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“Star Wars: Gli ultimi Jedi”, la recensione

Da quando è nato, nel lontano 1977, l’universo di Star Wars è legato al suo clamoroso esordio. Episodio IV – Una nuova speranza, ha segnato il tempo e il modo di tanto cinema che adesso quasi non ce ne accorgiamo.

George Lucas lo studiamo per la capacità che ha avuto, assieme e ancora più se possibile di Steven Spielberg di creare il genere blockbuster, per il suo senso del marketing e dello sfruttamento del merchandising. Lo studiamo per lo stile di regia e la capacità tecnica di mettere assieme la narrazione visiva, la musica, le inquadrature, gli effetti. C’è un intero mondo di registi che vivono, possiamo dire, sotto il paradigma creato da Lucas con il primo Guerre Stellari: Ridley Scott, Christopher Nolan, Peter Jackson, James Cameron, Gareth Edwards, J.J. Abrams, David Fincher e decine di altri.

george lucas star wars
George Lucas

Poi ci sono stati gli altri due film della prima trilogia uscita al cinema (Episodio V – L’Impero colpisce ancora ed Episodio VI – Il ritorno dello Jedi). Un crescendo che ha reso ancora più profonda e ricca la trilogia, senza cadere (eccessivamente) nel tranello di un episodio di mezzo troppo spento, perché L’Impero colpisce ancora è forse tecnicamente il migliore dei film della trilogia originale.

Poi c’è stata la seconda trilogia (Episodio I, II e III) che, beh, stendiamo un velo pietoso: a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila le cose non sono andate bene come ai vecchi tempi, forse perché il bisogno di coerenza e realismo per organizzare l’universo di Star Wars, fin troppo esteso con decine di romanzi, cartoni, fumetti e ogni ben di dio, ha perso la dimensione della fiaba. Forse perché si è scoperto che Lucas in realtà non aveva già la storia tutta scritta, e nel gigantesco prequel che ha creato si è perso nel bisogno di costruire l’affresco, anziché nel sogno del racconto di una storia.

Quello che ogni tanto dimentichiamo infatti è la fiammella, la scintilla originale della storia di A New Hope, che ha fatto scaturire tutto quel che è seguito. Il regista Rian Johnson, che ha curato anche soggetto e sceneggiatura di Episodio VIII – Gli ultimi Jedi, quel ricordo invece non solo ce l’ha, ma l’ha anche debitamente protetto e alimentato, fino a farne scaturire la tempra del suo film. La fiammella è il viaggio dell’eroe.

Rian Johnson star wars jedi
Rian Johnson

Ho visto Gli ultimi Jedi nella proiezione per la stampa del 12 dicembre, un giorno prima dell’apertura delle sale. Versione doppiata (molto bene) in italiano, con pubblico abbastanza rumoroso, a sottolineare che i film di Star Wars sono un evento mediatico, che genera passione, partecipazione, anche rabbia e delusione, oppure entusiasmo.

La sala è una vecchia struttura sotterranea, i cellulari sono stati tutti requisiti, messi in buste bianche numerate e riconsegnati alla fine della proiezione. Sono andato da solo, e questo di solito è una buona scelta perché consente di trovare posto centrale facilmente rispetto alle comitive: accanto a me una collega freelance di Sorrisi e Canzoni, Giulia, mi ha raccontato che si occupa da un anno di cinema e non vede l’ora di immergersi in un mondo che è più vecchio di lei. Il piacere dell’archeologia culturale – mentre chi scrive si ricorda quando è stato accompagnato, in effetti molto piccolo a vedere quel “filmone” al cinema.

La “presa” sul pubblico del primo Star Wars, che all’epoca si chiamava autarchicamente Guerre Stellari, fu enorme anche perché non si era mai visto niente di simile. Il film di Lucas promosse la fantascienza dalla fascia dei B movies (con l’eccezione di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrik e poco altro) a questa nuova categoria dell’escapismo di lusso in gran tiro, con magnificente esibizione di risorse ed effetti. Attori sconosciuti o quasi che però hanno definito un canone, e un traino enorme su media diversi nei decenni successivi.

Al centro, il viaggio dell’eroe. Hollywood aveva appena scoperto la versione addomesticata dallo sceneggiatore Chris Vogler del lavoro di una vita dell’antropologo Joseph Campbell, soprattutto dal suo L’eroe dai mille volti.

Quel che Vogler aveva creato era una sorta di manualetto su come si struttura un soggetto per farne un trattamento e una sceneggiatura di successo: The Writer’s Journey: Mythic Structure For Writers (da noi tradotto come Il viaggio dell’eroe) racconta le tre fasi di ogni storia (partenza, iniziazione, ritorno) con i sette archetipi delle figure chiave che vengono incontrate dall’eroe nel suo percorso. L’incrocio e le modalità con le quali questi ingredienti si svolgono forniscono un modo per rispondere a una esigenza di narrazione-ascolto antichissima: era il lavoro fatto da Campbell studiando i miti di tutto il pianeta e cercandone gli elementi comuni. Campbell li aveva trovati e Vogler li aveva sostanzialmente riassunti, come un buono studente che prepara la sua relazione per la scuola. George Lucas, e vari altri dopo di lui, hanno perso questa struttura e l’hanno usata come bussola per costruire il proprio racconto.

il viaggio dell'eroe

Basta leggere la voce di Wikipedia dedicata al viaggio dell’eroe e poi ripercorrere la storia di ciascuno dei primi tre episodi di Star Wars per ritrovare sostanzialmente spiattellato il metodo Campbell-Vogler. Questa semplicità di struttura si sposava perfettamente al sincretismo stilistico, diciamo quasi l’ecumenismo stilistico, di Lucas: la sovrastruttura ideologica del racconto originale di Guerre Stellari è un fritto misto meraviglioso di western e storie di cavalieri, di religioni new age e di protocristianesimo contro l’Impero romano. C’è dentro di tutto, e tutto si tiene assieme grazie a un poderoso esercizio di sospensione dell’incredulità: via qualsiasi dubbio, perché “Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…” è un racconto fiabesco e favoloso (ci sono sia gli uomini che gli esseri animati viventi ma non umani), sicuramente non un racconto fantascientifico.

Arriva J.J. Abrams, che è un esperto di sospensione del dubbio e capace di giocare con le emozioni e la credulità del pubblico in maniera estremamente attuale: ancora new age, tanto sincretismo, citazionismo (mentre Star Wars di Lucas era un creatore di miti, non citava), culturismo del particolare e della ricerca.

La ripartenza con Episodio VII – Il risveglio della Forza è una straordinaria opera di mimesi che riprende lo schema del primo film del 1977 rimescolando i ruoli e aprendo una nuova generazione di interrogativi (su tutti: chi è e di chi è figlia Rey?) che ci hanno regalato due anni di teoria del complotto degna delle migliori scie chimiche. Ma Abrams non è Peter Kolosimo e funziona meglio come forza d’urto: ritornerà a quanto pare a dirigere l’ultimo pezzo della terza trilogia e poi Disney deciderà come andare avanti. Si parla di una quarta trilogia, non prevista da George Lucas, che starebbe prendendo forma sui tavoli della Disney, probabilmente per fare da controciclo alla chiusura del primo ciclo dell’universo cinematico Marvel (MCU).

A dare però profondità e spessore a questa terza trilogia è toccato a Rian Johnson, che si professa non solo appassionato ma addirittura credente nel canone di Lucas, ribadendo che per lui alla fine tutto si riduce nella narrazione del viaggio dell’eroe: una narrazione che non ha a che fare con colui il quale va e sconfigge il nemico (il drago, simbolicamente) quanto nel viaggio iniziatico fuori dai confini del villaggio, lontano dai genitori e parenti di sangue, quello in cui si sopra il mondo e si trovano nuove persone. Il viaggio insomma che trasforma il ragazzo in uomo o, per meglio dire, nella nostra epoca in cui la fecondità non è per fortuna più la determinante del destino delle persone, la ragazza in donna.

Johnson è uno di quei registi relativamente giovani, pieni di interessi, che hanno fatto relativamente poco (tre film, un corto e tre episodi televisivi stra-premiati) ma hanno sempre lasciato un segno. Gli manca ancora la capacità di trasformarsi in un’industria su due gambe, come hanno fatto molti altri grandi (da Spielberg e Lucas fino ad Abrams), ed è forse per questo che è ancora così attento alle sfumature del meccanismo narrativo, all’essenza e alla sostanza della narrazione. La sua regia in questo Star Wars è precisa e puntuale, con momenti di drammaticità profondi e dosati con saggezza, tempi e cadenze sempre costruiti con il massimo realismo, movimenti di camera sapienti, tagli e cuciture decise e fluide. Insomma, avercene di registi con una padronanza della grammatica e della sintassi cinematografica pari alla sua. Il controllo anche del soggetto e della sceneggiatura consentono a Johnson di avere uno spazio creativo enorme, anche se limitatamente a un film solo, e molti hanno già gridato al miracolo, al capolavoro, alla sintesi in un’ora e 52 minuti di venti anni di brutti film di Guerre Stellari.

Non è vero.

Guerre Stellari ha dato risultati incredibili: ricordo che due dei film di fantascienza “pop” più belli degli ultimi dieci anni sono Logan (ne abbiamo parlato qui) e soprattutto Rogue One, precisamente perché finisce molto, molto male, con adulta serietà: non è consolatorio, ma eroico in un modo scanzonato, quasi da Grande generazione, con il gusto per la morte di un Humprey Bogart, senza chiudere gli occhi di fronte al proprio destino. E poi combattono in spiaggia, con una fotografia sublime.

Invece, il nostro Gli ultimi Jedi, è sia una festa per gli occhi che un filmone drammatico che un piacevole intrattenimento escapista che una lunga e sapientemente raccontata storia di un passaggio. Solo che non si capisce di chi sia il passaggio.

C’è poi un elemento imprevedibile, giocato dal fato, che ha dato un sapore non progettato al film, e cioè la morte di Carrie Fisher (Leia Organa) dopo aver finito di girare tutte le sue scene. L’attrice ha una intensità e interpreta momenti altamente simbolici nella struttura della storia che vengono amplificati e trasformati dalla consapevolezza della sua morte.

Perché alla fine Star Wars è anche un film profondamente religioso e, come ogni religione, tratta solo apparentemente di rapporti di forza in questa vita, mentre in realtà affronta di petto il tema della morte (o viceversa, sostengono alcuni). La coincidenza sfortunata che Carrie Fisher sia effettivamente morta in questo periodo, influenza la percezione del film oltre a far riscrivere da capo a piedi il copione del prossimo Episodio IX, previsto per il 20 dicembre del 2019, di cui in questo periodo si gettano le basi di produzione (mentre lo spin off del Natale 2018 dedicato ad Han Solo è in piena produzione).

star wars ultimi jedi

Gli ultimi Jedi non è il più bel film di Star Wars di sempre, neanche il più bello dell’attuale trilogia: ha forza ed energia e più ironia del primo (ma manca di umorismo, purtroppo), è meglio disposto in campo, dà spazio all’introspezione, risolve in modo politicamente corretto razze, genere e colore degli attori, ma mescola molto i personaggi e alla fine non sappiamo più con chiarezza di chi sia la storia che stiamo vedendo.

C’è chi ha detto con una certa ragione che i primi sei film sono sostanzialmente la storia di Anakin Skywalker, il vero filo conduttore (vista la brusca dipartita di Obi-Wan Kenobi, sennò il protagonista poteva essere lui, o al massimo il prezzemolino Yoda). Ma i primi due film della terza trilogia? È la storia di Rey? O è quella di Kylo Ren, bamboccio con problemi a gestire la sua ira? O è la storia di Finn, il signor nessuno che vuole diventare qualcuno e contemporaneamente scappare da tutti? O, ancora, è quella dello sbruffone Poe Dameron, pilota avventuroso e spericolato?

Con umiltà, cercando di non lasciarsi trasportare dalla vanità, giudicando quel che invece va accettato e visto con rispetto, possiamo dire che Gli ultimi Jedi è un film potente, divertente e piacevole, ben scritto e diretto con garbo. Una gioia vederlo, farà sobbalzare sulla sedia, disperare, commuovere, arrabbiarsi, esaltarsi e alla fine applaudire, per salutare tanti eroi che non rivedremo più. Ci farà pensare a chi è un eroe, a cosa vuol dire sacrificarsi e quando questo sacrificio è accettabile e quando no. È un film corale, sull’inganno, sulla vanità, sulla debolezza di creature forti e sulla forza di creature deboli. È un film sulla perdita e sulla trasformazione: un degno secondo atto di una trilogia che però è ancora lontana dal suo compimento.

Le vostre due ore di vita (e i vostri dieci o più euro) li potete felicemente investire negli ultimi Jedi, non ve ne pentirete.

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