Alan Moore e l’eredità di “Batman: The Killing Joke”

Trent'anni fa usciva negli Stati Uniti "The Killing Joke" di Alan Moore e Brian Bolland, una delle più acclamate storie di Batman. Nonostante tutti questi anni, la storia continua ancora oggi a far discutere per la presenza della (presunta) violenza sessuale del Joker ai danni di Batgirl.

In un’intervista del 2004 pubblicata sulla defunta rivista Wizard, Alan Moore raccontava interessanti retroscena legati alla genesi editoriale di Batman: The Killing Joke (1988): «Chiesi a DC se avessero problemi con la mia decisione di rendere disabile Barbara Gordon – all’epoca Batgirl –, e se mi ricordo bene ne parlai con Len Wein, che era il nostro editor sul progetto, il quale mi disse “Resta in linea, vado nell’altra stanza a chiedere a Dick Giordano [caporedattore DC, Ndr] se va bene”, e così rimasi in attesa per un po’, poi mi ricordo che Len tornò al telefono e mi disse “Sì, okay, storpia la stronza”. Forse era una delle cose per cui avrebbero dovuto mettermi un freno, ma non lo fecero».

È difficile parlare di The Killing Joke. A trent’anni dall’uscita originaria, e a dieci dalla versione riveduta, corretta e ricolorata, il graphic novel (o graphic novella?) di Alan Moore e Brian Bolland porta con sé un’eredità complessa, una presenza ingombrante e controversa che dipende non solo dalle caratteristiche proprie del fumetto, ma anche dal mutamento del contesto di ricezione dello stesso.

Al fine di abbozzare un’analisi del retaggio dell’opera, è necessario prendere in considerazione almeno tre dinamiche storiche: in primis, l’enorme successo commerciale, che rende tutt’ora TKJ uno dei long seller più consistenti dell’affollato mercato americano. ICv2 ha riferito di 12.787 copie vendute nel 2017, a fronte di un prezzo di copertina di 17,99 dollari, mentre il New York Times l’ha inserito come terzo fumetto hardcover più venduto dello scorso anno (inediti compresi).

Il secondo aspetto concerne le alterne fortune critiche di cui il testo ha goduto e continua a godere. TKJ trionfò agli Eisner Awards del 1989, portando a casa il riconoscimento come Miglior volume, e regalando a Moore e Bolland i premi come, rispettivamente, Miglior sceneggiatore e Miglior disegnatore. Ancora oggi, il testo finisce regolarmente nelle classifiche sulle migliori storie di Batman, di solito dietro a Anno Uno e Il ritorno del Cavaliere Oscuro.

Accanto a questo entusiasmo celebrativo, negli anni sono tuttavia emerse perplessità concettuali, narrative ed estetiche, legate in particolare al trattamento di Barbara Gordon. Un iniziale tentativo di rivalutazione critica apparve sotto forma di fumetto, con la storia Oracle: Year One (1996, inedita in Italia), scritta da John Ostrander e Kim Yale – quest’ultima scomparsa da lì a poco – e disegnata da Brian Stelfreeze. Un’altra voce dissidente fu quella della sceneggiatrice Gail Simone – poi guarda caso autrice di Batgirl –, che nel 1999 inserì il personaggio nella celebre lista “Women in Refrigerators”, come ci ha ricordato Andrea Fiamma in occasione dell’uscita dell’adattamento animato del fumetto.

Grazie anche a queste manifestazioni, negli ultimi anni TKJ è stato (in parte) rivalutato come episodio problematico e/o trascurabile nella carriera di Moore, uno scheletro nell’armadio di cui forse è meglio non parlare. Come sostengono Julian Darius in And the Universe so Big (2012) e Jan Baetens e Hugo Frey in The Graphic novel: An Introduction (2015), si è fatto epitome dell’esacerbazione gratuita della violenza nel mainstream angloamericano post-Watchmen e post-Cavaliere Oscuro. Volete far crescere i supereroi e venderli agli adulti? Più sangue, più sadismo, più sesso. Un po’ come il coevo Marshal Law di Pat Mills Kevin O’Neill, ma senza intenti satirici e parodistici.

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L’opera rinnegata

Il rapporto tra TKJ, Watchmen e il genere supereroistico ci porta all’ultimo aspetto della questione, ossia il rigetto autoriale dello stesso Moore. Okay, Barthes, Foucault e il poststrutturalismo ci insegnano che l’autore è morto, è una costruzione discorsiva che esiste in relazione al testo, non ce ne deve fregare niente. Come spiega in maniera convincente Darius proprio in relazione a TKJ, l’intento autoriale è una «fallacia critica», perché se noi dovessimo trovare una nota scritta di Shakespeare in cui sostiene che Amleto è una schifezza che ha scritto per soldi, l’opera rimarrebbe uno dei più grandi capolavori del canone occidentale. E lo stesso vale per i fumetti.

Ma rimane comunque un leggero senso di imbarazzo nell’apprezzare un’opera – o nel tentare di farlo – quando il suo creatore non perde occasione per parlarne male. Forse dipende dall’importanza di Moore all’interno del fumetto contemporaneo. O forse dal rapporto particolare che intrattiene coi lettori di supereroi, che cercano ancora l’approvazione e l’affetto di questo padre burbero e distante che li ha abbandonati per dedicarsi ad altro.

Nell’intervista menzionata all’inizio l’autore non usa mezzi termini: «Mentre i disegni di Brian sono di una bellezza spettacolare, non sono molto soddisfatto della storia. Penso che dal punto di vista della scrittura TKJ abbia dei difetti. […] È stato fatto solo per dimostrare che Batman e Joker soffrono di simili psicosi, cosa che non è molto interessante a chi non è appassionato di fumetti. A conti fatti, è uno dei lavori che mi interessano meno perché raccontava troppo poco, ed era troppo esplicito e forse gratuito nel modo in cui lo faceva».

Nell’intervista-fiume con George Khoury, raccolta ne Le straordinarie opere di Alan Moore (ed. italiana 2011), Moore approfondisce il legame tra il fallimento di TKJ e la sua precedente produzione: «Credo che la questione fosse che scrissi la storia mentre stavo scrivendo Watchmen, o subito dopo averlo concluso. Ero ancora troppo vicino a Watchmen e avevo utilizzato lo stesso approccio narrativo per Batman. Inoltre avevo inserito lo stesso tipo di tetra sensibilità morale. […] Penso che feci un errore fondamentale nel renderlo così tetro e sgradevole, perché può andare bene essere cattivi, tetri o terrificanti ma solo se si veicola un tema importante» (traduzione di smoky man).

Moore sembrava essere preoccupato per la gratuità della violenza in una storia che, secondo il suo parere, non veicola messaggi significativi, né riesce a esulare dalle preoccupazioni del genere supereroistico. Manca, in altre parole, una qualità redentiva che possa secondo lui giustificare l’uso di motivi grafici. Evita però di scendere nel dettaglio in merito all’aspetto più problematico di TKJ, ossia la violenza sessuale subita da Barbara Gordon, la rappresentazione dello stupro, e alla sua strumentalità all’interno dell’impianto narrativo del fumetto.

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Violenza sessuale

Qualcuno qui potrebbe obiettare alla mia (e altrui) scelta di chiamare “stupro” quanto accade in TKJ. D’altronde, come sottolinea anche Julian Darius in And the Universe so Big, «nonostante Barbara venga mostrata semi-nuda [in realtà è completamente nuda, Ndr], non viene mai detto che il Joker molesta o stupra Barbara, anche se ne ha certamente l’opportunità. Tuttavia, molti lettori si sono ritrovati con una sensazione di malessere».

Se devo essere onesto, mi sembrano considerazioni abbastanza futili. Poco importa se Barbara venga penetrata o meno dal Joker – perché è a questo che Darius si riduce –, l’assalto nei confronti della donna ha un’evidente natura sessuale. Se ancora non siete convinti, date un’occhiata alla tavola che DC ha chiesto a Bolland di ridisegnare. O prendete in considerazione il modo in cui lo sviluppo narrativo di TKJ aderisce a pieno titolo allo schema formulaico identificato da Lisa Cuklanz in Rape on Prime Time (2000), che analizza la rappresentazione di stupro e violenza sessuale nelle serie TV americane.

Secondo tale schema, cristallizzatosi nei primi anni Ottanta, la vittima viene attaccata da uno assalitore che pronuncia «minacce e stereotipi sessisti», viene impiegata un’arma che «enfatizza l’intensa depravazione dello stupratore», l’immancabile scena in ospedale «enfatizza l’impotenza della vittima, nonché l’intensità del danno fisico e psicologico da lei subito», gli stupratori differiscono dalla gente comune per via di aspetto, atteggiamento e attitudini (!), ed è compito del protagonista maschio acciuffare e possibilmente malmenare il malfattore. Insomma, non ci facciamo mancare nulla.

Per comprendere la problematicità della rappresentazione della violenza sessuale in TKJ, è necessario ricorrere alla nozione di rape culture, o cultura dello stupro. Mi scuso in anticipo per il carattere semplificatorio e riassuntivo di questo riferimento – probabilmente qualche espert* di studi di genere è mort* mentre scrivo queste righe –, ma una discussione sensata sull’argomento richiederebbe altri spazi.

In ogni caso, il termine è stato coniato dal femminismo della seconda ondata negli anni Settanta, e fa riferimento a quelle pratiche culturali, sociali e legislative che conducono alla normalizzazione dello stupro e della prevaricazione patriarcale violenta di tipo sessuale anche all’interno di comunità che condannano formalmente questi atti. La cultura dello stupro è altresì legata all’oggettivazione della donna e della sessualità femminile, al condono dell’approccio non consensuale e/o violento («so’ ragazzi»), alla colpevolizzazione delle vittime di abuso e altro ancora.

Ora, con questo non voglio dire che Alan Moore o Brian Bolland siano sessisti o che vogliano celebrare la violenza sessuale. Direi piuttosto il contrario. Né voglio dire che TKJ sia un testo intenzionalmente sessista, anche perché risulta controproducente considerare la cosa in termini binaristici. È però evidente che il graphic novel concorre alla sessualizzazione della violenza sulle donne, reiterando un processo endemico alla cultura popolare e non.

Il fatto è che i generi popolari, di norma, utilizzano in maniera preponderante lo scontro violento (sparatorie, mazzate, etc.). Ma è coi personaggi femminili che tale violenza assume delle connotazioni sessuali e oggettivanti. Un esempio classico è quello di Star Wars, la prima trilogia. Se vi ricordate, tutti e tre i protagonisti incappano in confronti più o meno violenti con i cattivi, ma le conseguenze hanno una diversa portata materiale e simbolica: Luke, colpevole di incesto e ribellione all’autorità paterna, perde la mano che regge la spada/simbolo fallico; Han, il più mascolino e dinamico, viene cementato nella carbonite non appena confessa apertamente i propri sentimenti; Leia diventa una schiava sessuale di Jabba.

Fin qui, quindi, nulla di nuovo. Quello di Star Wars è uno dei possibili esempi per dimostrare il differente trattamento dei personaggi femminili nelle narrazioni popolari, e TKJ sembra quindi aderire a un pattern formulaico ben codificato. Ma due aspetti ulteriori contribuiscono alla specificità del graphic novel nel novero di rappresentazione già di per sé problematiche. Primo, la reiterazione dello stupro all’interno dell’opus mooriano. Fateci caso, in quasi tutti i suoi fumetti più importanti degli anni Ottanta e Novanta – e, in alcuni casi, anche dopo – troviamo una scena di violenza sessuale.

Ne ha parlato anche Grant Morrison in un’intervista su Rolling Stone: «Ho preso un numero di Marvelman e, cazzo, c’erano due stupri, e di colpo mi sono messo a pensare “Quante volte viene commesso uno stupro in una storia di Alan Moore?” Non sono riuscito a trovarne una senza un personaggio stuprato, con l’eccezione di Tom Strong, che penso sia un pastiche. Sappiamo che Alan Moore non è un misogino ma cazzo, è ossessionato dallo stupro. Io sono riuscito a scrivere fumetti per trent’anni senza una scena di stupro!».

Morrison ha ragione, ma non parlerei di ossessione. Parlerei piuttosto di un certo tipo di approccio alla scrittura, nonché di un limite autoriale nell’ideazione e caratterizzazione di personaggi femminili. Per certi versi è un limite che ha anche Stephen King – altro autore che amo molto –, che ha spesso ricorso a stupri, molestie e daddy issue per ‘dare spessore’ alle sue eroine. Il problema della reiterazione di scelte narrative è che può in alcuni casi portare a rendere ordinaria e persino banale la sessualizzazione della violenza sulle donne. A renderla un cliché.

Il secondo aspetto si lega in maniera diretta a questo, ed emerge se confrontiamo TKJ con, per esempio, Watchmen. Anche qui lo stupro gioca una parte fondamentale nella caratterizzazione dei due soli personaggi femminili, ma almeno le conseguenze fisiche e psicologiche sono rappresentate e indagate. In maniera forse un po’ goffa o sbrigativa, ma sono presenti e hanno ripercussioni sull’impianto narrativo.

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Il ruolo di Batgirl

In TKJ questo non accade. La violenza su Barbara è strumentale all’interno di una dinamica di potere tra due maschi (tre, se contiamo Gordon), con il Joker che fa ciò che fa per «provare qualcosa» (traduzione di Leonardo Rizzi). E la strumentalità assume un carattere ancora più evidente se realizziamo che il personaggio dovrebbe rappresentare una sorta di correlativo simbolico per l’unico altro personaggio femminile, l’anonima moglie del Joker. Che appare in due pagine e muore off-screen.

Il trattamento di Batgirl è analizzato nel dettaglio da Will Brooker all’interno del libro Many More Lives of the Batman (2015), da lui curato con Roberta Pearson e William Uricchio. Brooker scrive che «Barbara, in questa storia, è semplicemente una pedina di un gioco più grande tra Batman, Joker e per certi versi Jim; la sua importanza è legata al significato che lei assume per gli uomini, e il suo trauma – la sua “brutta giornata” – è quasi interamente trascurato».

Il critico ci sta dicendo che, forse, una scena di due pagine in cui la ragazza ospedalizzata implora Batman di salvare il proprio padre non è sufficiente. Brooker contestualizza anche TKJ come il sintomo di una più generale reazione, propria degli anni Ottanta, contro la diffusione di discorsi e narrazioni femministe. In questo senso, sostiene che «se la Batgirl degli anni Settanta poteva essere vista come una figura femminista, allora il periodo post-Crisi sulle terre infinite può […] essere visto come un tentativo di minare tale concezione, e TKJ come l’attacco più feroce».

Okay, può essere che Brooker abbia un po’ il dente avvelenato. Ricordiamo infatti la querelle personale tra il critico e lo sceneggiatore britannico, che ha portato all’arcinota “Last Alan Moore Interview” pubblicata a inizio 2014 sul sito di Pádraig Ó Méalóid (grazie a smoky man possiamo leggere qui la traduzione integrale in italiano, inclusa la contestualizzazione degli eventi). Sappiamo ora che era proprio Brooker l’anonimo twittatore e «studioso di Batman», che aveva apertamente criticato il corto di Moore Act of Faith tirando in mezzo lo stupro su Barbara Gordon.

A prescindere dall’atteggiamento poco gradevole di Moore nei confronti di Brooker e di altre persone che lo hanno criticato, incluso Grant Morrison, l’“Ultima intervista di Alan Moore” è significativa poiché in essa lo sceneggiatore affronta in maniera esaustiva e giustifica la pervasività della violenza sessuale all’interno della sua produzione, pur senza riferirsi direttamente a TKJ. Moore spiega infatti che, secondo lui, «lo stupro non esisteva nei fumetti [mainstream dei primi anni Ottanta, Ndr], tranne per l’eventualità, occasionalmente consentita, in cui avveniva “fuori vignetta”».

Secondo Moore, era tuttavia importante aprirsi a tematiche nuove, senza scrupoli censori: «A me comunque sembrava che se il fumetto non fosse stato in grado di trattare argomenti adulti – e con questo mi riferivo a temi molto più rilevanti di quelli sessuali – allora non avrebbe mai potuto progredire e diventare un mezzo artistico serio e accettato e non avrebbe mai potuto essere nulla di più di un nostalgico hobby per teenager che invecchiano». E così, «ho pensato che anche la violenza sessuale, incluso lo stupro e gli abusi domestici, dovessero comparire nei miei lavori qualora fosse stato necessario o appropriato per una specifica storia, l’alternativa avrebbe implicato che queste cose non esistessero o non stessero accadendo».

Moore considera anche la diversa visibilità di diverse forme di violenza: «Sembrerebbe che nel mondo reale […] ci siano relativamente meno omicidi rispetto allo sconvolgente numero di stupri e altri crimini sessuali o di atti di violenza legati al sesso, e tutto ciò è l’esatto contrario di come il mondo viene rappresentato nei film, negli show televisivi, nella letteratura e nei fumetti».

Moore porta avanti un’argomentazione tutto sommato condivisibile. Dalle sue parole emerge un preciso progetto politico volto all’emersione e alla rappresentazione di questioni rese invisibili dal controllo editoriale, all’interno di un contesto produttivo in cui la censura, la stigmatizzazione isterica e l’infantilizzazione coatta hanno avuto un’influenza enorme. E hanno lasciato cicatrici profonde nella generazione di autori e lettori cresciuti negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, proprio come Moore. È evidente poi che tale progetto è stato portato avanti in maniera non sempre impeccabile, e alcune volte è scivolato nello shock value fine a se stesso – o meglio, alle vendite.

È un po’ quanto accaduto, un decennio abbondante prima, nell’underground, dove sesso droga e rock ‘n’ roll sono diventati un luogo comune tanto quanto gli infantilismi e le convenzioni di genere che volevano scardinare. Il fumetto revisionista anni Ottanta rappresenta allo stesso modo un periodo di liberazione euforica e tumultuosa, in cui l’eccesso è scaturito dalle nuove possibilità editoriali e dalla volontà di raccontare l’inenarrabile.

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Dal fumetto al film

A trent’anni di distanza, il mutamento nel sentore collettivo ci fa riflettere su quelle criticità che una volta erano messe da parte o giustificate dal desiderio di costruire una contro-narrazione. Vengono a galla anche i limiti autoriali di cui sopra, per via anche della maggiore presenza di sceneggiatrici femminili che hanno mostrato nuove e interessanti modalità per interpretare le supereroine. Nel giro di pochissimo, il fumetto americano è diventato un discorso eterogeneo, pluralista, diversificato. E in questo nuovo zeitgeist, la presunta inadeguatezza di TKJ è ben esemplificata dalle numerose stroncature al recente adattamento animato, che ha collezionato un misero 45% su Rotten Tomatoes.

Certo, in parte tale questa débâcle critica è dovuta a questioni di natura estetica – la CGI sembra quella di un gioco PS1 –, nonché a scelte poco convincenti nella composizione del segmento inedito, scritto per l’occasione da Brian Azzarello e applicato in maniera un po’ posticcia a inizio film. L’intenzione di dare più screen time a Barbara poteva anche essere buona, ma qualcosa non ha funzionato in fase di realizzazione, come spiega il sito Film School Rejects con un articolo dall’eloquente titolo “It’s time For The Killing Joke To Die” (ovvero “È ora che The Killing Joke muoia”). Io9 non è da meno, sostenendo che la mezz’ora inedita «sembra essere stata scritta negli anni Ottanta, quando le donne erano espedienti narrativi e non personaggi».

Ma è evidente che il problema maggiore emerge dalla ricollocazione del materiale originario all’interno di un differente contesto produttivo, culturale e sociale. È in questo senso molto chiaro il Guardian – una nota testata generalista, quindi –, dove Will Brooker (ma dai?) sostiene che TKJ «è stato ripudiato dal suo creatore e non ci sono scuse per un revival», mentre Noah Berlatsky ci spiega che «non si può semplicemente “aggiornare” del materiale di partenza sessista».

Per dovere di cronaca, riporto che il Guardian ha pubblicato addirittura un terzo articolo (!) in cui William Proctor (no, non è quello di Scuola di Polizia) sostiene che la violenza nei confronti di Barbara è sì «orribile», ma può stimolare una sorta di identificazione catartica: «la rappresentazione dello stupro non equivale alla promozione dello stupro e può svolgere un’importante lavoro culturale», attraverso un atto di «identificazione collettiva». In tutta onestà, mi sfugge quale tipo di identificazione un’ipotetica vittima di abuso potrebbe avere nei confronti di un personaggio che, come niente, sparisce.

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L’inverno del nostro scontento

Okay, ma quindi? Dobbiamo smettere di dare credito a TKJ? Evitarne di parlarne? Fare un rogo delle nostre vecchie copie? Niente di tutto ciò. Semmai, è necessario mantenere la consapevolezza delle limitazioni intrinseche e degli aspetti discutibili, creati tra le altre cose senza evidente intento ‘doloso’, e allo stesso tempo riconoscere l’eccezionalità del risultato tecnico e artistico. Il paragone con Nascita di una nazione (1915) risulterebbe azzardato e fuori luogo, ma il senso è quello.

Attraverso un lavoro di inquadramento critico un po’ paraculo, sarebbe persino possibile considerare il trattamento di Barbara come uno degli aspetti residuali incorporati all’interno della genealogia intertestuale e auto-referenziale di TKJ. Perché questo è l’aspetto più significativo del fumetto, non la disamina sulla follia o la vicinanza tra Batman e Joker o robe simili. Come testo revisionista, non si limita alla decostruzione degli archetipi e degli schemi narrativi, ma mette in scena la tensione dialettica fra il peso della tradizione di riferimento – l’intricata e ipertrofica storia del genere supereroistico –, e la volontà di ristrutturazione delle formule.

Il primo polo è visibile nelle modalità in cui TKJ riproduce, come un collage, elementi della storia del personaggio e li mischia con ulteriori riferimenti culturali, più o meno vicini al medium e al genere. È un procedimento caro a Moore, che lo ha articolato in modi diversi per buona parte della sua carriera. Pensiamo a Watchmen, dove viene tessuta una fitta rete intertestuale che giustappone Bob Dylan, William Blake, Friedrich Nietzsche ai supereroi, le tijuana bible e i comics di pirati degli anni Cinquanta.

Ancora più evidente è il pastiche strutturale nei primi due volumi di La Lega degli Straordinari Gentlemen, che inquadrano il fumetto all’interno di uno studio genealogico della cultura visuale e popolare tardovittoriana (consiglio in tal senso il saggio di Jeff Thoss sull’argomento). E ragionamenti simili si potrebbero fare per opere come V for Vendetta o From Hell.

In TKJ il procedimento è più sottile, ma non per questo meno significativo. Il testo assimila in maniera eclettica frammenti del canone batmaniano per riflettere sulla tradizione poetica e la stratificazione testuale del genere. Per rendere esplicito, in altre parole, quel processo di filtrazione e selezione che ogni autore deve compiere nell’approcciarsi a personaggi (universi narrativi, archetipi) con alle spalle una storia decennale.

Un esempio di incorporazione risiede nello spunto narrativo di base, narrato attraverso i flashback del Joker. L’origine del personaggio come sfigatissimo Cappuccio Rosso è ripresa dalla storia “The Man Behind the Red Hood”, scritta dal veterano Bill Finger e pubblicata su Detective Comics #168 del febbraio 1951. In questo albo, che a sua volta esplora fatti avvenuti «dieci anni prima», viene descritto per la prima volta il furto fallito alla fabbrica di carte Monarch, nonché la caduta che trasforma l’anonimo tecnico di laboratorio/Cappuccio Rosso nella spietata nemesi di Batman.

Vale la pena inoltre notare come la ri-narrazione di Moore e Bolland utilizzi dei riferimenti visivi – le lunghissime orecchie del costume di Batman – per richiamare i primissimi numeri di Detective Comics, in cui il Cavaliere Oscuro sfoggiava appunto quel tipo di look e aveva spesso a che fare con sostanze chimiche, droghe, gas tossici e quant’altro (si veda ad esempio la prima storia di Batman, “Il caso del Sindacato Chimico”, del 1939).

Questo utilizzo di allusioni visuali è un elemento cardine della struttura intertestuale del graphic novel. Come nota anche Geoff Klock in How to Read Superhero Comics and Why (2002), Bolland inserisce disegni di altri autori Golden e Silver Age (veri o imitati) sotto forma di vecchie fotografie, come se la tradizione poetica del personaggio penetrasse nel tessuto diegetico attraverso veri e propri varchi spazio-temporali.

Ne troviamo un paio nella Bat-Caverna, tra cui una foto di gruppo con tanto di firma “Bob Kane” (anche se il disegno è in realtà di Sheldon Moldoff), e altre nella scena domestica che precede l’attacco a Barbara. «Guarda qua. È quando si sono conosciuti. Che anno era?» commenta Jim Gordon tenendo in mano la foto di un giornale che imita la copertina di Detective Comics #27. Tra le altre cose, la presenza di queste immagini rimarca la centralità della memoria e della rappresentazione all’interno di TKJ, un fumetto che è per metà occupato da un flashback e che riporta una macchina fotografica (rivolta al lettore!) in copertina. Come scrive Eric Doise, «l’atto criminoso [del Joker, Ndr] è in realtà parte di un elaborato atto retorico», un meccanismo creatore di senso atto a ri-presentare il trauma della propria genesi. E, di rimando, di quella di Batman.

Ma la Storia del Cavaliere Oscuro non è l’unica incorporata all’interno della storia che stiamo leggendo. Come suggerisce lo stesso Moore nell’“Ultima Intervista”, in TKJ risuonano anche gli echi del suo magnum opus Watchmen, evocato già nelle primissime pagine dall’iconica griglia a nove vignette, nonché dal motivo estetico del sorriso grottesco in copertina. Al di là della forma, la parentela tra i testi è stabilita dalla cupezza tonale e dalla composizione dei personaggi. Non è un caso che Moore attribuisca all’anonimo assistente di laboratorio di “The Man Behind the Red Hood” una seconda carriera come comico fallito. In un gesto che i maliziosi potrebbero vedere come pigrizia creativa, l’autore assegna a Joker elementi propri di Edward Blake, il Comico appunto, recuperando l’idea che sociopatia, violenza – anche sessuale – e sadismo possano sorgere come reazione alla folle insensatezza del mondo.

Quando Joker sostiene che «Di fronte all’oppugnabile dato di fatto che l’esistenza umana è folle, vana e casuale, a un esemplare su otto dà di volta il cervello! E come fargliene una colpa? In un mondo psicotico come questo… ogni altra reazione sarebbe una pazzia!» ci riporta così alla mente Blake, secondo cui «Una volta che comprendi che è tutto uno scherzo, essere il Comico è l’unica cosa che abbia un senso» (traduzione di Maurizio Curtarelli). E la descrizione fornita da Rorschach potrebbe essere parimenti applicata alla nemesi di Batman: «Blake l’aveva capito. Lo trattava come se fosse uno scherzo, ma aveva capito. Aveva visto le falle nella società, aveva visto quegli omini in maschera che cercavano di tenerla insieme… Aveva visto il vero volto del Ventesimo secolo e aveva deciso di diventarne un riflesso, una parodia. Nessun altro aveva capito lo scherzo, ecco perché era solo».

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Narrativa della Guerra Fredda

È nella vicinanza con Watchmen che TKJ si rivela come narrativa della Guerra Fredda. Il trauma privato (del Joker, ma anche di Bruce Wayne) viene affiancato alla nuclear scare e allo stato di ansia generale causato dalla possibilità di mutua distruzione assicurata, un tema ricorrente di Moore e un po’ di tutto il fumetto degli anni Ottanta. L’orologio dell’apocalisse si riflette nella canzoncina del Joker – a sua volta un’allusione a V for Vendetta –, che menziona una «bomba sospesa sopra la testa». Più tardi, il personaggio chiede a Batman «Sai quante volte siamo stati a un pelo dalla Terza guerra mondiale perché uno stormo di anatre è apparso su un monitor?».

Vale la pena inoltre notare che la congerie di riferimenti, richiamati in maniera più o meno consapevole, non si limita al solo ambito fumettistico. In TKJ ritroviamo infatti le riflessioni sul doppio, sul perturbante e sulla mostruosità proprie della letteratura gotica, Jekyll e Hyde tra tutti, spesso filtrata attraverso le visioni del cinema espressionista tedesco e dell’horror americano anni Venti e Trenta. Film come Il fantasma dell’opera (1925) di Rupert Julian, l’uomo che ride (1928) di Paul Leni e soprattutto Dracula (1931) e Freaks (1932) di Tod Browning fungono da deposito immaginifico da cui la tradizione batmaniana ha sempre attinto, e che riecheggia qui in tutto il suo agghiacciante splendore.

Ma è possibile tornare ancora più indietro, e spingersi fino ad antieroi archetipici come il Riccardo III shakespeariano, uno che si definisce «frodato nei lineamenti dalla Natura ingannatrice, deforme, incompiuto […] Perciò non potendo fare l’amante per occupare questi giorni belli ed eloquenti, sono deciso a dimostrarmi una canaglia e odiare gli oziosi piaceri dei nostri tempi» (traduzione di Agostino Lombardo).

All’interno di questa matrice di allusioni testuali, l’autore si pone come principio ordinatore. Moore e Bolland sfruttano la specificità del medium fumetto per dare un senso all’accumulazione di pratiche significanti, per trovare un’ideale sistemazione all’eterogeneità della superficie. Il montaggio formale-connotativo – già caratteristica di Watchmen –, la struttura circolare, l’impiego di metafore e di motivi visuali ricorrenti – l’acqua, le mani – aprono alla possibilità di stabilire collegamenti all’interno di una realtà testuale confusa e frammentaria. Quella realtà che, stando alle parole di Joker, non ha alcun senso.

Se ci pensate, la proiezione di significati e l’identificazione di schemi all’interno di una dimensione empirica di per sé casuale è uno dei leitmotiv della produzione mooriana, come si vede con chiarezza in From Hell. In generale, i suoi graphic novel abbondano di figure (anti)eroiche che, ispirati da visioni pareidolitiche, usano mezzi violenti per imprimere un ordine al reale: Miracleman, V, Ozymandias, Sir William Gull. Ne parla Björn Quiring all’interno del suo saggio raccolto in Comics and the City, dove spiega anche che tale ristrutturazione utopica è realtà raggiunta solo «nella composizione formale del graphic novel».

È questo il «momento modernista» del fumetto angloamericano, come suggerisce Phillip Wegner. Moore (e, come lui, altri) impiega la peculiare semiosi del medium per riordinare il confuso panorama di segni che caratterizza la tradizione di questa modalità espressiva. Tirando in mezzo paragoni importanti, questo metodo ricorda quello dell’Ulysses di Joyce, che nelle celebri parole di T.S. Eliot «è semplicemente un modo per controllare, ordinare, dare forma e significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea».

Ma c’è una differenza significativa con i modernismi di inizio Novecento. Il lavoro di Moore non instaura mai una relazione antagonista con la cultura popolare da cui avuto origine, né tradisce un’ansia da contaminazione. Al contrario, lavora proprio per destabilizzare la barriera tra cultura alta e cultura popolare, tra arte e intrattenimento, attraverso un meccanismo postmoderno di decategorizzazione creativa.

Se l’autore, quindi, è quell’entità demiurgica che abbatte le barriere e che organizza la tradizione storica, il personaggio di Barbara e l’assalto nei suoi confronti assumono una pregnanza metatestuale. Come sottolinea Geoff Klock, Barbara è una bibliotecaria, una «riordinatrice di testi», che suggerisce al padre di usare «un sistema di archiviazione» per catalogare vecchi reperti fotografici. E diventa anche lei un testo quando viene paragonata da Joker, in momento di agghiacciante oggettivazione, a un’«edizione da salotto […] senza il dorso rigido». Il personaggio è pertanto identificabile come surrogato diegetico sia dell’autore, sia della sua creazione.

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La perversità del Joker

Secondo questo quadro interpretativo, la polimorfa perversità del Joker rappresenta la pars destruens di un preciso schema dialettico. Il personaggio incarna la possibilità di de-costruire l’apparato genealogico costruito dal fumetto che lo ospita, di mandare a monte il piano di riorganizzazione utopica attraverso la violenza, la frammentazione, il caos. In un tripudio di schizofrenia autoriale, il Joker si fa anch’egli corrispettivo diegetico dello sceneggiatore che distrugge le formule da cui attinge. La valenza metanarrativa del personaggio è evidente, anche nel suo caso, nell’autoreferenzialità dei monologhi.

Prendiamo le parole con cui descrive Gordon: «Fisicamente è piuttosto banale, ma i suoi valori sono assolutamente deformi. […] Ma davvero ripugnanti sono le sue fragili e disastrose idee di ordine e sanità mentale. Applicando loro una forza eccessiva… quelle scoppiano». Sembrano quasi riferirsi al meccanismo di decostruzione del fumetto anni Ottanta, che porta al limite le convenzioni, fino al punto di rottura, con lo scopo di rendere evidenti le implicazioni materiali e ideologiche.

Anche lo stesso luna park, come fa notare Klock, è metafora spaziale del revisionismo sovversivo nel genere supereroistico. È la degenerazione orrifica di un ambiente nostalgico e infantile, le cui giostre «sono tanto fatiscenti e pericolose che possono tranquillamente menomare se non uccidere dei piccoli innocenti». Quando leggi un fumetto come Watchmen o Il ritorno del Cavaliere Oscuro, «Prima sei perduto in un luna park di delizie, con profumi struggenti che ti riportano all’infanzia, il neon scintillante della pubertà, tutto quello zucchero filato sdolcinato… e poi ti ritrovi ad andare dove non vorresti… in un posto buio e gelido, pieno delle forme ambigue di ciò che speravi di aver dimenticato».

L’idea che il fumetto di supereroi possa essere un posto ambiguo e dannoso per i bambini collega TKJ alla great comics scare degli anni Cinquanta. Rievoca quello stesso periodo di panico morale che ha frenato lo sviluppo del mainstream statunitense e che ha innescato il processo di repressione censoria menzionato in precedenza. In ultima istanza, gli eccessi disturbanti del revisionismo anni Ottanta possono pertanto essere interpretati come la realizzazione, più o meno ironica, di quell’ansia culturale. Avevate paura che i supereroi potessero essere inadatti ai bambini? Eccoli qui i vostri fumetti diseducativi. TKJ e il suo protagonista sono un meccanismo degenerato di legittimazione artistica, un atto di rottura contro una tradizione anestetizzata, il ritorno del represso.

È difficile parlare di TKJ. È un’opera complessa, la cui importanza e problematicità possono essere compresi solo attraverso un lavoro di analisi e contestualizzazione. È un fumetto che porta al parossismo pregi e difetti di una certa mentalità post-werthamiana, trovando nell’eccesso violento la sua ragion d’essere. La rivalutazione che ha subito e l’emersione di aspetti critici sono il sintomo che questo momento distruttivo di ribellione adolescenziale ha fatto forse il suo corso. Con buona pace delle frange più conservatrici della galassia nerd, siamo quindi pronti a un rapporto più equilibrato e inclusivo con aspetti della cultura popolare.

Questo non significa ignorare o censurare, né tantomeno scagliarsi in roghi di libri, ma comprendere appieno i risvolti ideologici di alcune forme di rappresentazione, soprattutto nella misura in cui si sono istituzionalizzate come topoi del genere. Ammettere che, per quanto sovversivo e a tratti necessario, il fumetto grim and gritty ha portato avanti una visione del mondo che può risultare discutibile per molti lettori e lettrici.

Anche perché poi, se continuiamo a spaccare e decostruire tutto, finisce che non ci rimane in mano più niente. Qualcuno dovrà rimettere insieme i pezzi. Come diceva un altro celebre protagonista mooriano, «I distruttori fanno cadere imperi; e fanno delle macerie un canovaccio perché i creatori possano costruire un miglior mondo. Appena ottenute, le macerie rendono altre rovine irrilevanti. Via gli esplosivi, allora! Via i nostri distruttori! Non c’è posto per loro nel nostro nuovo mondo. Ma un brindisi ai nostri attentatori, ai nostri bastardi, ai meno attraenti, ai più imperdonabili. Beviamo alla lor salute… per non incontrarli mai più».