vede dalla riverenza con cui trattano gli elementi topici di Iron Fist (i poteri, le relazioni con i comprimari storici) e i pezzi cardini del suo immaginario, come Lei Kung il Tonante, il drago Shou-Lao e Davos. Allo stesso tempo sanno osare e muovere in avanti la mitologia, introducendo l’idea che “Pugno d’Acciaio” sia un titolo che si tramandano i guerrieri di generazione in generazione. Con gran sfoggio filologico ripescano pure Amazing Man, supereroe degli anni Quaranta creato da Bill Everett che aveva ispirato Gil Kane nella creazione grafica di Danny Rand. Così facendo allargano il campo, dipingendo il personaggio prima come un eroe pulp, poi come un samurai, un ronin, un vigilante. Non solo, danno peso all’elemento umano, ai travagli del Rand industriale, un filone che mai era stato preso in considerazione dagli autori del passato.

“Allargare la torta invece che tagliarla in tante piccole fetta” è la metafora che Fraction ripete ricordando la sua esperienza sulla serie. Riscrittura e coerenza al personaggio sono da preferire all’asfittica continuity. Ma anche ricerca del pubblico casuale, che poteva rimanere abbagliato dall’inusuale design delle copertine (bianche, con divisione verticale degli spazi), un colpo d’occhio notevole sugli scaffali e memore del formato bipartito – disegno incastrato tra bande vuote – che le collane Ultimate (e poi il crossover Civil War) avevano battezzato con successo.

Rispetto alla precedente incarnazione del personaggio lo stile è asciuttissimo. Non c’è un gesto fuori posto, i dialoghi sono cesellati, il costume è spogliato di tutti i ghirigori e gli svolazzi. La luce del colorista Matt Hollingsworth illumina i visi e poco più, gli unici veri sprazzi di colore li vediamo quando Danny usa il potere dell’Iron Fist. Gli tolgono tutto, lo spellano fino alla carne, trovano il cuore pulsante del personaggio – un miliardario che fa kung fu – e da lì ricominciano ad aggiungere il necessario.

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Brubaker e Fraction prendono gli elementi delle narrazioni classiche (dinamica maestro/apprendista), vi inseriscono due estetiche – quella pulp anni Quaranta (i ragni meccanici giganti, il personaggio di Orson Randall) e quella orientale – e creano una grande storia che conferisce il senso del grandioso e l’afflato epico, sbrogliando un filo che invece di andare dritto, fa il giro e a volte ripassa sopra se stesso come a formare un otto. L’immortale Iron Fist ha una progressione lineare (come il treno che Danny si rifiuta di vendere ai cinesi, un correlativo oggettivo per l’intera testata) ma il racconto procede concentrico, ripetendo la storia dei tanti Iron Fist vissuti nei secoli, poi stringendo su quella di Danny, di suo padre, del mentore di suo padre.

Alla fine l’arco tracciato non fa che battere su un unico punto: come la famiglia e i rapporti personali modifichino le scelte di vita che facciamo. Danny è circondato da padri surrogati (Orson Randall, Lei Kung, Hogarth) e fratelli maggiori (Luke Cage, Davos) ed è grazie alle relazioni umane che la storia trova le risposte, anche negli snodi più piccoli (la relazione instaurata da una Iron Fist del passato con un pescatore, Hogarth, che viene ricattato da Xao con la minaccia che ucciderà la madre; Davos che vuole dimostrare il proprio valore al padre). La metafora si spinge perfino nel metatestuale: tra tutte queste storie di maestri e allievi, Fraction parla anche della sua. Parla di quell’imberbe Matt Fritschmann (Fraction è il nome che usava sul forum di Warren Ellis) che, appena arrivato nel paese dei balocchi fumettistico, si fa istruire sui come e i perché del lavoro in Marvel da Brubaker, a quel punto ormai paroliere navigato.

Lo svecchiamento di Iron Fist passa inoltre per le mani fatate di David Aja, la cui bravura ce lo restituisce come mai era successo, in una vittoria non granché sudata, considerando che Pugno d’Acciaio non si fa certo ricordare per la bontà dei disegnatori che lo hanno rappresentato. Soprattutto, le pagine di Aja mostrano i semi di ciò che realizzerà con Occhio di Falco. La linea non è ancora così spessa, la tramatura della pagina è parecchio oscura. Lo spagnolo, insomma, non aveva ancora avuto il coraggio di indossare il mantello di novizio David Mazzucchelli come farà, invece, in Occhio di Falco (o in 3 Jack, storia breve apparsa su Daredevil #500 e forse la cosa più vicina a un remix mazzucchelliano; tanto che Aja ci gioca dandosi del “clone”, in una vignetta). E sebbene il tratto non sia ancora quello sintetico che vedremo sulla serie di Clint Barton, in certi passaggi arriva a togliere molto del rumore che caratterizza la testata.

immortale iron fist

Dove Aja sembra già maturo, invece, è nelle coreografie. Quando si mostrano dei combattimenti, ci sono due regole da rispettare: velocità e chiarezza. Due qualità difficili da ottenere allo stesso tempo, nei film in particolare, dove il montaggio frenetico è spesso chiamato a coprire le lacune dei combattenti. Allo stesso modo, nei fumetti un solo calcio è più facile da disegnare rispetto all’intero movimento in sequenza (perché vanno scelti i gesti da giustapporre). Aja indugia sui momenti, senza fare sembrare le scene pedisseque come una sequenza fotografica di Muybridge. Le mosse e i colpi inflitti vengono sottolineati con cerchi e altri elementi grafici, anticipando l’uso del design in Occhio di Falco. Il tempo si allunga, un respiro si espande a un discorso, come nella scena in cui Orson Randall ipnotizza un poliziotto e Aja impiega quattro vignette per illustrare la dinamica (di cui tre dedicate alle posizioni che assume la mano).

Che sia stato Aja a indugiare lo ha ammesso lo stesso Fraction, aggiungendo che la pagina in cui Danny si nasconde da un elicottero nel terzo numero è stata pensata dal disegnatore (una tavola divisa in nove vignette in cui seguiamo il percorso di Iron Fist giù da una palazzina). Ed è quella che lo ha ispirato per Occhio di Falco. Se c’è un difetto nello stile della serie è da imputare alla supervisione dell’editor Warren Simons, che per i flashback ha scelto disegnatori o troppo distanti dall’umore della serie o troppo cani (problema giustificabile con il fatto che il budget era quello che era e le vendite non hanno mai permesso l’uso di chissà quali nomi: lo stesso Aja era al suo primo incarico).

L’immortale Iron Fist si inserisce nel progetto di ristrutturazione supereroica degli anni Duemila, in cui i super vengono presentati come figure contemporanee, realistiche e trattate con una gravitas che i fumetti sembravano aver dimenticato (e che invece, nei confini dell’intrattenimento di genere, i videogiochi e il cinema avevano ben presente). L’esperienza di Matt Fraction presso la Marvel si è aperta, dunque, con un debutto con cui è stato difficile, talvolta, confrontarsi. Per lui – in tutto ciò che ha scritto di supereroistico – e per gli autori venuti dopo sulle storie di Iron Fist.

L’immortale Iron Fist Omnibus
di Ed Brubaker, Matt Fraction, David Aja e disegnatori vari

Panini Comics, 2017
552 pagine a colori, € 55,00

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