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RecensioniNovitàLa provincia marchigiana secondo Davide Garota

La provincia marchigiana secondo Davide Garota

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Se al suo esordio in Invito al massacro (testi di Giovanni Marchese, Tunué) aveva disegnato una Sicilia tra il grottesco e il surreale, Davide Garota debutta come sceneggiatore/disegnatore raccontando la sua regione, le Marche, in un graphic novel che ha molte – e interessanti – similitudini con il precedente lavoro.

Dove là c’era la provincia siciliana, un continuo pianoro, qui c’è quella collinare delle Marche. Due terre diverse geograficamente, ma anche con storie, culture, luci differenti: quasi immersa in un costante mezzogiorno la prima, con il sole a picco che spazza via le ombre e quella luce feroce da cui ci si può rifugiare solo negli androni ombrosi e nei corridoi scuri dei palazzi; morbida la seconda, con la vista spezzata dai calanchi e dai colli, sui cui fianchi e sulle cui cime s’inerpicano paesini tutti uguali, sparsi qua e là. Terre diverse, genti diverse, quindi, ma entrambe unite da una nota di fondo: la vita di provincia. Specialmente se colta durante l’estate piena, ritratta sullo sfondo apparentemente quieto di un piccolo centro. Su entrambi gli sfondi, inoltre, si muove, un protagonista marginale, un “pover’uomo”: là, in Sicilia, l’insofferente Jano; qui Diego Vardata, per gli amici Varda, che vive impegnato in una fuga impossibile, all’inseguimento di un riscatto che sa già non potrà ottenere.

Varda, chiamato anche “lo storpio” per via di una menomazione che lo ha colpito ancora nel ventre della madre, passa le giornate lavorando come giardiniere presso una cooperativa che impiega persone “diversamente abili” (“che cazzo vuol dire diversamente abile?” si chiede il protagonista “c’è forse un modo diverso per correre, vedere, parlare, saltare?”), così come il suo ‘doppio’ siciliano impiegava le giornate in lavori di fortuna. Entrambi i personaggi sono accompagnati, inoltre, dalla propria banda di diseredati. Il resto dell’esistenza di Varda si consuma fra pestaggi, figli di quella rabbia indifferente che così spesso si sviluppa nei piccoli paesi, serate al bar con gli amici e teneri momenti passati in compagnia della sua ragazza – da cui aspetta un figlio, non programmato, forse non voluto. Gli attimi immutabili che caratterizzano la vita di provincia riempiono del loro vuoto un’atmosfera sospesa: serate sempre uguali, ritualità consumate fino a diventare lise e una gioia che arriva a tratti, quasi sempre attraverso la conflittualità e il dolore, anche fisico, ma splendente come un’illuminazione.

Ma alla gioia Varda non è molto abituato, e la maneggia con diffidenza e imbarazzo. Spesso pare quasi volerla mettere da parte, allontanandosene o riponendola, come quei fiori semplici, fiori di campagna (papaveri, denti di leone…) che scandiscono i capitoli del libro. Una gioia che Diego arriva perfino a negarsi volontariamente, come punizione, immaginandosi come un predestinato al dolore: “La colpa di quanto è successo è solo mia. Perché sono una persona di fumo. Sfuggevole come il fumo. Soffocante come il fumo. Sono una persona di fumo perché un fuoco mi brucia dentro. E il fuoco non ha amici”.

Claustrofobica come la vita che racconta, la narrazione grafica di Garota insiste sui primi piani deformati dal riso, dal piacere e da ogni parossismo emotivo che si esprime sui volti dei personaggi, impegnati a rifiutare la medietà e la riflessione, tanto sono ansiosi di vivere. Anche gli ambienti si aprono raramente nella loro vastità. Le vignette di Garota esprimono quasi sempre una volontà di rintanarsi, rinchiudersi, camminare rasente i muri e nell’ombra. Anche nei momenti di riflessione del protagonista, quando è immerso nella sua amata natura, quando è al lavoro come giardiniere o quando ricorda gli angoli tranquilli scovati per fare l’amore con la propria donna, questa volontà di andare sempre a fondo e rinchiudersi – fosse anche fra i rovi – permane. Proprio per questo motivo, quando il paesaggio riesce a esplodere, si allarga di fronte allo sguardo, riempie e sconvolge. Questo accade quando Varda, in un rituale riconoscibile da chi abbia esperienza di quei paeselli un po’ tutti simili del centro Italia – la mia stessa zona di provenienza, il cui spirito ho ritrovato pienamente in questo lavoro – sale sulle mura per cercare di vedere il mare. Quando lo fa, nelle prime pagine del fumetto, quella vastità appare quasi travolgente, per le possibilità che sembra aprire ma anche perché, allo stesso tempo, sembra uno specchio di quello che ci si lascia alle spalle, un oltre tanto irraggiungibile quanto indifferente.

Il disegno di Garota è fisico e brutale, e se qua e là sembra avere più di un debito verso Gipi (e, dove il tratto è più felice, verso Baru) al contrario dell’autore di LMVDM non cerca l’universalità nel dettaglio ma, piuttosto, narra una storia molto “sua”, che trova la propria forza nello stare addosso al mondo che racconta. E naturalmente ai personaggi, da cui non si distacca mai, sospeso fra lo schiaffo e la carezza, senza che questi debbano rimandare a un discorso altro, a una narrazione su un qualche piano più lontano e simbolico.

Se da un lato lo stile grafico è volutamente brutale e grezzo, dall’altro corre il rischio, talvolta, di suonare un po’ tirato via. Un limite che risuona anche nella colorazione digitale, spesso approssimativa, mentre le tavole ad acquarello, tecnica che Garota padroneggia con particolare competenza, sono un autentico piacere. L’amalgama fra disegno, acquerello, colorazione digitale e collage, vive di un equilibrio instabile, e sebbene porti un po’ a smarrirsi nei repentini cambiamenti di stile, riesce in definitiva a funzionare oltre i singoli difetti.

Senza svelare altri dettagli sulla trama, tutto andrà come ci si immagina possa andare. La vita che scorre, se non placida, prevedibile; una piccola novità; un elemento che arriva dall’esterno e inebria, aprendo spiragli su esperienze non vissute, e persino fughe. E infine l’inevitabile ritorno – con le ineluttabili variazioni dovute a quella maturazione personale che la crescita concede – alla solita routine. Alla solita vita. Senza sorprese, perché la mancanza di sorpresa è uno dei centri de Il fuoco non ha amici. La vita che scorre all’esterno rimane sempre uguale. Le uniche cose che possiamo fare sono resisterle o assecondarla, trovando la verità, l’illuminazione, persino la felicità. Magari in quei semplici fiori che Varda raccoglie e conserva per sé. E chissà che, prima o poi, non possa arrivare anche a condividerli.

Il fuoco non ha amici
di Davide Garota
Tunué, 2013
128 pagine, 14,90€

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