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FocusOpinioniI (poco) Fantastici Quattro per PSone

I (poco) Fantastici Quattro per PSone

di Doc Manhattan

Un gioco dedicato al Quartetto ai tempi della prima PlayStation. Un picchiaduro a scorrimento, quando il genere dei picchiaduro a scorrimento era già morto e sepolto. Una ferita ancora aperta, sedici anni dopo.

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Quella che vedete qui sopra è la copertina di Fantastic Four #416 (settembre 1996), disegnata da Carlos Pacheco: un classico quadretto della famiglia allargata dei coniugi Richards. Sue Storm, bella come solo Pacheco ha saputo disegnarla; suo fratello Johnny, un fascio di muscoli infuocati; Reed, con la perenne aria da precisino della fungia cosmico che ti guarda dall’alto in basso; e infine il vecchio Ben Grimm, che sorride a denti stretti, con quella sua espressione tipica da burbero buono, da enorme Bud Spencer arancione.

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Quest’altra, invece, è la copertina del videogioco The Fantastic Four della Acclaim, uscita esattamente un anno dopo (autunno 1997). Una copertina che utilizza lo stesso art del quartetto, solo che non è proprio lo stesso. L’espressione di Ben Grimm non è più un sorriso a denti stretti, da burbero buono: è schifo, per il gioco nascosto sotto la copertina, misto a un grande sentimento di umana pietas per i poveri fan dei fumetti Marvel che stanno per buttare 90mila sudatissime lire in quella ignobile porcheria.

Sono gli anni del fenomeno PlayStation: per metà degli italiani sinonimo di “videogioco” da pronunciare pleistèscio. Il genere dei picchiaduro a scorrimento, gloriosa branca del videogioco che ha dominato sale giochi e parco titoli delle console a 16-bit nei primissimi anni 90, sulla PlayStation di Sony sembra roba del tardo Medioevo. L’avvento della grafica poligonale, l’affermarsi di altri generi, come il picchiaduro uno contro uno (avete presente gli Street Fighter? I Tekken? Quella roba lì), aveva trasformato i vecchi picchia-picchia a scorrimento in modernariato videoludico. Ma alla Acclaim non andava giù. Per tutta la generazione precedente si erano tirati fuori picchia-picchia spennapolli tutti uguali su questo o quell’eroe dei fumetti, perché fermarsi? Nasce così The Fantastic Four, un suggestivo, enorme disastro ferroviario in galleria.

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Effetti sonori da cartoon Marvel degli anni 70, musica funky da episodio di Starsky & Hutch, giocabilità da tardo Pleistocene. Alla guida di uno dei cinque Fantastici Quattro (c’è anche She-Hulk), il giocatore-vittima deve affrontare cinque livelli terrificanti, incentrati su altrettanti nemici del quartetto: l’Uomo Talpa, Psychoman, il SuperSkrull, Namor e il Dottor Destino. Il che significa menare dei tizi tutti uguali per l’intero livello, muovendo degli atletici eroi con l’agilità di un paracarro inchiodato a terra. Guardare la Cosa scivolare sul pavimento in un perfetto moon-walk al contrario, anziché camminare, è una di quelle esperienze terribili in grado di segnare la vita di un appassionato di videogiochi.

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Tra un livello e l’altro, per premiare il giocatore-vittima che non aveva perso neanche una vita, uno scontro extra totalmente posticcio con Dragon Man, Hulk o l’Uomo Ghiaccio. Dice: ma perché i Fantastici Quattro dovrebbero voler menare l’Uomo Ghiaccio? Ah, boh. Brutto come il mal di denti, The Fantastic Four di Acclaim sparì dalla circolazione in un millesimo di secondo. Narra la leggenda che qualcuno, pur di trovare un modo di utilizzare quella roba costatagli 90mila lire, abbia provato a invitare degli amici a casa, tirando fuori a tradimento The Fantastic Four al posto del solito Winning Eleven o Tekken. Col fatto che, sì, era possibile menare quei tizi tutti uguali anche in quattro. Narra la leggenda che quel qualcuno, quella sera, ridusse in cenere amicizie che duravano da anni.

I fan del Quartetto dovettero aspettare il 2005, la bellezza di otto anni perché vedesse la luce un altro videogioco dedicato a Mister Fantastic e parenti. Solo che questa non è una storia con un bel finale: si trattava infatti dell’altrettanto temibile Fantastic Four, adattamento videoludico del film omonimo di Tim Story. Un adattamento perfetto di quella pellicola, oseresti dire: faceva schifo uguale. La morale di questa storia è: se un libro non si giudica dalla copertina, dimmi te un gioco, che costa dieci volte tanto.

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