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Thomas Ott e i graffi idiosincratici

Nonostante Rodolphe Töppfer, padre (e teorizzatore) antesignano della nona arte, sia nato e cresciuto in terre ginevrine, di fumetto svizzero non si discute certo spesso. Forse perché, rispetto ad altri colleghi europei, gli svizzeri sono meno apertamente rivolti ad un pubblico internazionale; o forse perché di editori pronti a scommettere sulla Svizzera finora se ne sono visti pochi. Quel che è certo è che il problema non è nella carenza di talenti o nella scarsa vitalità editoriale, come ha testimoniato il successo crescente del Festival ‘Fumetto’ di Lucerna, che poche settimane fa ha inaugurato la sua ventitreesima edizione.

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Anche in Italia, tuttavia, qualche eccezione esiste. Fra le ‘matite’ svizzere più apprezzate e note dalle nostre parti c’è quella di Thomas Ott, artista smisurato ed eclettico, consacrato all’icastico potere dello scratchboard. Fumettista, illustratore, front man di due rock band, regista e docente di Belle Arti, Thomas Ott, nato a Zurigo, classe 1966, nella vita ha sperimentato un po’ di tutto – e da tutto questo sembra proprio avere tratto ispirazione. Fra le prime esperienze la collaborazione con Strapazin, celebre rivista underground e anticonformista di Zurigo – nata negli anni Ottanta, tutt’oggi attiva con quattro uscite l’anno – grazie alla quale pubblica i suoi primi lavori e comincia a farsi conoscere per le sue doti di scratcher.

C’è un po’ di Robert Crumb, un po’ di Fritz Lang e un po’ di Marc Caro nei lavori di Ott, specie nel taglio delle inquadrature, nella struttura delle tavole e nella scelta delle atmosfere e dei soggetti. Si potrebbe quasi parlare di vero e proprio montaggio: il criterio con il quale vengono gestite le sequenze di vignette, nonché i loro rapporti reciproci, ricorda i principi e gli effetti di un découpage cinematografico; e non è un caso, visto che la passione per il cinema rappresenta una delle influenze più evidenti nelle sue opere, nei temi come nelle soluzioni stilistiche.

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Forte di un cinismo quasi chirurgico, Thomas Ott ci mostra un’umanità terribile e grottesca, che trova proprio nello scratch il suo terreno più fecondo. Un immaginario potente, labirintico, profondamente disturbante e disturbato, visionario eppure altamente realistico, per il quale Ott coniuga un tratto deciso e fortemente espressionista – una sorta di espressionismo in bianco e nero, in verità – alla quasi totale assenza di testi e dialoghi. Fotogrammi del più cupo cinema anni Quaranta, vignette mute, quasi sempre prive di balloon e didascalie, che emergono rigorosamente dal nero della pagina.

La tecnica dello scratchboard prevede che si gratti via l’inchiostro steso sulla carta per lasciar emergere ciò che c’è al di sotto; Thomas Ott si spinge ancora più in là e trasforma il momento creativo della realizzazione della tavola in un gesto quasi catartico: mentre graffia i suoi scratchboard con la lama di un taglierino, tagliando letteralmente la “luce” delle sue tavole, Ott dà vita a degli incubi che non potrebbero essere rappresentati altrimenti. La tecnica stessa, da lui scoperta quasi per caso da giovanissimo, agli inizi della sua carriera – ma da allora mai più abbandonata – diviene veicolo materiale di un contenuto“altro” (o ‘altrove’), moltiplicatore di senso, un atto dotato di significato che si traduce nell’inevitabile preferenza per i soggetti più lugubri e inquieti.

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«Ho sempre fatto pensieri molto cupi, fin da ragazzo» ha detto in un’intervista al magazine canadese Exclaim! qualche anno fa. «Quando lavoro mi concentro su cose che mi fanno star male, cose oscure. Quando guardo i miei disegni di quando avevo dieci anni vedo le stesse cose: spettri e mostri. Rispetto ad allora, oggi quei disegni sono solo più dettagliati. Le persone mi chiedono sempre com’è possibile che I miei lavori siano così inquietanti, i miei pensieri così oscuri e via dicendo. In realtà, sto solo cercando di far uscire fuori tutto questo attraverso il mio lavoro. È una sorta di terapia. Quando lavoro non mi preoccupo del tempo, non ci penso. È come trovarsi nel pieno di un ritmo. Mi piacerebbe fare qualcosa di diverso, cambiare l’attitudine del mio lavoro o il modo in cui le storie vengono fuori. Mi piacerebbe realizzare storie per bambini, ad esempio, ma i miei lavori sono ancora troppo pesanti. Non sono adatte ai bambini. Sfortunatamente, ogni volta che penso ad una nuova storia, le cose tendono a farsi brutali. Quando finisco di disegnare è come se mi stessi risvegliando. È come trovarsi in una stanza buia e accendere lentamente la luce.»

Le creature che animano le pagine dell’autore svizzero nascono e si muovono visivamente e idealmente nell’oscurità, in un universo dal ghigno straziante, che trova nell’atto stesso del graffiare la pagina la sua espressione definitiva. Storie brevi, caustiche, rêveries diaboliche e umanamente dissacranti, incubi moderni che attraversano temi e generi diversi: dal noir alle storie dell’orrore, passando per le brevi variazioni sul tema e per gli adattamenti letterari da un’unica tavola, vere costanti di questi racconti spietati e violenti sono l’angoscia, l’inadeguatezza, i vizi, il grottesco e la morte. Personaggi e fantasmi al contempo vivono eventi quotidiani e fantasmagorici come in balia di un fato impietoso e indifferente. Omicidi e vendette, paure, fughe, deliri e ballate diaboliche, storie emblematiche frutto di una fortissima marca autoriale, i racconti di Ott ci mostrano in un silenzio quasi brutale cose di cui in realtà preferiremmo non parlare.

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Le opere di Thomas Ott che ad oggi hanno visto la luce in edizione italiana sono cinque, quattro delle quali – Racconti dell’Errore, Exit, Cinema Panopticum e Il numero 73304-23-4153-6-96-8 – pubblicate dall’ormai ex Black Velvet, sono ancora abbastanza reperibili. La quinta del gruppo, Benvenuti all’Inferno, pubblicata ormai parecchi anni fa dalla Topolin Edizioni, è diventata invece un vero e proprio pezzo da collezione. Considerando che alcuni lavori dell’autore svizzero sono tutt’oggi inediti in Italia, che l’ultima edizione italiana delle opere di Ott risale al 2008, ovvero a ben sei anni fa, e vista la fine della Black Velvet, ciò che viene da chiedersi è: chi raccoglierà il testimone? Privarsi di uno svizzero come lui, in fondo, sarebbe – anch’esso – un racconto dell’errore.

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