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“A morte i personaggi, viva lo zeitgeist.” Intervista a Filippo Scòzzari Parte 2

Nella seconda parte dell’intervista (qua la prima), Filippo Scòzzari parla dei suoi personaggi e di come lo “spirito dei tempi” gli abbia ispirato alcune storie. Inoltre, racconta del movimento del ’77, della droga e di Radio Alice. Sempre a modo suo.

Filippo Scòzzari, alla fine degli anni ’70 lei ha abbandonato la fantascienza delle prime storie e ha creato alcune serie basate sui personaggi: Dottor Jack e Primo Carnera su tutti. Poi ha bruscamente abbandonato anche i personaggi, ammazzandoli tutti in una unica storia esemplare, Addio agli amici, che fa tabula rasaPerché questa necessità di abbattere il personaggio seriale?

Anche lì la colpevole è la Marvel, lì c’è l’orgia del personaggio.

Ma poi tutto il mondo della comunicazione è fatto di personaggi, non si va mai in profondità. Tutti a dare addosso al personaggio Berlusconi, nessuno mai che si stia chiedendo perché mai qualcuno ha pensato bene di farsi rappresentare da Berlusconi.

Come diceva Gaber: “Non temo Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me”.

Berlusconi è un sintomo, bisogna cantare la causa di quel sintomo.

Tornando alla domanda, perché oltrepassare i personaggi? Perché c’è un mondo, un universo intero di non detto che va sfruttato; poi perché ti fa sentire vivo: Tex lo leggevo da bambino, ma a un certo momento si deve pur maturare. E’ vero che sono stato uno dei più tardi a maturare, però alla fine Tex l’ho lasciato alle sue mesas del cazzo, vecchio cammello.

Il concetto di personaggio che perpetua se stesso non mi piace. Oltre al fatto che è proprio una cosa difficile: invidio Mattioli, che con Pinky va avanti da quarant’anni. Come fai? Quello di costringersi a maledire il personaggio che ti sei scelto (non è il caso di Mattioli, spero per lui) è veramente il modo più veloce per passare dal divertimento al lavoro. Che ti uccide. Io non ho mai voluto lavorare… (sorride, n. d. r.).

Mentre di Jack si sa poco, è quasi solo una funzione narrativa che serve a sviscerare l’argomento su cui ruota la storia, Carnera invece è un personaggio vero e proprio, di cui si raccontano la vita, i casi e la squisitezza.

Io li trovo abbastanza uguali, nel senso che entrambi sono pretesti. Uso il Dottor Jack – e quindi il genere del vecchio pulp – per mettere in burletta le ridicolaggini della lotta politica in Italia, uso Primo Carnera per giocare coi gay, il mondo della moda, lo star system, il brilluccichìo insulso dell’avventura.

Poi sì, in Carnera il vero personaggio è la squisitezza.

scozzari primo carnera
Primo Carnera vs Gabriele D’Annunzio, da La gara di squisitezza. Notare gli GNIÒK! che si inseriscono in didascalia

Adesso citami tu, dall’underground americano all’underground cinese, chi altri ha usato la squisitezza come un tema plausibile e praticabile. Più stai fuori dalla calca del già detto e del già presentato, più hai possibilità di farti riconoscere.

Comunque il Dottor Jack l’ho quasi sempre tradito: a parte Fondi di tenebra e Il triangolo d’oro, gli unici episodi disegnati abbastanza bene, gli altri sono stati fatti veramente con la mano sinistra, vergognandomi come uno stronzo trenta secondi dopo la pubblicazione. D’altra parte avevo poco tempo, dovevo fare in fretta. Primo Carnera al contrario l’ho sempre curato un pochino di più, non mi chiedere perché.

Al Dottor Jack è capitata anche questa: nel racconto Che cosa voglio disegnare, su desiderio di Sparagna, che non aveva capito niente della storia, ho usato il Dottor Jack per la spiegazione finale, come nei romanzi di Agatha Christie, solo perché in una vignetta a metà racconto avevo già piazzato la faccia del Dottor Jack, grande come un francobollo. L’avevo nella mano e non mi andava di lavorare su un nuovo personaggino di contorno.

Lì Jack fa la parte di un passeggero casualmente seduto dietro uno dei protagonisti, il quale poi nell’ultima tavola gli spiega tutta la storia, quando si incrociano al bagno…

A quel punto infatti ho usato il Dottor Jack anche come “relatore terminale”. Bene, anche in quella storia è disegnato malissimo, incomparabilmente peggio delle tavole precedenti. e anche lì unicamente perché avevo a disposizione solo due giorni. Quell’ultima tavola è stata aggiunta a storia già completata. Perdonami, Jack. Il fatto è che Sparagna non ci aveva capito assolutamente nulla. E quando gridano: «AIUTO!», tu accorri, no?

Senza l’ultima tavola il racconto è ugualmente comprensibile, ma è davvero ellittico.

Sì, e ha anche rimandi culturali semi-criptici – nessuno sa che cos’è la rosca, per esempio (è la vite della garrota) – per cui Sparagna mi suggerì una sorta di integrazione «altrimenti la gente non capisce niente». Accettai e sfruttai il vecchio Jack. Sfiga per lui.

Nelle storie del Dottor Jack c’è un impianto hard-boiled che fa riferimento all’immaginario americano. L’ambientazione è però italiana in generale e anzi si riconosce spesso la Bologna amministrata dal PCI.

Mi imbattei in un bel testo di Angelo Pasquini su “Zut” e decisi al volo di farne un fumetto-inchiesta, quindi mi cercai un investigatore. Non volendo lavorare troppo, andai a scegliermi la faccia di Chandler, del quale il Dottor Jack è una caricatura molto scozzarizzata. Usare la tecnica dell’indagine fu quasi obbligatorio: era il metodo più facile per investigare la realtà per conto del Partitone.

Jack va sempre a sbattere contro situazioni che non conosce; è abbastanza stupido, però riesce più o meno ad arrivare al bandolo della matassa; ogni volta presenta al Partitone il risultato delle sue indagini, ma ogni volta il Partitone non capisce o fa finta di niente, così come accadeva nella realtà e come avviene ancora adesso, le primarie insegnino.

La realtà comunque ti obbliga a usare certe tecniche di racconto che ti precedono, ma che tu, nella tua presunzione, speri di rinverdire e fare tue. Con Jack ci sono riuscito. Forse.

Quindi non aveva previsto che Jack fosse il protagonista di una serie, ma l’aveva concepito solo per Il fantasma delle fonderie?

Sì. Ancor più di oggi il mercato del fumetto italiano, in Italia, era allora abbastanza asfittico, e per quelli che come me si stavano affacciando in quel momento sulla scena sarebbe parso piuttosto velleitario, se non presuntuoso, pianificare con una qualche speranza di successo una “serie” all’americana, per così dire. Il miracolo era accaduto solo con Tex e Diabolik, figurarsi. Però poi ci si mise anche “Panorama”, che mi affibbiò Fondi di tenebra – Indagine a Monte Dyson, ed essendo anche quella un’indagine, fu facile usare un personaggio che per mia fortuna avevo già costruito. Inoltre usare questa vecchia tecnica per raccontare il mondo che mi circondava era troppo comoda per abbandonarla subito.

Agli inizi degli anni Ottanta il suo stile assume sempre più nitidamente le caratteristiche del post-moderno, per utilizzare un termine forse abusato, ma pertinente: riferimenti ironici alla cultura alta e bassa, pastiche linguistici, frequenti puntate nella meta-narrazione, mescolanza di finzione e autobiografia, di vero e di falso …

È un percorso. È ancora lo Scòzzari degli inizi, ma che storia dopo storia sta acquisendo mestiere nell’arte del racconto. È uno sviluppo naturale, non c’è stato un disegno tipo adesso-cambio-modo-di-fare.

Scòzzari porta tutti i suoi personaggi a morire sul pianeta Ferencvaros, da Addio agli amici
Scòzzari porta tutti i suoi personaggi a morire sul pianeta Ferencvaros, da Addio agli amici

Lo si avverte già a partire nelle storie di Jack e di Primo Carnera, è vero. E già in Addio agli amici interviene in prima persona per spiegare a uno dei protagonisti che è Scòzzari il motore dell’astronave che li porta a morire fra le nebbie albuginose del pianeta Ferencvaros …

È che le cose sono sempre abbastanza strane. Per il primo numero di “Frigidaire”, questa mitica rivista del nuovo fumetto, tra le molte altre cose presentai Primo Carnera e la gara di squisitezza, che fu inizialmente rifiutata da Tamburini. Ruppe parecchio perché secondo lui era ancora un vecchio modo di fare fumetto: lungo, d’avventura, gli intrecci… Evidentemente non se l’era letto, visto che per esempio lo scontro con Gabrielinho D’Annonçao aveva mandato in visibilio il molto più lucido Andrea Pazienza. Tamburini toppò non accorgendosi che in realtà era solo la seconda tappa di un percorso piuttosto lungo.

E nel secondo numero di “Frigidaire” già appare Scandali, nella quale abbandona scopertamente sia l’avventura che l’intreccio, per imitare i foto-servizi da settimanale scandalistico e comporre un acre ritratto della scena musicale mondiale, fan compresi.

Mi è venuta in trenta secondi. Un gran miracolo. All’epoca mi svenavo a comprare dischi e quindi può darsi che sia stato quello; poi vivevo in una casa occupata, quindi dischi su dischi anche lì, anche se il mio era solo un accenno, non era una vera e propria storia sul mondo dei garage, come in Frazz, o su una singola canzone, come in Dum Dum Boys, apparsa su “Cannibale”. Comunque era l’epoca, capisci? Adesso non mi verrebbe in mente niente, odiando io la musica attuale, esistendo ora Laura Pausini.

La triste vicenda di Giampy Mengoly, da Scandali
La triste vicenda di Giampy Mengoly, da Scandali

A proposito di musica. La canzone di “Armonica” Mengoli in Frazz, le cui deliranti strofe sono riportate qua e là nella storia, non assomiglia al rock demenziale degli Skiantos, anche loro bolognesi, che iniziavano proprio in quel periodo?

Gli Skiantos non li conoscevo, o meglio conoscevo uno o due di loro, ma non dal punto di vista musicale. Credo di essere andato a un solo concerto loro, al Palasport di Bologna …

Quello famoso in cui si fecero gli spaghetti sul palco anziché suonare?

Sì, fecero un casino bestiale.

Quindi è una pura coincidenza, ancora una volta lo zeitgeist.

L’ho detto, era il profumo dei tempi, sissignore. Quando presentai Frazz a Fulvia Serra (l’allora direttrice di “Linus”, n.d.r.), per tenermi sotto schiaffo mi fece vedere un fumetto di una sola tavola, che naturalmente pubblicò sullo stesso numero; era di un autore jugoslavo, che aveva usato un testo con pentagramma a didascalia delle vignette, come in parte avevo fatto anch’io, e lei mi disse: «Visto? C’è qualcuno altro che fa le stesse cose, cosa credi?». Vabbe’, anche quello era l’odore dei tempi, la puzza dei tempi.

L’esibizione finale di “Armonica” Mengoli, da Frazz
L’esibizione finale di “Armonica” Mengoli, da Frazz

Del resto all’epoca vivevo in una casa occupata, frequentata e abitata da sbarbi identici ad “Armonica” Mengoli, e come quelli di Scandali. Non approfittare di questa occasione sarebbe stato veramente da cretini e da sciuponi; rifiutare per distrazione, o per partito preso, gli apporti della realtà mi sembrava criminale.

Come dici tu, era lo zeitgeist, quindi era quasi obbligatorio.

Filippo Scòzzari, lo spirito dei tempi si sente ancora bene in Un buon impiego, una breve distopia in cui c’è tutta l’atmosfera pesante del ’77 bolognese. Ogni cosa è ovviamente trasfigurata, però si impongono ugualmente all’attenzione del lettore lo stato di polizia vigente a Bologna, gli studelinquenti… A proposito, mettiamo un punto fermo: chi ha inventato il termine “studelinquenti”?

Io, non scherziamo.

C’è ancora chi lo attribuisce a Tamburini.

Scemenza totale. L’ho inventato e usato io per la prima volta in “Un Buon Impiego” su AlterAlter e l’ho anche spiegato in Prima pagare. Lui poi se ne impossessò per la primissima storia di Ranxerox, quando ancora lo disegnava lui, perché il termine gli era piaciuto tantissimo, e mi chiese addirittura il permesso: «Filippo, guarda che ho messo…», e io: «Fai, fai, fregauncàz».

Con certi meccanismi di storicizzazione farlocca bisogna stare attenti: arriva sempre l’idiota che manda a pallino la tua ricerca affibbiandola a un altro, o negandola, o stravolgendola. Le tesi di laurea, per esempio, a volte sono talmente irte di vaccate sul fumetto “post Linus” che spesso non si sa dove mettere le mani. Attribuzioni e antecedenti errati, giudizi campati in aria, conclusioni indimostrate o indimostrabili, puro orrore … Su questo punto sono abbastanza duro. Se non mi difendo da solo, chi mi difende? Garibaldi?

Il termine “studelinquenti” si riferiva al movimento del ’77 e a come esso veniva visto dall’establishment politico-culturale bolognese e non solo.

Sì, a come gli studenti venivano delinquentizzati dall’establishment e dalla stampa comunista di allora. Erano mucche da mungere con gli affitti e le mense, e basta.

IMMAGINE 13

Un bar a Bologna, da Un buon Impiego. Lo studelinquente ha il volto di Franco “Bifo” Berardi
Un bar a Bologna, da Un buon Impiego. Lo studelinquente ha il volto di Franco “Bifo” Berardi

Un buon impiego causò diverse polemiche con il P.C.I. che si sentiva attaccato nel suo santuario. Il succo era: «Ma come? Bologna è così perfetta e tu la descrivi in questa maniera?»

Nota che l’establishment politico bolognese, ignorante e lunare per definizione, neanche si accorse che esisteva questa storia. Chi ruppe le scatole fu invece, a Milano, tal Ranieri Carano, un traduttore di “Linus” che s’era allargato a dire la sua su questo e su quello, il quale su “Città Futura” mi accusò di non conoscere Bologna e blablabla. Mi scappò da ridere e non risposi, che la Storia è un killer che lavora gratis, per cui se ho speso, ho speso in champagne. Il racconto era stato marchiato come il parto di uno che sputa nel piatto e blablabla, dopo tutto quello che Bologna aveva fatto per lui. Avrei voluto e dovuto chiedere a Carano, che se ne stava a Milano, che cosa secondo lui Bologna avesse fatto per me. Il democratico, apertissimo comune di Bologna mi aveva costretto ad abitare in una casa occupata perché non mi aveva concesso la fissa dimora, figurati un po’. Dovetti emigrare tra le piadine romagnole per avere la cittadinanza: Bologna non voleva saperne di me, il suo figlio migliore (ride, n. d. r. ).

Lei ha più volte sostenuto che la droga, diffusasi esponenzialmente a Bologna a fine anni Settanta, ha ammazzato le intelligenze migliori di un’intera generazione, e che in questo c’era un calcolo politico.

Quello è un ragionamento extra-fumetto che feci molti anni dopo, sul come mai questa brillante generazione fosse venuta tanto improvvisamente al mondo e altrettanto improvvisamente fosse sparita dalla circolazione, nel giro di pochi mesi: la spensero sul nascere con l’eroina. Arrivai a pensare e a scrivere che avevano fatto piovere apposta l’eroina per togliersi di torno i rompiscatole.

In realtà è un ragionamento sbagliato, come poi mi fu spiegato da altri che vivevano la cosa più di persona, e sono arrivato alla conclusione che il Partitone si è fatto uccidere il bambino nella culla per pura ignavia, per pura distrazione, per pura inettitudine. Ma se avessero studiato e mandato a memoria le mesate di “Re Nudo” che descrivevano la marcissima situazione di Milano…

Erano barricati nella classica torre d’avorio?

Ma sì, non capivano niente! E quando si sentivano accusati, anche su temi specifici come questo, non opponevano altro che: «Eh, ma noi abbiamo indetto molti collettivi per aiutarvi!». Scemenze allucinanti, e i risultati sono quelli che sono: Bologna è la città più spenta dopo Vercelli. Ma allora Bologna non era Vercelli, giuro.

Dispiace, anche per Vercelli.

Lei non ha mai risparmiato bastonate nemmeno ai suoi compagni di strada del ’77, alla loro “broccheria diffusa”, come ha scritto, a un certo velleitarismo da ciclostile. Ha raccontato che dalle frequenze di Radio Alice lanciava appelli per radunare chi avesse qualcosa da dire con un minimo di qualità, ma alla “chiamata alle armi” non rispose nessuno.

Non rispondeva nessuno, non a Bologna; rispose a Milano uno di Roma, Tamburini.

In realtà, sottolineandone l’inadeguatezza, cercavo di colpire la tracotanza della realtà, di farla suppurare. Mi accorgevo che il movimento per molti versi era monomaniacale, come poi si è visto: non ridevano, erano ignoranti, dire “Arcibraccio” o “Charlie Hebdo” era già troppo; non andavano più in là dei Grundrisse, e se cercavi di depistarli su mondi veramente alternativi passavi da scemo, o da rompiballe, o da agente del nemico. Per cui smisi abbastanza in fretta di cercare di medicare il movimento, non era proprio il caso: non ce l’avrei fatta, ero troppo debole e solo, soprattutto pretendevo troppo.

Ancora da Un buon impiego, la tavola iniziale.
Ancora da Un buon impiego, la tavola iniziale.

Come nella querelle con le femministe, dopo la lettura a Radio Alice di un raccontino di François Cavanna, L’impotenza.

Sì, esattamente in questo senso. Fu occasionata da una totale mancanza di spirito da parte delle femministe, per me non misteriosa. Il livello dello scontro, come avrebbero detto i compagni con la stella nel cerchio, era a livelli superminimi: si incazzarono perché dicevo le parolacce alla radio e perché dopo ogni parolaccia, scoppiavo a ridere. Questo le fece imbestialire: il non prendere sul serio neanche le mie stesse proposte. Era un mondo interessante. Pochi colori, ancor meno nuances, ma interessante. Adesso, che la tavolozza si è scolorita ancor di più, non gliene fregherebbe niente a nessuno: siamo a Fiorello.

Quell’episodio è presente anche nel film Lavorare con lentezza di Guido Chiesa, però in quel caso all’attore che la impersona viene fatto leggere un brano tratto da Racconti porni, anziché quello di Cavanna. Perché, secondo lei?

Intanto il film fa schifo e ho litigato sia con il regista, che non voglio nemmeno nominare, sia con Bifo (Franco “Bifo” Berardi, fondatore di Radio Alice e uno dei leader della protesta studentesca bolognese del ‘77, n.d.r.) , che lo difendeva sostenendo come fosse il primo film a parlare di quella Bologna; evidentemente doveva essere impazzito, visto che il film è una vera schifezza; del resto è un film italiano, quindi una schifezza per definizione.

Dopodiché, far leggere il mio Ci ho sempre un sogno al posto dell’originale L’impotenza di Cavanna è un vero e proprio falso storico, e un’ucronia; non mi sarei mai permesso, pur con la voglia da monello di rompere le scatole che avevo, di leggere un racconto porno ai microfoni di Radio Alice; gli anni a seguire mi hanno permesso di scrivere un racconto porno che in realtà prende in giro il porno, ma all’epoca sarebbe stato letto esclusivamente come una porcata da maiali, io stesso l’avrei interpretato come tale. È un vero e proprio errore: il regista non ha capito niente di quella Bologna e di quell’ambiente. E i colpevoli/complici sono i cosiddetti Wu Ming, un pool di ragazzini che firmarono con Bifo la sceneggiatura, e che di quella cornice hanno capito ancor meno. Al di là delle sue zero qualità filmiche, il film è anche tremendo dal punto di vista storiografico e storicistico, dall’inizio alla fine.

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