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BonelliAi fumetti non manca la leggerezza ma la spettacolarità

Ai fumetti non manca la leggerezza ma la spettacolarità

Nell’apprezzabile tentativo di spiegare la costante erosione di vendite patita in Italia dai fumetti, in particolare nelle edicole (che rimangono per adesso, ma non sappiamo per quanto tempo ancora, il luogo elettivo del fumetto da un punto di vista commerciale), Marcello Toninelli individua un fattore che non ha a che vedere con la merceologia (le modalità con cui i fumetti vengono proposti ai potenziali lettori) ma attiene strettamente alla sfera dei contenuti e, come vedremo, chiama in causa l’approccio con cui gli artefici dei contenuti suddetti, gli autori, si accostano al linguaggio da loro utilizzato, appunto il fumetto.

Tale fattore, su cui Toninelli si è diffuso per quattro pagine su Fumo di China n. 263 (giugno 2017), all’interno di un articolo intitolato C’era una volta… E ora non più? Riflessioni sullo storytelling del fumetto italiano, è quello della leggerezza. Toninelli indica cioè in una progressiva perdita di leggerezza da parte degli autori, nello svolgimento del proprio lavoro, la causa principale della diminuzione di feeling tra il fumetto italiano e i lettori.

fumo di china 263 fumetti

La prima cosa da fare, a questo punto, sarebbe capire che intenda precisamente Toninelli nel parlare di leggerezza. L’operazione non appare semplicissima, perché lo stesso Toninelli, per spiegarlo, invece di impegnarsi in definizioni si serve essenzialmente di esempi; il problema è che questi esempi appaiono per lo più contraddittori e non sembrano quindi suffragare in maniera efficace la sua tesi.

Fondamentalmente, secondo Toninelli, a partire dai primi anni Sessanta i fumettisti italiani hanno iniziato a farsi condizionare da troppi rovelli concettuali al momento di realizzare le loro opere, smarrendo quella spontaneità e quell’immediatezza che, sino ad allora, sarebbero state alla base della luna di miele tra loro e i lettori.

«I lettori, in realtà di tutte le età», scrive Toninelli, «potevano godersi il piacere un po’ carbonaro di quelle letture scoppiettanti, veloci, appassionanti, colorate o in un più modesto bianco e nero, in tutti i formati (dall’economicissima “striscia” al quadernetto spillato o brossurato, all’album di grande formato, ai veri e propri “giornali” come Il Vittorioso, il Corriere dei Piccoli e Il Giorno dei Ragazzi). Storie western, gialle, avventurose, di fantascienza, di pirati, di “figli della giungla”, di giubbe rosse, realistiche o umoristiche… Un intero mondo di fantasia liberamente sfrenata, col desiderio da parte di editori e autori – certo! – di fare soldi, ma anche con l’incommensurabile piacere di raccontare, inventare divertirsi per divertire. Con leggerezza. Una leggerezza che era una costante di qualsiasi fumetto realizzato e messo in vendita».

Stanno davvero così le cose? A noi non pare. E, come già accennato, è proprio Toninelli, con gli esempi che egli stesso porta, a smentire la sua analisi. In realtà, molto probabilmente, la leggerezza – per come sembra intenderla Toninelli – ha davvero qualcosa a che fare con le sofferenze del fumetto italiano (e non solo italiano, a dire il vero); tuttavia non nel senso suggerito da Marcello.

Dicevamo degli esempi portati da Toninelli nel suo pezzo. Vediamone alcuni.

diabolik fumetti

Marcello reputa Diabolik uno dei primissimi casi di fumetto realizzato con un’attenuata dose di leggerezza, tanto da avere condotto i fumetti italiani – pur venendo acquistato spesso e volentieri da giovanissimi – in una dimensione adulta. La dimensione adulta del Re del Terrore riguarda però atmosfere e contenuti, non certo il piglio delle sorelle Giussani che è sempre parso improntato – in parte lo riconosce lo stesso Toninelli nel suo articolo – a un’indiscutibile leggerezza che affonda le proprie radici negli intrecci e negli espedienti narrativi del feuilleton. D’altronde Diabolik ha venduto sempre tanto ed è uno dei rari casi di fumetti che, in relazione ai tempi, funzionino tuttora decisamente bene.

Toninelli parla poi dei fumetti Disney e osserva, riferendosi in particolare alla storia Duckenstein, uscita a fine 2016, come oggi «si tenda ormai a privilegiare (o comunque si accettino tranquillamente) un testo quasi “adulto” e un segno complesso che, seppure molto bello, elegante e di grande forza come quello di Fabio Celoni (è un caso che sia anche autore per Dylan Dog?), non è certo facilmente decodificabile da un bambino di 7-8 anni». Il fatto è che le storie disneyane dagli anni Cinquanta ai Settanta non erano meno complesse e strutturate di quelle attuali. Semmai il contrario. Basti pensare agli straordinari e continui rimandi letterari presenti negli episodi scritti da Guido Martina o alla lingua sofisticata e addirittura erudita (nonché ricca di neologismi talora assai ardui) adoperata da sceneggiatori come Rodolfo Cimino o Gian Giacomo Dalmasso. Quanto ai disegni, non si può non evidenziare come lo stile disneyano sia molto più omogeneo (e dunque decodificabile) attualmente – con il magistero di Cavazzano che, a parte qualche eccezione tipo Casty o appunto Celoni, funge purtroppo da livella – di quanto non lo fosse un tempo, allorché i lettori, bambini inclusi, si misuravano senza particolari turbamenti con interpretazioni a volte davvero “devianti” dei personaggi disneyani, come quelle, peraltro memorabili, di Pier Lorenzo De Vita, Giuseppe Perego o, in seguito, dello stesso Cavazzano: il Cavazzano degli esordi, quello non ancora divenuto un “canone” disneyano, la cui capacità di impressionare i lettori, compresi quelli più giovani, era dovuta proprio all’eccentricità (modernissima) del suo segno. E chissà che la stessa cosa non accada ora con Celoni.

Ancora, i fumetti argentini che negli anni Settanta e Ottanta facevano vendere a Lanciostory e Skorpio una valanga di copie ogni settimana avevano poi, rimanendo nell’alveo del fumetto seriale pensato per raggiungere vaste platee, un respiro così tanto più leggero di quello che ha oggi un albo di Nathan Never o di Morgan Lost? Sarebbe veramente azzardato affermarlo. Così come sarebbe azzardato dire che i fumetti “per ragazzi” realizzati negli anni Settanta da fuoriclasse quali Dino Battaglia o Gianni De Luca fossero più “leggeri” di un qualunque fumetto “per ragazzi” odierno. Come nel caso dei fumetti Disney, il rapporto è semmai inverso: c’era più complessità prima (complessità in primo luogo linguistica, relativa cioè alla struttura e alla grammatica del linguaggio fumetto) di quanta non ve ne sia adesso.

Certo, è chiaro che certe ingenuità e approssimazioni, narrative e grafiche, che risultavano tollerabilissime sessanta o cinquant’anni fa e che venivano tranquillamente “perdonate” tanto ai fumetti avventurosi quanto a quelli umoristici, oggi non sarebbero più accettate, ma questo non è il frutto della decisione – presa a tavolino dagli autori – di essere tutti quanti meno “leggeri”. È invece il frutto (ecco in che modo la leggerezza può entrare in un discorso sulla mutazione del rapporto tra fumetto e pubblico) di un approccio meno leggero, meno spensierato e soprattutto meno inconsapevole da parte del lettore.

Non c’è dubbio che, a cominciare dagli anni Sessanta, sia stata l’evoluzione dei lettori a rendere (salutarmente) necessario per gli autori elevare – con soddisfazione degli autori stessi, specie di quelli che di lì in poi si sarebbero dedicati soprattutto a un fumetto eminentemente autoriale – il livello medio di quanto andavano producendo. Fermo restando, è bene ripeterlo, che talune realtà, in primo luogo quella disneyana, sono andate incontro, piuttosto che a una sofisticazione, a una semplificazione, quantomeno nel senso di standardizzazione (essenzialmente in ossequio a quel fallibilissimo ramo dell’economia che va sotto il nome di marketing). Un processo che, peraltro, sembra comune a tutto il fumetto per ragazzi (o quel che ne rimane), un ambito in cui a esser venuta meno non sembra tanto la spensieratezza quanto la libertà d’espressione: con il progressivo mutare della sensibilità collettiva, fortemente influenzata dal politicamente corretto, sono cioè aumentati i vincoli e i paletti di cui gli autori sono chiamati a tenere conto.

lupo alberto mondadori edicola

A Toninelli, poi, sembra che i fumetti umoristici facciano parzialmente eccezione a questa specie di deriva intellettualistica da cui il fumetto italiano, con negative conseguenze, sarebbe nel suo complesso investito. «Non stupisce a questo punto», scrive ancora Marcello, «che le uniche eccezioni in un trend che vede i lettori più giovani volgere le spalle ogni anno in maggior numero al fumetto come linguaggio e occasione di svago, siano prettamente umoristiche: il silveriano Lupo Alberto, nato (guarda caso sulle pagine del Corriere dei Ragazzi) nel 1974 ma diventato titolare di un fortunato mensile nell’insolito formato orizzontale nel 1985, il Rat-Man di Leo Ortolani autoprodotto dal 1995 per il circuito delle fumetterie e poi portato al successo in edicola da Panini nel 1997, Scottecs del succitato Sio che, dopo essersi costruito uno sterminato seguito di divertiti lettori in rete (…), è riuscito a trascinarne migliaia in libreria e fumetteria».

Anche qui, non ce ne voglia Toninelli, gli esempi portati lasciano perplessi. Innanzitutto non risulta che Lupo Alberto, in edicola, abbia mai realizzato – meno che mai oggi – chissà quali venduti. Il Lupo funziona alla grande nel merchandising, lo sappiamo, ma è un altro discorso, assimilabile – fatte le proporzioni – a quello dei supereroi Marvel e DC. Ce ne vuole, poi, a definire “semplici” i fumetti di Leo Ortolani, provvisti come sono di un umorismo sottile e allusivo, e quasi sempre colmi di citazioni e omaggi spesso afferrabili solo da super appassionati della produzione Marvel (anche quella più datata e, perciò, appannaggio quasi esclusivo di lettori anagraficamente maturi). Quanto a Sio, le cui trovate demenziali hanno almeno un precedente di non poco conto nell’Omino Bufo di Alfredo Castelli (roba non recentissima e apparsa proprio sul Corriere dei Ragazzi), anch’egli non sembra proporre – a prescindere dal successo sicuramente lusinghiero che ha finora riscosso – un umorismo per tutti i palati e alla portata di chiunque, anche ove si applichi, come talvolta succede, alla produzione Disney.

Non è quindi possibile rispondere affermativamente a queste due “domande retoriche” poste da Toninelli: «Sarà perché l’umorismo, per sua natura, deve essere “semplice”, nel testo come nel disegno, potendo oscillare al massimo dai curati disegni di Silver a quelli più che essenziali di Sio, e dunque facilmente comprensibile anche dal lettore più giovane e inesperto? Sarà perché, così, deve giocoforza conservare quella leggerezza andata quasi del tutto perduta negli altri generi narrativi?». Oltretutto è lo stesso Toninelli a ricordare, nel suo intervento, come la rivista Linus, nata nel 1965 e da lui considerata il traghettatore del fumetto “sulle rive della serietà”, si basasse essenzialmente su strisce umoristiche. Di provenienza statunitense, d’accordo, ma umoristiche.

Linus 1 1965 fumetti

No. Se il fumetto umoristico, rispetto a quello realistico-avventuroso, accusa forse colpi meno duri è per un altro motivo: è perché il fumetto umoristico, rispetto a quello realistico-avventuroso, può prescindere dalla spettacolarità. Già, la spettacolarità. È questo l’elemento che, come minimo da una quindicina d’anni a questa parte, sta creando al fumetto, e seguiterà a farlo, così tanti grattacapi. La potenza e la suggestione visiva delle immagini sono ormai – possiamo dire definitivamente – il terreno privilegiato dell’intrattenimento, anche di quello che coltivi ambizioni artistiche e intellettuali. E la spettacolarità è il terreno su cui, purtroppo per lui, il fumetto è per sua natura più debole, perché può sì contare sulle facoltà di coinvolgimento che sono proprie della sequenzialità di immagini (tanto più se offerta, come non di rado capita, con un eccellente senso del ritmo e con indubbia sapienza narrativa) ma, rispetto al video, sarà sempre mancante della velocità, del movimento e del suono.

Un insolubile problema che uno che la sapeva lunga, come Sergio Bonelli, aveva focalizzato già diversi anni addietro. Il fumetto – si vedano esperimenti sicuramente lodevoli, se non altro nelle intenzioni, come Orfani – è ormai costantemente impegnato in un faticoso inseguimento dell’audiovisivo, tanto più frustrante in quanto si ha in partenza la certezza che la rincorsa non andrà a buon fine.

Siamo di fronte a una sorta di “vorrei ma non posso” che sempre più spesso, fatalmente, si conclude con un travaso delle idee e delle invenzioni veicolate attraverso il fumetto all’interno di film e serie tv. Con numeri, a livello di pubblico, assolutamente incomparabili, da The Walking Dead ai lungometraggi ispirati ai supereroi, solo per fare due esempi tra i tanti possibili.

È, fondamentalmente, una questione di tecnologia. Per quanto realizzati ormai, nella gran parte dei casi, per mezzo di tavolette grafiche anziché su carta, i fumetti non potranno mai competere, sul piano della tecnologia, con la sfera dell’audiovisivo, che dalla tecnologia è nata. Ed ecco infatti che il fumetto, giustamente, tenta di riequilibrare la situazione andando a inserirsi in un alveo che, fino a poco tempo fa, gli apparteneva poco: quello della letteratura. Non a caso, per quanto ancora lontani dall’avere raggiunto numeri veramente importanti, i fumetti si stanno conquistando sempre più spazi nelle librerie tradizionali, quelle che vengono definite “di varia”. Perché all’affanno del dover inseguire i ritmi forsennati dell’audio-video può fare da ottimo contrappeso la frequentazione dei ritmi più distesi – e per fortuna ancora apprezzati da ampie fasce di pubblico, anche fra i cosiddetti “nativi digitali” – del romanzo.

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