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Un’alba sulla Pampa. José Muñoz su El Cacique Blanco di Pratt e Ongaro

Rizzoli Lizard distribuisce nelle librerie El Cacique Blanco, fumetto scritto da Alberto Ongaro e disegnato da Hugo Pratt, pubblicato originariamente nei primi anni Cinquanta sulle pagine di Misterix, storica rivista a fumetti argentina. Un volume di lusso, con copertina cartonata e cofanetto, che ha il pregio di presentare per la prima volta in assoluto – dopo oltre sessant’anni dalla sua creazione – un’opera di due grandi maestri del fumetto ancora inedita in Italia.

La storia, ambientata nel 1947, racconta l’avventura di Bob Farlene, che arriva a Durban per compiere ricerche sul suo amico Ted Olsen, scomparso senza lasciare tracce dopo una missione nei territori zulù. Ben presto, coraggio, astuzia e lealtà faranno di Farlene il cocique blanco – termine usato per indicare un capo villaggio – della tribù degli, Usutu.

Dopo l’immagine di copertina, presentiamo il testo integrale della prefazione al volume scritta da José Muñoz. Qui, invece, potete leggere un’anteprima.

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Nel 1951 avevo nove anni, ancora non conoscevo la rivista Misterix, e il Cacique principale dell’Argentina – bianco, ma senza esagerare – era Juan Domingo Perón. Era stato eletto dalla maggioranza dei cittadini come difensore del popolo, nella speranza che con lui il Paese avrebbe prosperato. E così fu, per un bel po’. Gli argentini ebbero accesso a un salario decoroso, la nazione si industrializzò, i sindacati, benché diretti dal partito peronista, concentrarono la forza collettiva: lavorare era qualcosa di dignitoso e lavorare bene, al meglio possibile, andò di moda per un certo tempo.

Il mio Paese era cullato da ingenui fervori, dall’entusiasmo della collettività in cui gli uni erano strettamente connessi agli altri. In tanti mi hanno detto che per mia fortuna all’epoca ero solo un bambino. Forse hanno ragione. Penso a Julio Cortázar, feroce oppositore del peronismo, che in quegli anni si allontanava dall’Argentina spaventato dal dirigismo “caudillesco”, dal malcellato disprezzo e dal timore, nutrito da molti esponenti del governo, verso la cosiddetta cultura, fortemente accusata di affondare le proprie radici in una matrice omosessuale cosmopolita. Non so in che termini Cortázar abbia poi mitigato il proprio rifiuto, so che in seguito lo fece, vedendo ciò che accadde dopo la caduta del Generale. Nessuno è perfetto, persino chi crede di esserlo. Bene, in quell’Argentina rigogliosa e tutto sommato tranquilla, popolare e populista, arrivarono, all’inizio degli anni Cinquanta, confusi nell’ultima, massiccia onda-tranquilla, popolare e populista, arrivarono, all’inizio degli anni Cinquanta, confusi nell’ultima ondata migratoria massiccia dall’Italia, Hugo Pratt, Alberto Ongaro, Ivo Pavone e Mario Faustinelli, ragazzi entusiasti, pieni di talento e molto fotogenici. Li aveva importati un altro italiano, Cesare Civita della Editorial Abril, un impresario colto che, in sei-sette anni, costruì una florida casa editrice. I fumetti, il tango, il cinema, la radio, il patio, il pergolato, il mate, i quartieri che sconfinavano nella pampa erano lo scenario felice della nostra infanzia. A quell’epoca stavo emigrando dalla rivista Pato Donald a Misterix, proprio all’inizio della pubblicazione del Sergente Kirk, di Héctor Oesterheld e Hugo Pratt.

Nel Cacique Blanco, che scorre sotto i miei occhi e che credo di intravedere tra i miei ricordi più remoti, si erge davanti a me la figura di Hugo Pratt, il maestro, il disegnatore che sarebbe presto arrivato all’apice con il Sergente Kirk, Ernie Pike, Ticonderoga e, al suo ritorno in Europa, con Corto Maltese: un talento accecante, commovente. Alberto Ongaro ricorda, con una certa serena e cordiale rassegnazione, la sua sceneggiatura di questa storia: avventurieri bianchi anglosassoni che in un qualche luogo dell’Africa combattono per la giustizia aiutando una tribù del luogo a difendere la propria libertà e i propri beni dagli attacchi di un’altra tribù capeggiata da cattivi, anch’essi anglosassoni. C’è amore, traffico di pietre preziose, lieto fine, ecc.

La trama è basilare, sono historietas a lieto fine che la realtà della Storia, con i suoi esibizionismi di malvagità trionfante ripetuti fino alla stanchezza morale, smentisce troppo spesso. Ma il merito di queste narrazioni sta nel proporci degli argomenti che, se pur trattati in fretta, come nel caso del Cacique Blanco, sublimano il male che è in noi, lo lavorano e riescono a consolarci per un po’. Si tratta di storie, soggetti, punti di vista che contribuirono a formare in noi i primi barlumi di coscienza etica, divulgando l’archetipo dell’eroe umanista. Ongaro e Héctor Oesterheld, attraverso Junglemen e il Sergente Kirk, ci portarono per mano verso l’eterno sogno di dignità e giustizia della specie, ci fecero pensare al bene, ce lo presentarono come divertente e attraente. Raymond Chandler definiva il suo Philip Marlowe “un’invenzione letteraria”: io spero ancora che non sia soltanto così, perché sono proprio questi gli eroi che ci accompagnano, ci insegnano e ci proteggono dalla consueta, feroce stupidità del reale. Ongaro osserva che molto dipende dalla profondità della caratterizzazione psicologica dei personaggi e ritiene che Junglemen sia il suo miglior lavoro con Pratt.

Ricorda anche, con molto affetto, Mark Cabot, la sua solida serie poliziesca che Carlos Vogt disegnò egregiamente. Questo fumetto, che veniva pubblicato su Rayo Rojo, si svolgeva a New York, ed è dai suoi dialoghi ironici e scintillanti e dal cinema noir di quegli anni che è inizia- to il mio interesse per gli ambienti urbani nordamericani che successivamente mi avrebbero condotto ad Alack Sinner.

Tornando a Pratt e alle sue magie, già in quelle vignette si palesava il mistero del suo talento, la sua vigorosa interpretazione dello stile caniffiano, la prepotenza della sua abilità capace di animare – sì, animare – tutti gli spazi dell’immagine, fuori e dentro le linee e le macchie, la gioia costruttiva delle sue pennellate, specie nelle pieghe dei vestiti. Le stesse, impressionanti pennellate che in Milton Caniff – o ancor più in Frank Robbins, sembravano ragionate, meccaniche, a volte quasi fredde, in Pratt si scatenavano in un festival di ritmi e incroci gestuali, come un Emilio Vedova o un appassionato anonimo animista della grotta di Chauvet imprigionati in pochi centimetri quadrati. Un risultato straordinario: figurativismo astratto.

La stessa folgorazione la ebbi più tardi con Gas e Mort Cinder di Alberto Breccia e Oesterheld: nervi, agitazione vitale, energie manuali, turbinii di inchiostro di china su un supporto di amabilissimi pretesti figurativi, sfilavano davanti ai nostri occhi a passo di danza, celebrando le forme, innalzando, sublimando il perenne miracolo della bellezza…

In queste pagine del Cacique Blanco mi sembra di scorgere le prime luci, l’inizio di una preghiera di ringraziamento disegnata. Grazie, ragazzi, per quest’alba sulla pampa, foriera di promesse che si concretizzarono nel vostro cammino di operatori dell’ingegno umano, di addetti all’intrattenimento alto, anzi altissimo – e qui possiamo ridere un po’ di noi: non ci si sbaglia mai e fa sempre il suo effetto.

José Muñoz
Spoltore 2014

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