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Cinque anni di premi a Saga, e le nuove fatiche della cultura pop

Saga viene pubblicata da Image Comics da ormai circa cinque anni. In questo lustro è riuscita a vincere 4 premi Eisner – compreso quello appena assegnato – e 2 Harvey Award come migliore serie. Sommando le nomination ad entrambi i premi, lo sceneggiatore Brian K. Vaughan è stato selezionato come scrittore dell’anno per 6 volte, portando a casa il risultato in ben 5 occasioni. Fiona Staples ha raccolto 8 vittorie su 10 accessi alla lista dei finalisti, spaziando da miglior disegnatrice a copertinista, passando per un (generico e discutibile) digital artist. Nessun dubbio quindi che si tratti di una gran serie. Di quelle sulla bocca anche di chi il fumetto statunitense lo segue poco.

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Qui sulle pagine di Fumettologica ne abbiamo sempre parlato in maniera più o meno lusinghiera, senza troppi patemi per gli eccessi di entusiasmo dovuti alla popolarità che il titolo si porta dietro ovunque lo si piazzi. I motivi sono sempre quelli: abbiamo un universo fantascientifico dall’estetica incredibilmente inclusiva, capace di piacere a tutti tranne forse – e a ragione, come vedremo più avanti – agli appassionati di hard sci-fi. Dal design dei protagonisti agli aspetti più folkloristici, tutto pare studiato per allontanarsi il più possibile dai cliché del genere, reale fattore respingente di un sacco di narrativa fantastica.

Vaughan, dal canto suo, scrive ottimi personaggi e ha il dono di imbastire dialoghi dal retrogusto “naturale”, nonostante siano imbastiti in maniera piuttosto invasiva su strutture ad effetto. In più metti qualche scena cruda, riferimenti sessuali che fanno ‘adulto’, un poco di umorismo, il tema del viaggio, la guerra, la famiglia, l’epica da space opera e il trucco – come se fosse facile – è fatto. Ci si affeziona ai protagonisti, si vuole scoprire ancora uno spicchio di quel cosmo così variopinto e si finisce per non vedere l’ora che esca il prossimo volume. A meno che, per voi, la fantascienza non vada da Greg Egan in avanti. In questo caso il discorso cambia (ma ve la siete cercata, diciamolo).

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Con Saga siamo arrivati anche in Italia alla pubblicazione del settimo volume e, nonostante la progressione del plot ami di tanto in tanto perdersi a fissarsi la lanetta dell’ombelico, la qualità rimane tutto sommato piuttosto elevata.

La famiglia di Marko e Alana si fa ancora meno tradizionale, le vocazioni ultraprogressiste sono sempre più esplicite e gli orrori della guerra non mancano di colpirci con tutta la loro insensatezza. I personaggi crescono e cambiano, costretti a crescere troppo in fretta o a venire a patti con la loro vera essenza. Magari scegliendo di sopravvivere in un mondo che li vuole morti o sfruttati a fini politici. La durezza c’è tutta, i consueti innesti da soap-opera anche, così come le magnifiche tavole della Staples e il suo saper rendere vive intere sezioni in cui non si fa altro che parlare.

Se avete seguito la serie fino al volume scorso non avete motivi validi per smettere proprio ora. Leggere Saga vale la pena oggi come ne valeva fin dal primo numero, nel 2012, semplicemente perché in questi cinque anni è cambiato davvero poco. E il discorso dove volevo arrivare sta tutto qui: esiste davvero la necessità di premiare per quattro volte quasi consecutive lo stesso team creativo impegnato a produrre sempre la stessa cosa?

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The same old saga: una favola adulta

Lo ripeto per chiarezza: Saga è una serie molto bella – siamo tutti d’accordo – ma lo era fin dal primo anno. Quando infatti raccolse 9 premi tra Eisner e Harvey Award (più un Premio Hugo). Un trionfo forse esagerato, ma che non mi permetterei mai di criticare. Alla stessa maniera, però, bisogna ammettere che dal debutto in poi non ci sono state mutazioni così importanti da mettere in discussione la cosa. La serie non si è evoluta in qualcosa d’altro, non è un Bone di Jeff Smith partito come fantasy spensierato e conclusosi nella maniera più epica possibile. La creazione di Vaughan e Staples ha trovato la sua ricetta magica e non l’ha cambiata di una virgola in questi cinque anni.

Si parla di un titolo che all’epoca era atteso con ansia, complice il rientro dello scrittore nel mondo del fumetto – dove aveva cumulato precedenti di eccellente qualità – dopo un’esperienza televisiva altalenante. Inoltre si era ai primi vagiti di quella new wave Image che, da lì a poco, avrebbe monopolizzato l’attenzione di numerosi lettori con titoli come The Manhattan Projects, Lazarus, Black Science, Manifest Destiny, Sex Criminals, Fatale, Low, East of West, Jupiter’s Legacy (per fermarci al 2012-13). Questo per dire che il megasuccesso iniziale di Saga era dovuto tanto alla perfezione della sua formula quanto ai bisogni del pubblico. Che nel caso di questa serie in particolare era ben più generalista di quanto si pensi. Perché qui si parla del classico titolo che della sezione “scienza” nella parola “fantascienza” non sa che farsene.

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Per capirci: quella che abbiamo tra le mani è una di quelle storie in cui il background è solo un scusa per andare a parlare di altro. Non troverete, quindi, una particolare attenzione per il design delle tecnologie, o per il funzionamento di società di altri pianeti o per qualsiasi cosa legata ad un ambito hi-tech. Ovvero tutte quelle cose che di solito allontanano i lettori occasionali. Saga è prima di tutto un’enorme, roboante favola per adulti vissuta da personaggi che dovrebbero ricordarci noi stessi. Con tutte le debolezze, le stupidaggini e i rimorsi che ci competono.

Certo, verrebbe da dire, tutto bello. Peccato che i grandi capolavori sci-fi spesso hanno parlato di altro spingendo proprio sul contorno ipertecnico. E non sempre in senso ingegneristico. Penso, per esempio, alla linguistica e agli effetti del linguaggio sulla società in Embassytown del solito China Miéville. Ma anche un classico come Fanteria dello Spazio di Heinlein avrebbe da dire la sua.

Tutto vero, se non fosse che di essere uno di quei capolavori la serie di Vaughan e Staples non sappia cosa farsene. Qui si gioca in un campionato del tutto diverso, come una sorta di Guerre Stellari – riferimento non casuale – con un sacco di parolacce, violenza, droga e televisori che mandano scene gay. Dove più che salvare la galassia bisogna imparare a tirare su una bambina nel bel mezzo di una fuga per tradimento e diserzione.

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Senza dimenticare che i due protagonisti si amano come probabilmente voi non amerete mai il vostro partner e ci tengono a ricordarcelo ogni tre per due, con una serie di dialoghi in grado di concorrere al premio Harmony con quelli tra Tulip e Jesse Custer di Preacher (per chi non l’avesse capito, questo no, non è un complimento).

Pensate adesso a un appassionato di cultura pop dell’ultima generazione – abbonamento a Netflix, gioco in scatola di Trono di Spade, console con due giochi sotto il televisore, t-shirt di Stranger Things, prevendita biglietto per l’Ultimo Jedi e cappuccio da Finn di Adventure Time – e ditemi come potrebbe resistere a tutto questo. Semplicemente non può. E non c’è assolutamente nulla di male in questo, sia chiaro.

Richiudersi nella propria bolla e pensare che tutti quelli incapaci di apprezzare la filmografia di Paul Bartel, o di snocciolare il bodycount di Chow Yun Fat pellicola per pellicola, siano dei superficiali destinati a perire della loro ignoranza, è la cosa più pericolosa – e stupida e presuntuosa – che si possa fare. Perché fuori dalla nostra sfavillante torre eburnea fatta di meraviglia & paccottiglia da fumetteria il mondo va avanti, e non ci possiamo fare nulla. E qui arriviamo al punto.

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Il carburante (in esaurimento?) della cultura pop

La cultura pop si è sempre nutrita del mondo e della vita, rimasticandoli e risputandoli sotto forma di poltiglia premasticata. Il compito dei produttori e dei creativi era quello di annusare l’aria, capire dove si stava andando e sfruttare tutte queste intuizioni per mettere in cantiere opere che sarebbero arrivate sul mercato prima di tutte le altre. Era, ed è tutt’ora, un compito complesso fatto sopratutto di curiosità, analisi, osservazione, cultura a 360 gradi e capacità di leggere le persone. Solo unendo tutte queste abilità potevano nascere opere destinate a durare per sempre e a conquistare il pubblico in maniera trasversale.

Andrea Fiamma, nel bellissimo – davvero, nessuno scrive articoli biografici meglio di lui – articolo Jim Steranko: l’arte di scomparire, ci spiegava come il fumettista riuscisse a mischiare nel suo Nick Fury «la controcultura, l’Op Art, Dalì e Warhol, i film e le pubblicità». Forse perché nella sua vita, oltre a scrivere e disegnare fumetti, era stato un anche «un musicista, art director, escapista, storico, illustratore per il cinema, criminale». Per la precisione, «a ventisette anni aveva già vissuto tre vite intere: l’escapista, il musicista e il pubblicitario. Quattro, se si conta la toccata nel 1957 come inchiostratore nello studio newyorchese di Vince Colletta e Matt Baker. Nove anni più tardi, Steranko ci riprovò: Joe Simon lo assoldò per l’etichetta supereroica della Harvey Comics e poco dopo, senza neanche aver fissato un appuntamento, si presentò negli uffici Marvel e fece cadere il proprio portfolio sulla prima scrivania che trovò. Fu il suo lavoro a parlare, come se la sua persona non avesse già dimostrato abbastanza. Mentre gli altri fumettari rasentavano a fatica la soglia della minima igiene personale, Steranko era un Mad Men con completo e cravatta sottile». Da un personaggio così non posso che aspettarmi qualcosa di memorabile.

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Il suo Nick Fury partiva da uno spettro di influenze enorme e finiva per essere un distillato di cultura pop purissimo. E infatti siamo ancora qui a parlarne, mentre all’epoca era finito per piacere davvero a tutti. Dagli studenti d’arte un po’ fattoni alle ragazze (cosa non scontata, considerando il periodo storico). Anche in questo il grande Jim era in anticipo su tutti gli altri. Forse riusciva già a immaginare un momento storico come il nostro, dove la poltiglia vischiosa e dolciastra di cui parlavamo prima è finita per diventare – per una volta in maniera consapevole – la portata principale della dieta culturale di un numero sempre più grande di persone. Compreso chi tira i fili della macchina dell’intrattenimento.

Abbiamo auspicato questo momento per anni e adesso che è arrivato, pensa un po’, proprio non ci va giù. Potrebbe essere un problema limitato, tutto nostro – robetta da niente, ascrivibile alla classica “sindrome da nicchia”. Ma il nocciolo della questione sta nel fatto che chi sta ora in cabina di regia pare abbia imparato a fare a meno del componente principale: l’immersione nel mondo. Il tuffo e l’esplorazione di ciò che stava alla base della sua educazione culturale. Legge Jim Steranko, certo, ma non tutto ciò che è servito a Jim Steranko per diventare tale. La realtà, il presente, le pulsioni della società che cambia sono sempre più messe in un angolo.

Il giornalista e il creatore di cultura pop odierna è talmente rinchiuso su se stesso e sul suo piccolo mondo da ridurre di passaggio in passaggio il numero degli ingredienti della sua dieta e i primi che saltano sono proprio quelli esterni. Non dico di essere tutti Hemingway e di andare a farsi una Guerra mondiale prima di mettersi a scrivere, e neppure di voler fare a tutti i costi gli Horkheimer di turno. Basterebbe forse non considerare il centro dell’universo lo scaffale della propria cameretta pieno di Funko Pop dedicati alle icone degli anni Ottanta. Stimoli e idee andrebbero colti anche, e forse sopratutto, in campi che mai considereremmo di nostro interesse. Evitare questo lavoro di ricerca continua è dannoso per tutti, come un circolo vizioso che va a danneggiare tutta la creatività.

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Grazie a scossoni come quello di Andy Warhol nell’arte o il bubble up di Ted Polhemus nella moda, quello che prima era basso – il supermercato, la strada – ha cominciato a parlare guardando dritto negli occhi i primi della classe. Finendo per influenzarli tanto quanto prima erano loro a influenzare lui. Un meccanismo tanto stimolante quanto pericoloso, visto che adesso, al fermarsi di un ingranaggio, rischia di collassare tutta la macchina creativa.

Damien Hirst che cerca di rilanciare in ogni modo la sua carriera artistica non ha troppi problemi a inserire icone pop (anche se i più maliziosi potrebbero vederci icone pop già rilette da suoi illustri colleghi) nel suo megaprogetto Treasures from the Wreck of the Unbelievable esposto a Venezia. Alla stessa maniera ricordo di quando – passeggiando per Tokyo – a un certo punto mi ritrovai con alla mia destra l’esposizione di una collezione di Yohji Yamamoto ispirata alle cattive Disney e, a sinistra, l’omaggio firmato Prada ai costumi dei film di John Waters. Due episodi interessanti nella carriera di due designer in grado da cambiare la percezione del gusto a livello mondiale.

Non ci sono dubbi sul come queste riletture – magari quelle più libere, giusto per non alimentare il classico cane che si mangia la coda – andranno a influenzare giovani creativi che, a loro volta, saranno studiati dagli artisti già affermati per capire come le nuove generazioni si stiano muovendo. E poi lo scambio di influenze non ha mai fatto altro che renderci tutti più ricchi. Pensare a uno come Max Richter – partito con la sperimentazione musicale più spinta, arrivato a musicare Black Mirror e a collaborare con Woodkid per poi raccogliere il plauso globale con le musiche di un balletto ispirato ai lavori di Virginia Woolf – mi fa capire di vivere in un momento, tutto sommato, davvero interessante. Grazie anche alle intersezioni tra mondi prima lontanissimi tra loro.

saga-3-p9In un meccanismo simile nessuno può permettersi di fermarsi. E premiare 4 volte su 5 la stessa serie non è l’esempio più lampante che mi viene in mente di dinamismo. Si potrebbe fare peggio solo eleggendo come miglior scrittore del 2016 uno sceneggiatore britannico il cui ultimo contributo davvero interessante al fumetto risale a metà anni Novanta.

La creatività ai tempi dei premi consuetudinari

Va anche detto che i tempi sono cambiati e l’esempio di una vita spericolata come quella di Steranko potrebbe risultare un poco esagerato. Se a ventisette anni sono un pubblicitario superpagato di Manhattan direi che il passare ai fumetti non è un’ipotesi neppure da contemplare. Anzi, siamo onesti, se ho un qualsiasi lavoro che mi consenta un minimo di tranquillità, un livello accettabile di frustrazione e uno stile di vita al di sopra della soglia di povertà, dubito che avrei la forza di fare un salto della Fede verso lidi unicamente guidati dalla passione o dal gusto per l’avventura. Dovrei piuttosto preoccuparmi di evolvermi in continuazione, per evitare di trovarmi senza piani di fuga in caso di probabili disastri. I salti carpiati di carriera in carriera erano un lusso prima – occorre talento o, in alternativa, paracaduti foderati di soldi – e lo sono più che mai in questo momento.

Alla stessa maniera il mondo stesso è cambiato e non esiste più il posto “dove esserci”. Certo, è ancora possibile identificare grossi poli culturali in cui il fermento lo puoi vivere direttamente sulla pelle, ma tutto finisce per essere puntualmente diluito nel costante flusso di informazioni online.

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Ai nostri tempi anche chi, come me, vive in posti non proprio al centro del mondo, può garantirsi un minimo di informazione in tempi decenti. Chiunque lo può fare, rendendoci potenzialmente tutti più colti e preparati su quanto che succede nel mondo, ma andando a perdere quella bellissima differenziazione che prima garantiva di poter distinguere la provenienza di un prodotto dopo un solo istante di esposizione.

Ogni cosa è cambiata, e lo ha fatto in maniera così complessa che cercare di trovarne un’interpretazione univoca è quasi offensivo, nella sua ottusità. Pensare che tutto sia migliore fa di voi degli sprovveduti, non rendersi conto di quanto siamo fortunati – noi tutti, che non significa il proprio circolino di quartiere – invece potrebbe dire qualcosa sulla vostra propensione politica al gentismo e al credere a ogni assurdità vomitata da youtuber semianalfabeti.

Anche al netto di tutti questi cambiamenti così traumatici, il fatto che molti operatori non facciano nemmeno finta di stare al passo è ingiustificabile. È verissimo che Saga è un prodotto che non ha riferimenti interni a grandi saghe del passato troppo invasivi e che basa tutti i suoi momenti più intensi su esperienze che chiunque può effettivamente vivere “dal vivo” (la genitorialità, l’insicurezza per la propria famiglia, il sesso, l’amore) ed è giusto quindi premiarla rispetto a tante ennesime riletture od omaggi, ma non esiste solo lei. Da un concorso prestigioso come l’Eisner Award mi aspetto qualcosa di più di una proclamazione per beatificazione popolare. Si tratta di una pompata di popolarità davvero importante, forse bisognerebbe sfruttarla per dimostrare di saper vedere qualcosa che al pubblico generalista arriverà solo domani.doompatway

Da quello che vedo e che capisco, alcuni titoli della nuova linea ‘Young Animal‘ di DC Comics, ad esempio, stanno facendo molto bene (in primis Shade the Changing Girl e Doom Patrol). Possibile che non meritino almeno di entrare in nomination rispetto a una serie tutto sommato solo passabile come Paper Girls, sempre di Vaughan? Aver fatto vincere a Tom King tutti i premi “secondari” (Migliore albo singolo e Migliore serie limitata) significa spostarne la consacrazione all’anno prossimo, quando ormai il suo nome sarà sulla bocca di tutti. Peccato che, ormai, tra i lettori e critici più attenti sia già chiaro che il prossimo grande nome della sceneggiatura made in Usa sia lui. A che pro aspettare ancora per comunicarlo a una platea meno attenta?

Anche sul piano del disegno si poteva fare molto di più. Lo stile della Staples aveva rappresentato un bello strappo alla norma quando era esploso con il primo numero di Saga. Pittorico senza essere kitsch, ricco di soluzioni moderne (anche nel lettering), capace di raccontare con chiarezza e di tratteggiare due protagonisti subito memorabili. Peccato che qualsiasi tratto riproposto per cinque anni consecutivi identico a se stesso sia destinato a perdere, per forza di cose, la sua carica eversiva: se diventa “norma” per mezzo decennio, come possiamo ritenerlo innovazione? Questo non toglie una virgola al suo valore, ma non è mai giusto premiare la consuetudine.

Sopratutto nell’anno in cui Daniel Warren Johnson se ne è uscito con Extremity, una serie che è un regalo enorme a chiunque ami il fantastico a fumetti. Oppure pensiamo al lavoro che Matteo Scalera sta portando avanti fin dal primo numero di Black Science. E stiamo rimanendo sempre nello stesso campo da gioco. Se volessimo includere nella rosa anche artisti fuori dalla serialità d’evasione, allora una come Lorena Alvarez Gómez (pubblicata da Nobrow) si porterebbe a casa tutti quei premi senza troppi problemi. E sono solo i primi esempi che mi vengono in mente.

Ma premiare Saga è stata sicuramente la scelta più semplice, dando a un sacco di lettori proprio ciò che volevano oggi. E continuando a tenergli nascosto ciò che vorranno domani, se a domani ci arriveranno (da lettori).

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