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La folle fantascienza di Atomic Robo

Atomic Robo è un automa creato nel 1923 dallo scienziato Nikola Tesla. Ha un minuscolo reattore impiantato nel petto, uno strano senso dell’umorismo e ha attraversato la storia del Ventesimo secolo senza farsi mancare nulla, dalla Seconda guerra mondiale fino alle scoperte più rivoluzionarie. Oggi è il perno centrale delle Tesladyne Industries, un’organizzazione sovranazionale dal budget miliardario atta a esplorare le frange più pionieristiche della ricerca. E opera anche come agente sul campo, assieme ai suoi scienziati combattenti, nella sventurata ipotesi di crisi potenzialmente letali in giro per il pianeta. Circostanza, tra le altre cose, non così rara come ci si aspetterebbe.

All’inizio della sua carriera editoriale – il primo numero uscì nelle fumetterie americane l’ottobre 2007, l’edizione italiana è invece a cura di RenoirAtomic Robo era considerata una sorta di versione leggera e senza nessuna pretesa artistica dell’Hellboy di Mike Mignola. E questo senza contare i palesi parallelismi con Iron Man. C’erano scienziati pazzi, strane teorie e cospirazioni, un eroe indistruttibile, un grandissimo senso dell’avventura, mostri giganti e tante botte, oltre a una spolverata di commedia deadpan ad alleggerire l’atmosfera. Graphic Novel Reporter apriva la sua recensione con un perentorio «Sai che Mike Mignola si è ispirato a H.P. Lovecraft quando ha creato Hellboy? Bene, questo fumetto è un po’ la stessa cosa, tranne che si tratta di un robot dai calzoni da equitazione e lo sceneggiatore ha preferito Indiana Jones agli incubi tentacolari».

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Come si può ben capire, si trattava di una lettura molto piacevole, ma che non riusciva a trovare una sua identità ben precisa. Ci si doveva sempre basare su qualcosa di preesistente, per descriverla a dovere. Sebbene la struttura del primo volume riuscisse comunque a suggerire qualcosa di quello che sarebbe arrivato – si veniva sbalzati rapidissimamente da un evento all’altro in capo al mondo senza permetterci di capire se si trattasse di un antologico o di qualcosa di più coeso – l’impressione era comunque quella del classico giocattolino post-moderno. Una serie leggera e rapidissima, che non puntava a nulla se non a intrattenere per il tempo necessario alla lettura.

Dopotutto lo sceneggiatore Brian Clevinger era noto più che altro per un webcomic basato sugli sprite di un videogioco del 1987, mentre il disegnatore Scott Wegener non era certo uno per cui gridare al miracolo. La sua linea spigolosa e caricaturale si sposava alla perfezione con i testi dello scrittore, ma spesso le pagine si dimostravano troppo scarne ed essenziali per arrivare dove dovevano. Rimane il fatto che Atomic Robo comunque piaceva, e nel 2008 finì per essere candidata a due premi Eisner, tra cui quello dedicato alla miglior miniserie. Niente male per un fumetto pubblicato dalla misconosciuta etichetta canadese Red 5 Comics.

I premi gli furono soffiati da The Umbrella Academy e dal colorista Dave Stewart, ma questo non intaccò minimamente l’entusiasmo dei due autori, decisi più che mai a portare avanti il loro progetto. Come per gli scienziati di cui ci narrano le avventure, i loro piani avevano prospettive sul lungo periodo. All’epoca io non capii minimamente questa cosa e finii per sottovalutare – e di parecchio anche – quello che sarebbe arrivato da lì ai dieci anni successivi. Non ci girerò troppo attorno: il paragone con Mignola era un abbaglio grande come una casa perché, a conti fatti, Atomic Robo è in tutto e per tutto una serie alla Warren Ellis. Il migliore dei Warren Ellis, tra le altre cose.

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Ecco l’autentico vantaggio della serialità, uno degli ingredienti in grado di rendere enormi i nostri fumetti preferiti e che nessuna trasposizione cinematografica o videoludica riuscirà mai a riproporre: metto in piedi un titolo senza nessuna pretesa e poi, numero dopo numero, lo rendo una delle cose più complesse e pazzesche che ci siano sul mercato. Possibilmente senza che nessuno si accorga mai dello strappo. Di pari passo il processo di maturazione dei due autori all’epoca quasi esordienti è stato lento e costante, come il certosino lavoro di costante miglioramente che li ha portati a cambiare radicalmente faccia alla loro creazione.

Così si va dagli sganassoni a formiche giganti e piramidi semoventi a folli piani messi in piedi da intelligenze artificiali intenzionate a conquistare l’universo, passando per salti nel tempo, dimensioni alternativa e tuffi in una scienza che più speculativa non potrebbe essere. Il tutto mantenendo una continuity perfetta, con riferimenti che trovano la loro spiegazione solo numeri dopo, mentre le esperienze e i ricordi dei personaggi si accumulano in maniera del tutto plausibile. I riferimenti al mondo della cultura pop rimangono, ma sono sempre meno ammiccanti. L’universo vuoto e plastificato di Atomic Robo diventa più solido e tangibile con il passare delle uscite, facendoci ritrovare tra le mani una serie radicalmente diversa da quella da cui eravamo partiti.

Il principale ingrediente di una tale trasformazione è l’intelligenza, da parte di chi scrive come di chi legge, ma anche dei personaggi coinvolti. Brian Clevinger ha capito bene che una serie costruita attorno a un gruppo di scienziati non può limitarsi a una serie di scene d’azione concatenate come capita, ma richiede uno spessore che deve influenzare tanto lo sviluppo del plot quanto la stesura dei dialoghi. Così, in Atomic Robo non troverete mai nessun momento alla Prometheus – avete presente, quando illustri luminari si comportano da idioti in situazioni per cui hanno studiato per tutta la vita? – ma soluzioni che andranno puntualmente oltre ogni vostra previsione più assurda, seguendo una logica inoppugnabile. Il tutto tenendo sempre a mente che si tratta di tecnici, quindi gente pragmatica e abituata a ragionare in maniera plausibile nonostante si vada spesso e volentieri fuori scala.

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Un piccolo esempio: discutendo di come risolvere una minaccia tramite il lancio di testate termonucleari, gli scienziati concordano di come si tratti di una soluzione funzionale nel momento di massima crisi ma assolutamente devastante sul lungo periodo. Commentando i risultati di tale strategia uno dei protagonisti commenta l’aftermath atomico con un laconico «Parliamo di miliardi di morti prima che l’agricoltura possa ripartire». Non si tratta di un one-liner fine a se stesso, buttato lì tanto per fare. Al contrario, dietro a una scelta lessicale simile c’è un lavoro di ricerca sul personaggio parecchio profondo. Dopo la catastrofe dobbiamo far ripartire la vita, e non possiamo farlo senza fonti di sostentamento. Se un eroe standard si sarebbe limitato alla sopravvivenza immediata, gli scienziati combattenti della Tesladyne Industries pensano già allo stadio successivo. Il tutto dopo aver discusso di materiali teorici e di come mettere in piedi un lancio orbitale in pochi giorni.

Ammettiamolo, in questo preciso momento storico, leggere storie dove i nostri salvatori sono scienziati super-intelligenti dalla sconfinata preparazione tecnico-teorica è un’autentica goduria. Nessuna scappatoia, nessuno scivolone di sceneggiatura, e la sospensione dell’incredulità guidata con mano certa e sicura. Perché un conto è accettare che un enorme verme di magma viva sotto la superficie terrestre – fa parte del gioco – un altro è trovare sensato che un tizio con un dottorato in robotica e fisica teorica possa comportarsi in maniera più stupida di quanto farei io. Soprattutto se si trova nel suo campo da gioco.

Si tratta della stessa soddisfazione che si prova nel vedere Spider-man: Homecoming. Per quanto il film possa essere risultato inutile, c’è una scena che penso abbia fatto tirare un gran sospiro di sollievo a tutti: quando Adrian Toomes capisce al volo chi ci sia dietro all’eroe del film. Sono più di 90 anni che ci vogliono far credere che bastino un paio di occhiali a montatura grossa e una pettinatura impomatata per nascondere in maniera convincente la nostra vera identità. Qui abbiamo un tizio così intelligente da inventarsi un business di armi clandestine partendo dai resti di una battaglia tra Avengers e alieni, figurarsi se non riesce a fare due più due e a capire una cosa praticamente logica. Oltre a trattarsi di uno snodo fondamentale per il dipanarsi del plot, è anche un modo per rendere il tutto più realistico e avvincente, senza per questo rinunciare a raccontarci di un quindicenne in grado di sintetizzare ragnatele istantanee durante l’ora di chimica.

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Atomic Robo è la stessa cosa, solo su scala globale e con un sacco di scienza e fantapolitica in più. Come dicevamo, è una cosa che Warren Ellis ha sempre fatto. Brian Clevinger non fa che trovare la sua strada, innestando il tutto con una leggerezza da film per ragazzi anni Ottanta e uno strano senso dell’umorismo (mai così esplicito da virare il tutto verso la commedia). Perché, se non si fosse ancora capito, questa è prima di tutto una testata improntata all’avventura più iperbolica. Ed è più o meno a questo punto che entra in ballo Scott Wegener.

Chiariamolo subito: lo Scott Wegener del primo volume di Atomic Robo non sarebbe stato in grado di affrontare in maniera soddisfacente le vicende narrate dal quinto tomo in avanti. Eppure, grazie alla dedizione con cui ha disegnato ogni singola vignetta di questa lunga serie, le tavole si sono fatte sempre più ricche e dettagliate. Probabilmente il punto di svolta in questo senso è stato Atomic Robo e le diavolesse volanti del pacifico, sorta di rilettura diesel-punk di Hayao Miyazaki che richiedeva per forza di cose un netto miglioramento al tavolo da disegno per essere raccontato in maniera convincente. Da lì in avanti la progressione è stata sempre più marcata, fino alla definitiva consacrazione con – non fermatevi ai titoli, vi prego – Atomic Robo e la spada selvaggia del Dr. Dinosauro e Atomic Robo e i cavalieri del cerchio d’oro. Forse i cicli narrativi più visionari ed esagerati tra quelli pubblicati in Italia, che trovano nelle matite di Scott la loro perfetta incarnazione.

Quello che funziona maggiormente in quelle pagine è la stilizzazione delle figure umane – quasi da fumetto umoristico – rispetto all’attenzione messa nel tratteggiare tecnologie e creature mostruose. La lettura delle pagine è sempre facilissima e mai pesante, nonostante si incappi in muri di testo non indifferenti, e la regia risulta cristallina anche nei frangenti più folli. Senza voler strafare a tutti i costi, Wegener riesce a mettere su carta un fumetto solare e dinamico dove la recitazione dei personaggi ha sempre la precedenza sul vezzo grafico fine a se stesso. Così, a dispetto di un aspetto forse fin troppo scarno ed essenziale, i testi di Clevinger funzionano benissimo proprio perché non si percepisce neppure per un istante la loro centralità nella narrazione. Nessuna “testa parlante” qui, ma una serie di attori tratteggiati in maniera stilizzata quanto si vuole, eppure sempre espressivi e funzionali nel rafforzare le linee di dialogo.

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Lo stile è chiaramente debitore tanto del fumetto orientale in sé quanto delle contaminazioni che incominciarono ad arrivare negli Stati Uniti durante gli anni Novanta, senza mai dimenticare le influenze dell’animazione televisiva di cui nessun disegnatore occidentale sembra più poter fare a meno. I colori sono chiari, mai invadenti. L’idea è proprio quella di un cartone animato dove far succedere ogni sorta di evento apocalittico senza mai scordarsi di farlo con il sorriso sulle labbra. Ultima menzione d’onore alla capacità di essere riusciti a rendere espressivo un protagonista senza bocca e con gli occhi ridotti a due bolli dotati solo di palpebre. Anche in questo caso il design anti-realistico di Wegener si sposa alla perfezione con il dry humor di tutta la serie, dimostrando coesione e compattezza di vedute con il collega dietro alle sceneggiature.

Avevo lasciato perdere Atomic Robo perché ai tempi delle prime uscite mi pareva troppo fine a se stesso e perso nella consueta gara a chi riesce a mettere in piedi la serie più pop dell’anno. Grazie alla costanza dei suoi autori, passati dalla Red 5 Comics all’autoproduzione tramite Patreon e Kickstarter per accasarsi infine in IDW Publishing, me lo sono ritrovato dopo quasi dieci anni completamente diverso. Parliamo di una di quelle serie definibili in una sola parola: soddisfacenti. Nel leggerla hai riso, ti sei emozionato, hai viaggiato in luoghi che mai avresti immaginato. Magari non ti cambierà la vita, ma l’impressione di avere letto una grande storia c’è tutta.

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