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FocusL'ozio in Yoshiharu Tsuge e nella letteratura giapponese

L’ozio in Yoshiharu Tsuge e nella letteratura giapponese

L’ultima opera di Tsuge Yoshiharu, L’uomo senza talento, pone in primo piano un forte conflitto: quello tra Oriente e Occidente. Anzi, tra l’Oriente e l’occidentalizzazione. Gli aspetti che coinvolgono questa “guerra” di principi sono molti, come ogni scontro culturale. Ma fra i temi che emergono nello struggente gekiga di Tsuge c’è un tratto delle culture orientali da non sottovalutare proprio in questo conflitto: l’ozio.

Leggi anche: La storia dietro L’uomo senza talento, il manga dell’io di Tsuge

tsuge uomo senza talento fb
Un modo per mettere a fuoco l’importanza della questione potrebbe essere questo: la modernità, figlia del capitalismo, non tollera più la figura “eversiva” del pigro. In Occidente, nell’animazione e nei fumetti, una icona come Paperino nasce anche in questa chiave: il fortunato personaggio è una parodia dell’inetto disoccupato post crisi del ’29. In Oriente, invece, esistono tradizioni di pensiero millenarie che si basano sul non-agire, con Laozi (mitico fondatore del Taoismo che, lo ricordo, non è che un’etichetta postuma per inglobare un certo numero di pensatori) in testa.

Ne L’uomo senza talento di Tsuge, dopo aver chiuso la carriera di mangaka, Sukegawa tenta in un primo momento l’improvvisata carriera di riparatore di macchine fotografiche e in seguito quella di antiquario. Non riuscendo ad avere successo in nessun caso, il protagonista decide di aprire un negozio di pietre sulla spiaggia sassosa del fiume Tama. Quale metafora più patetica dell’inutilità del protagonista?

Questa scelta non è completamente dissennata. Nel suo trascorrere giornate a non far niente nella capanna allestita per la vendita di pietre, il personaggio rimugina sul valore artistico dei sassi da lui proposti. Una nullafacenza per niente dolce, che divora un uomo amareggiato, depresso, consapevole dello scardinamento – difficile da vivere – di ciò che contraddistingue la “giapponesità”.

L’arte del Suiseki consiste nel contemplare la bellezza di una singola pietra e si contrappone all’arte del Bonseki, la messa in scena di un paesaggio con pietre allestito da mano umana. Secondo lo squallido mentore del protagonista Sukegawa, la mano dell’uomo non riuscirà mai a eguagliare la bellezza partorita della natura, una bellezza partorita dalla natura nel corso di centinaia di anni. Se a livello teorico Sukegawa è l’ultimo araldo di una tradizione orientale, dall’altro è palese la futilità delle sue gesta. Vendere sassi scovati sul fiume Tama, considerato dagli esperti povero di tesori, su una spiaggia piena di pietre, mostra una nitida volontà di oziare. E le considerazioni filosofiche che ne emergono pare siano coperte da una coltre di ipocrisia che nasconde la profonda vergogna dell’esistenza.

Il protagonista però non è l’unico personaggio ozioso del libro. Il proprietario della libreria Yamai non fa altro che dormire tutto il giorno. Il libraio è così un fallito che aspettava che tutti finissero per mangiare gli scarti nel piatto. «Perché fai così?», chiede Sukegawa. «Chissà, forse a ispirarmi sei stato proprio tu… […] Vendere pietre raccolte nei dintorni… sai bene che non le comprerà nessuno. E se non le vendi, in fondo è come se non facessi niente. Non credi che sia un po’ come dormire?». Non importa quanto Sukegawa cerchi di elevare il proprio spirito nella contemplazione dell’arte delle pietre: probabilmente è solo una farsa per nascondere la propria inutilità. «Se non sei utile, la gente ti considera un rifiuto. In fondo, essere inutili è come non esistere.»

Lo scrittore Jun’ichirō Tanizaki, nel suo saggio Divagazioni sull’Otium (懶惰の説), afferma che l’ozio ha in sé, al pari delle distruttive ossessioni sessuali, un elemento di turbamento, la cui essenza però può essere perfino eversiva. Ma non solo, ha un carattere esclusivamente orientale, che è quello evocativo.

TanizakiJunichiro
Jun’ichiro Tanizaki

L’Occidente per Tanizaki è totalmente privo di queste filosofie oziose, ed effettivamente il cristianesimo e il pensiero capitalista aborrono la pigrizia, perché l’uomo deve lavorare e produrre. Nel Libro D’Ombra (陰翳礼讃 In’ei raisan) Tanizaki ipotizza che se l’Oriente non avesse incontrato l’Occidente probabilmente avrebbe continuato a evolversi lentamente, ed avrebbe avuto, con la proprio lentezza, una scienza orientale. Questa indolenza deriva, sempre secondo l’autore, dalle condizioni della costituzione fisica, dal colore della pelle, dagli abiti e soprattutto dal clima. Il clima afoso dell’Oriente sicuramente ha influenzato la natura degli abitanti. Questo modo di riflettere, legato alle caratteristiche fisiche ed empiriche, è tipico di Tanizaki. Si può aggiungere che collegare la natura intima giapponese con l’ambiente circostante erano idee molto in voga al tempo, come può essere il concetto di fūdo del filosofo Watsuji Tetsurō.

Ma cos’è l’ozio per Tanizaki? La pigrizia è legata alla non cura del proprio corpo, alla sporcizia, l’indolenza, alla fannullaggine. Sempre in Divagazioni sull’Otium l’autore stesso scrive che questo aspetto è tipico delle civiltà orientali, e di quella giapponese in particolare. Forte del legame dell’ozio con il non agire tipico del Taoismo o del Buddhismo (che definisce nel saggio “filosofia degli oziosi”), il concetto di randa (essere pigri) ha forte in sé le sfumature di noia e accidia, ma che racchiude anche un modo di vivere, un modo di accontentarsi, di provare piacere dalla vita o un sentire malinconico. Questo aspetto di sentire malinconico si trova soprattutto nell’arte e nella sua poesia e rientra nel concetto estetico tipicamente giapponese del wabi-sabiVisione estetica e artistica che deriva dalla dottrina buddhista dell’anitya, il wabi-sabi viene descritta come “bellezza imperfetta, impermanente e incompleta”.

Questa ricerca del ruvido, del non terminato, del brutto causato dal tempo, nell’incontro con l’Occidente è un rifiuto alla sensazione di artificio dell’arte occidentale, sempre razionale e ben costruita, a favore dell’autenticità dei sentimenti. Lo sporco nei vasi di ceramica giapponesi, in cui la polvere e le ditate rappresentano lo scorrere del tempo e aggiungono un valore, un’emozione, un richiamo evocativo che la nettezza occidentale cancella totalmente. Questo è “lustro delle mani” in Cina, e nare in Giappone.

Yasunari Kawabata, nel romanzo Mille gru, racconta che il fascino dei vasi di ceramica della cerimonia del tè è rappresentata dalla natura antica dei vasi, unito al ricordo dei genitori dei protagonisti. Per chi volesse approfondire la bellezza sepolta dalla polvere dei vasi da tè, segnalo anche Morte di un maestro del Tè di Yasushi Inoue (tradotto magistralmente da Gianluca Coci).

YasunariKawabata
Yasunari Kawabata

Anche nel canto tradizionale è preferibile una voce roca e sporcata dal tempo ad una limpida e armonica. L’arte occidentale, che è un’arte razionale e analitica, preferisce ciò che è chiaro, definito, elaborato e artificioso, preferisce il virtuosismo. L’estetica orientale è legata invece a ciò che è indefinito, evocativo, grezzo. “Aggiungerò che non è necessario temere la sporcizia”, spiega sicuro nel Libro d’ombra.

Le pietre di Tsuge rappresentano una bellezza nata nello scorrere di millenni. Sukegawa dice che la frivola rincorsa alla modernità induce a pensare che la tradizione ormai sia superata, mentre nel parlare di cultura occidentale si è spinti a credere che sia tutto fresco, all’ultima moda. La cultura da intellettuali televisivi giustifica inesperienza e ignoranza e gioca con le parole – come “diversità culturale” – travisando l’essenza delle cose. Nella contemporaneità l’affermazione dell’io è l’unica cosa che interessa. Chiude l’intervento aggiungendo che il pensiero orientale, profondo e intriso di spiritualismo, rappresenta l’unica via di salvezza per l’uomo.

L’ozio non è solamente artistico, è anche fisico: sporcizia, pigrizia e bruttura sono quasi un tutt’uno. Data l’estrema povertà, i personaggi e le ambientazioni in Tsuge sono povere e logore. La bruttura dell’inezia è data dalla povertà che non permette azione o pensiero. Vestiti scuciti, catapecchie cadenti, librerie polverose. Non abbiamo dal libro di Tsuge indicazioni sull’igiene personale dei personaggi, ma è facile immaginare non sia delle migliori. In Oriente sono molte le caratteristiche della pigrizia e della non cura del proprio corpo. Per fare un esempio, le vecchie donne di Kyoto di generazioni passate, trascorrevano intere giornate chiuse in casa al buio senza lavarsi, mangiando pochissimo. Esisteva in Oriente una “norma di igiene per pigri”, perché “è più saggio starsene stesi a far nulla, piuttosto che sprecare tempo ed energie nervose non parlando d’altro che di calorie e vitamine.” (Divagazioni sull’Otium, p.190)

Sempre parlando di ozio e letteratura giapponese, non possiamo dimenticare la figura di Toru, nell’ultimo romanzo di Yukio Mishima, La decomposizione dell’angelo (天人五衰), concluso immediatamente prima del drammatico seppuku. Nel capitolo che chiude la tetralogia Il mare della fertilità la sozzura di Toru, a rappresentanza dei cinque segni che preludono la decomposizione dell’angelo, è funzionale al nichilismo attivo di Mishima: «I talloni di Toru sporgevano dal bordo inferiore del kimono. Erano bianchi e raggrinziti come quelli di un morto affogato, nonché sparsi qua e là di macchie di sudiciume, simili a scaglie minute. Il kimono era floscio e cascante. Sul collo, le chiazze di sudore disegnavano catene giallognole di nubi».

Yukio Mishima
Yukio Mishima

Se l’accidia di Toru probabilmente funge da metafora alla decadenza del Giappone contemporaneo, è curioso come nella conclusione della sua magnum opus si riversi una descrizione particolareggiata del corpo nella decadenza dell’ozio. L’insistere su certi particolari lordi rappresenta la manifestazione di un’estetica esclusivamente giapponese.

In Giappone l’uomo morale era colui che si ritirava in meditazione, in Occidente è morale colui che si batte per il bene. Ma sarebbe forzato negare che anche in Oriente il pigro non è mai stato accettato socialmente. Dedicarsi profondamente al proprio lavoro è la base della moralità. L’aspetto dell’ozio, in una società capitalistica come il Giappone in periodo Showa o Meiji, ha quindi in sé un carattere fortemente sovversivo: piuttosto che pensare alla società, al capitale, è preferibile starsene appartati, a non far nulla.

Tsuge è impietoso. Ogni occasione è lecita per raccontare misere considerazioni sull’esistenza. Grazie ai trentamila yen guadagnati dalla vendita di un vecchio libro, Sukegawa decide di portare la famiglia in gita a raccogliere pietre. Con il modesto budget può permettere alla famiglia una residenza in un fatiscente albergo termale. Il viaggio può essere un modo per riappacificare la famiglia, ma il venditore di pietre riesce però a mostrare tutto il proprio essere pusillanime. Nel decadente albergo, dove il pasto è così misero da non valere i pochi soldi spesi, la famiglia incontrerà un prete Komusō, un “monaco del nulla”, dal copricapo in vimini e il flauto tradizionale. Nella società capitalista questi monaci non hanno più alcuna utilità. Proprio come il protagonista, sono uomini senza talento. Nonostante ciò Sukegawa per un attimo prende in considerazione la possibilità di far diventare sua moglie una monaca Komusō. Probabilmente è un modo più semplice di ottenere denaro rispetto all’attività di vendita pietre sul fiume Tama.

Yoshiharu Tsuge
Yoshiharu Tsuge

La scelta di Tsuge di raccontarci dell’ozio è dunque una posizione critica verso la morale comune. È un atto di coraggio dettato dalla depressione, analogo alla decisione stessa di interrompere la carriera di mangaka. Se da un lato l’accidia è una condizione inevitabile dell’infelicità e una misera velleità artistica, dall’altro è una rivendicazione culturale. L’uomo senza talento predilige in maniera pessimistica una lettura patetica e introspettiva: del culto del nulla rimarrà sempre meno, in una società che fagocita il passato svuotandolo di significato. «La maniera migliore di risolvere il problema, fino ad ora, sembra quella di sedersi e non fare un cazzo...», conclude Robert Crumb in It’s really too bad. Lui, in quei fricchettonissimi anni ’60, qualcosa sulla spiritualità orientale lo aveva imparato.

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