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FocusProfili'Bisogna leggere molto per fare un buon fumetto'. Intervista a Hugo Pratt

‘Bisogna leggere molto per fare un buon fumetto’. Intervista a Hugo Pratt

Quanti sono i mari di Corto Maltese? Tanti, tutti quelli geograficamente conosciuti; tanti, almeno, quanti i suoi viaggi o quelli del suo creatore. Che poi, praticamente, è la stessa persona. Hugo Pratt non è Salgari che fantasticava di terre e popoli su atlanti e libri di viaggio. Pratt quei luoghi, mari o deserti, li è andati a cercare o a ritrovare per davvero. In Avevo un appuntamento (Edizioni Socrates) ci racconta i mari del Sud in una serie di racconti-reportage sulle tracce di Stevenson e del relitto del Bounty, su quelle della Sadie Thompson narrata da Somerset Maugham in Rain e poi finita sullo schermo con Gloria Swanson e Rita Hayworth. Un libro bellissimo, pieno di fotografie, di immagini e dei suoi splendidi acquerelli; impreziosito da un racconto-omaggio a Corto Maltese di Antonio Tabucchi e da un’introduzione di Omar Calabrese in cui il libro di Pratt viene definito come «uno dei più bei saggi di antropologia strutturale» degli ultimi anni.

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Com’è nato questo libro?

Tutto è partito dalle figurine Liebig che trovavo nei dadi del brodo, quando ero bambino a Venezia. O in quelle che si trovavano nei pacchetti di sigarette inglesi e che ho conosciuto qualche anno dopo. I miei coetanei si entusiasmavano per quelle dei calciatori che a me non interessavano. Ero affascinato da quelle figurine che ritraevano uomini dipinti e tatuati come i Papua, spiagge esotiche, o soldati in strane uniformi. Ho cominciato a sognare e a fantasticare sui mari del Sud, partendo da lì. E poi ci sono stati i libri, i film, i fumetti di Franco Caprioli. O le collane della Sonzogno che ho iniziato a leggere quando avevo 7 o 8 anni, e il bel racconto di uno scrittore irlandese, Henry de Vere Stacpoole, Laguna blu, da cui hanno tratto un brutto film. Quando ho cominciato ad avere una certa indipendenza economica sono cominciati i viaggi veri. Ero emigrato a Buenos Aires e lì si è fatto sentire il richiamo del Pacifico; l’Atlantico lo conoscevo già, nel Mediterraneo ero di casa, l’oceano Indiano l’avevo imparato a conoscere quando ero stato in Etiopia. È cominciato tutto così…

Dall’Etiopia, dove ha passato la sua adolescenza all’Argentina. Dai deserti agli oceani: quanti anni e quanti viaggi…

Quest’ultimo è stato il viaggio più lungo. Il Pacifico è un po’ come i puntini di sospensione che si trovano nei romanzi e che quasi chiedono al lettore una sorta di complicità con l’autore. Il Pacifico è pieno di questi puntini, ed io sono andato di puntino in puntino, di isola in isola, saltando come una cavalletta, accompagnato dalla mia collega Patrizia Zanotti (da anni cura le opere di Pratt, ed è l’autrice di molte delle foto che sono nel volume, ndr). Sono andato in posti fuori dai percorsi principali, dove si arriva con le barche dei pescatori, che oggi sono tutti coreani; oppure con piccole barche, facendo il cabotaggio tra le isole Cook. A volte arrivavo in posti quasi deserti e mi lasciavano lì, magari passando a riprendermi dopo una settimana. Era un po’ angosciante, per quanto bello. E allora non mi restava che disegnare. In quei porti fuori dalle rotte te la devi cavare chiedendo un passaggio agli indigeni ed in quei casi serve di più avere con sé una treccia di tabacco che dei soldi. Con il disegno mi sono sempre aiutato molto. Se ti vedono disegnare ti rispettano; mi è succeso con i Masai, con gli indiani del Mato Grosso e dell’Amazzonia. Per quanto siano aggressivi si calmano appena ti vedono disegnare, forse per loro è come una magia. Mi venivano vicino e mi mettevamo la mano sopra la mia che disegnava; forse speravano in una sorta di passaggio di poteri. Insomma hanno ammirazione per la creatività e non gli importa da che paese vieni, ti accettano e ti rispettano.

I suoi viaggi sembrano assomigliare sempre a un tornare sui luoghi toccati dai viaggi della sua creatura, Corto Maltese.

In un certo senso; ma torno anche nei posti dove ho amici, affetti. Sono uno che ha peregrinato molto e che ha avuto la ventura di viaggiare in posti lontani. Se fossi rimasto a Venezia, probabilmente non andrei più lontano di Mestre o Padova; e invece ho amici e ricordi a Rarotonga, in Nuova Irlanda, alle isole Bismark; ho una famiglia a Buenos Aires. E così, ogni due o tre anni, mi rimetto in cammino. In questo senso non vado alla scoperta, ma alla riscoperta o al reincontro. Magari a verificare dove avevo piazzato Corto.

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In questi viaggi lei, dunque, cerca anche delle conferme visive, figurative che servono poi ad illustrare le sue storie?

Sì, certamente. Anzi, ultimamente ne ho tratto una nuova maniera di disegnare più impressionistica, che si traduce in una specie di “story-board” Ha avuto successo e gli editori mi chiedono proprio questo tipo di sequenze all’acquarello. Ma in fondo, per me, è sempre lo stesso fumetto: impressionista o espressionista, Formale o informale. Col fumetto posso fare di tutto, perché non è un’arte minore e perché se l’arte è comunicazione, cosa c’è di più comunicativo del fumetto?

Eppure i pregiudizi sul fumetto sono ancora tanti e molti lo considerano un genere minore, addirittura basso?

Me lo sono sentito ripetere per anni e mi ero stancato a tal punto che un bel giorno ho mandato al diavolo un po’ tutti e ho detto: “Bene, signori miei, io allora faccio della letteratura disegnata”. E oggi sono in molti a definirlo così. L’avventura, poi, non è mai stata ben vista, né dalla cultura cattolica, né da quella socialista. È un elemento perturbatore della famiglia e del lavoro, porta scompiglio e disordine. L’uomo di avventure, come Corto, è apolide e individualista, non ha il senso del collettivo, dell’impegno per l’impegno. Tra poco verrà fatta un’edizione italiana di un mio libro, pubblicato in Francia, che s’intitola “Il desiderio d’essere inutile”. In quel libro ho raccontato la mia difficoltà di riuscire a restare «inutile», nell’Italia degli anni Cinquanta, quando io continuavo a leggere e a parlare di scrittori come Zane Gray e James Oliver Curwood. Nell’Italia della cultura editoriale fatta da Einaudi e Feltrinelli il massimo che potevano accettare era Jack London. Credo che molti pregiudizi derivino anche da una sorta d’invidia. Fumetti come Tintin e Asterix hanno venduto e vendono centinaia di milioni di copie, come il Corano o la Bibbia. E allora, evidentemente, i responsabili della cultura e della letteratura non ce la fanno ad accettarlo. Sì, ci sono stati uomini più avvertiti, studiosi come Della Corte, Del Buono, Eco e Vittorini che hanno nobilitato il fumetto, ma sono state eccezioni.

E che cosa si potrebbe fare per abolirli del tutto, questi pregiudizi?

Intanto fare dei buoni fumetti, non solo d’autore. Penso ad un buon fumetto popolare, intelligente e di buon gusto, come quelli che pubblica Sergio Bonelli. E poi ci potrebbero dare una mano i giornali che dovrebbero pubblicare fumetti di giovani autori, pensati apposta per il pubblico dei quotidiani. In passato ho avuto delle buone esperienze con qualche quotidiano e con il settimanale L’Europeo quando era diretto da Gian Luigi Melega, che pubblicò alcune storie di Corto Maltese.

Vorrei tornare per un momento ai mari e ai deserti che sembrano essere due luoghi privilegiati del suo immaginario. Perché?

Perché il mare è pulito. E poi ci sono delle linee d’orizzonte vuote e così ho meno da disegnare. Se devo fare città, macchine, treni, aerei, tutto si complica e mi avvalgo dell’aiuto di un bravo disegnatore come Guido Fuga. Mi interessa curare di più il dialogo.

Parliamo un po’ di Corto , del suo carattere, dei suoi riferimenti culturali.

Corto Maltese non posso lasciarlo, continua a vendere molto. Ogni suo libro vende dieci, trenta volte di più di qualsiasi mio altro personaggio. Soltanto in Francia ha venduto 5 milioni di libri. Ecco perché gli editori nicchiano, quando gli chiedo di fare altre cose. Con la casa editrice Lizard, che ha appena stampato il terzo volume della serie “Gli Scorpioni del Deserto”, sto preparando un nuovo Corto che riprende La fiaba dei veneziani, Sirat Al-Bunduqiyyah, aggiungendovi episodi inediti. Sarà una storia un po’ metafisica con il ritrovamento a Venezia di una serie di fantastici automi costruiti secoli fa e realmente esistiti. Sulle origini e sulla formazione di Corto Maltese posso dire che ha avuto maestri e insegnanti come il dottor Steiner da cui ha preso la cultura mitteleuropea, o come il rabbino, amante di sua madre, con la sua cultura giudaica e della Cabala. Ma poi tante letture, poesie, incontri: uno è fatto anche di incontri. Corto Maltese è un avventuriero di 27 anni, tanti quanti ne ha quando fa la sua prima comparsa nella Ballata del mare salato, a cui ho dato la mia esperienza, quella di un sessantenne.

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E dunque anche quella dei suo incontri, delle sue letture?

Certo, quelle a cui ho già accennato, ma anche Borges, che mi hanno messo in mano i miei amici appena sono arrivato in Argentina . O scrittori sudamericani come Roberto Arit, Leopoldo Lugones, una sorta di Dumas argentino, Cortazar, Siniega. Ho dimestichezza con la letteratura spagnola, con quella inglese e francese e nella mia biblioteca di 35.000 volumi c’è un po’ di tutto. Soprattutto saggi, libri di viaggi, annate di riviste di geografia. Sì, ho avuto una buona formazione classica, che peraltro non ho mai terminato, ma ho sempre preferito la letteratura avventuruosa di altri paesi. Quella italiana mi interessa meno, mi sembra di orizzonti più limitati, un po’ provinciale, soprattutto la narrativa. Insomma a Moravia preferisco Claudio Magris col suo Danubio, che evoca mondi fantastici e complessi. Bisogna leggere molto per fare un buon fumetto, anche cinquanta libri per tirarne fuori venti pagine.

Un viaggiatore come lei, come vede le nostre tristi vicende italiane?

Sono sempre stato lontano dall’Italia. Mi sento poco italiano, semmai veneziano, di quella Venezia dal ’27 al ’37, cosmopolita, elegante, e che non c’è più. Mi dicono che allora c’era il fascismo, ma non m’interessa, non sono fascista, ma non posso dimenticare quella Venezia stupenda, magica e pulita. Sono stato in Africa dal 1937 al 1942, e poi, dal 1949, per 18anni in Argentina . E ancora giro per l’Europa, in Francia e in Svizzera dove vivo da undici anni. Allora, come vuole che le veda le vicende italiane? Come un italiano che si trova di fronte ad un malessere che mi sembra continuare e non finire mai. Lo ripeto ho bellissimi ricordi di Venezia, ma dell’Italia e degli italiani meno. Certo se mi trovo in compagnia di persone intelligenti non fa differenza se uno è italiano, etiope o argentino. Solo la stupidità e l’insensibilità non hanno bandiere.

*Quest’intervista è uscita su «l’Unità» di mercoledì 21 dicembre 1994

Leggi anche: La cassetta degli attrezzi di Hugo Pratt, secondo Tito Faraci

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