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RecensioniClassicIl senso di Matticchio per il non sequitur: “Pflip”

Il senso di Matticchio per il non sequitur: “Pflip”

Le differenti tipologie di transizione tra una vignetta e la successiva, per come sono state individuate da Scott McCloud nel suo Capire il Fumetto (Understanding Comics), sono ormai una classificazione di così vasto successo da meritare sempre la citazione, anche se magari non le si condivide, in parte o del tutto.

Le casistiche enumerate dal graphic essayist americano sono le seguenti, per chi non le ricordasse: 1. da momento a momento; 2. da azione ad azione di un soggetto; 3. da soggetto a soggetto, all’interno di una stessa scena; 4. da scena a scena; 5. da aspetto ad aspetto (di un luogo, un’idea, uno stato d’animo); 6. non sequitur (ovvero nessun rapporto).

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Stando all’analisi quantitativa fatta da McCloud, le più usate nei fumetti occidentali – e di gran lunga – sono la 2, la 3 e la 4, che mostrano il procedere degli avvenimenti in maniera efficiente ed essenziale. La 1 viene usata in casi particolari, per scolpire il tempo in maniera molto evidente. La 5, forse per la sua vaga atemporalità, è poco utilizzata nel fumetto occidentale popolare, ma curiosamente è invece tipica di molto fumetto popolare giapponese. La 6 è usata solo in sequenze oniriche o per confondere completamente le idee al lettore, essendo estranea a qualsiasi evento o intento narrativo.

Il non sequitur è però l’unico tipo di transizione che in Understanding Comics merita una tavola di approfondimento tutta per sé.

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McCloud sostiene che non è possibile stabilire una transizione nella quale una vignetta non ha davvero alcun rapporto con l’altra, in quanto “anche se un’immagine è estremamente diversa da un’altra, c’è una specie di alchimia all’opera nello spazio tra le vignette che può aiutarci a trovare un senso o una risonanza, persino nelle combinazioni più dissonanti”, e corrobora la sua tesi con alcune trovate grafiche

La tavola usata da McCloud per sostenere questa tesi è però un piccolo inganno percettivo. A voler essere attenti, quelli sopra rappresentati non sono veri e propri non sequitur. La sequenza è così meta-fumettistica che di per sé implica una serie di transizioni di tipo 3, solo di genere più concettuale. Infatti, si passa da un soggetto primo (la rappresentazione dell’autore) a un soggetto secondo (l’anti-rappresentazione dell’autore, per così dire, declinata in varie forme), in quello che di per sé è un dialogo figurato tra senso e anti-senso; e questa alternanza dei soggetti avviene all’interno di una scena contemporaneamente materiale e immateriale: la tavola. La terza vignetta, lungi dall’essere insensata, in quel discorso è piuttosto una battuta grafica fatta dal soggetto secondo, e muove al riso in rapporto alla seconda e alla quarta. L’autoritratto iconico di McCloud, la sua dissoluzione cubista, i pinguini, la piccola Nancy di Ernie Bushmiller (oltretutto a gambe all’aria), per quanto si succedano alla ricerca di una sequenza incoerente, sono sempre e comunque dotati di un chiaro rapporto con l’elemento che segue o precede, visto che in quella tavola si teorizza sulla loro specifica capacità rappresentativa (o anti-rappresentativa). La dimostrazione grafica di McCloud sembra, insomma, mancare il bersaglio per troppa generosità.

pflip

La tesi però potrebbe essere vera, ed è a questo che pensavo leggendo (guardando) Pflip, un bel libro dell’illustratore e fumettista Franco Matticchio, pubblicato nel 2000 da Nuages.

Il titolo sembra fare riferimento al gangarone Flip, il bizzarro animale di compagnia del disneyano Eta Beta (Pflip è il suo nome nell’edizione originale). Il pedigree dell’animaletto è complesso, visto che risulta discendere in parti uguali da cane, gatto, volpe, zebra, drago, orso, rana, coniglio e anatra (e forse c’era pure una parte di alieno, se non ricordo male). Un meticcio all’ennesima potenza. Ma anche un non sequitur genetico, per così dire.

Chissà se c’entra, fatto sta che il libro di Matticchio, a volerlo leggere come un fumetto, è un’interminata successione di non sequitur. Sono circa duecento tra (bellissimi) disegni, bozzetti, illustrazioni, schizzi, tutti muti e privi di relazione tra loro. La prima immagine del libro è un signore in spolverino, che si affretta in uno spazio desertico, curvo in avanti, con un ferro da stiro in mano.

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Da lì in poi è tutto un rincorrersi di disparate creazioni grafiche, come nello stile dell’autore. Alcuni disegni sembrano appartenere alla stessa tipologia di corto-circuiti visivi che la fanno da padrone nelle foto dello spagnolo Chema Madoz. Come questo, in cui il manico dell’ombrello perde la sua normale funzione, per tornare a essere un pezzo di legno con cui giocare (sotto la pioggia, per di più).

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Ma c’è anche una donna seduta in estasi davanti all’oblò della lavatrice, che la illumina come fosse il fascio di luce che esce dal televisore. O uno spazzolino con un ricciolo di dentifricio posato in punta di setole, la cui sagoma ricorda un omino accovacciato che riflette. Poi ci sono le illustrazioni propriamente comiche, come questa (che peraltro potrebbe fare parte anche dell’insieme precedente, e viceversa).

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Non è chiaramente l’unica battuta in forma di disegno presente nel libro, e per esempio si possono ammirare, tra le altre cose, altre invenzioni comiche quali una nocciolina americana visibilmente sospettosa nel vedere una proboscide avvicinarsi a lei, un controllore di volo che fa le usuali segnalazioni con le bandierine a uno stormo di uccelli in arrivo, un pistolero che aspetta solo un segnale per dare inizio a una grandinata di piombo, completamente nudo a parte gli stivali, il cappello e la pistola nella fondina (che però surroga le pudenda, e allora forse non è piombo quel che grandinerà). Ci sono quelli che definirei “incipit grafici per bizzarre storie da raccontare ai bimbi prima di metterli a letto”. Per esempio: “Il Key Account Manager che in pausa pranzo faceva salto con gli sci”.

Oppure, “La principessa che trasformava i nerd in rospi (o viceversa)”, o “Il disincantato pianista con venti dita”. Gianni Rodari ne avrebbe cavato racconti stupendi, probabilmente.

Due soli disegni del volume sono inseriti in una vignetta vera e propria e per un attimo richiamano in maniera inequivocabile la narrazione a fumetti, ma rimangono irrelati e il contesto resta totalmente anti-narrativo. In due casi sembra di assistere a una brevissima sequenza di due vignette.

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In realtà, non di sequenze vere e proprie si tratta, ma di variazioni sullo stesso tema. Basta porre attenzione al fatto che nel primo caso la stanza non è la stessa (le pareti sono posizionate in maniera differente) e nell’altro i due cani non appartengono al medesimo universo narrativo (il secondo sembra dotato di pollice opponibile, o quanto meno è in grado di maneggiare gli oggetti, e conosce la posizione eretta). Non mancano infine alcune figure di donne alla Matticchio, languide e misteriose, con gli arti lunghissimi, e animali vari, soprattutto serpenti e pesci, ma compaiono pure gatti cani e uccelli.

Al termine della lettura, l’impressione è comunque che i disegni non stabiliscano tra loro alcuna risonanza che non sia una un po’ troppo vaga assonanza tematica, per cui l’affermazione di Scott McCloud resterebbe ancora non sufficientemente provata. Non fosse che l’ultima pagina del volume ribalta tutto in sol colpo, come si può ben vedere.

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Non si tratta soltanto della continuazione della prima immagine del libro. Ma anzi, si amplia anche lo sguardo sulla scena iniziale: quello che poteva ancora sembrare un signore bizzarro, adesso si qualifica senza più margine d’errore come un pazzo patentato, che avanza con postura innaturale per distese solitarie e vagamente primordiali, in mano un ferro da stiro dotato di filo di incongrua lunghezza.

E siccome l’opera genera interpretazioni, ecco che a questo punto si può anche considerare tutto ciò che interviene tra la prima e l’ultima pagina come la visualizzazione di quel che di notevole, sorprendente, comico, si trova nei recessi più nascosti della mente del signore in spolverino. In pratica, tra la prima pagina e la seconda pagina (e poi succederà lo stesso tra la penultima e l’ultima) assistiamo a una transizione da scena a scena, anche se all’inizio non lo sappiamo ancora. Da una scena reale: l’uomo in spolverino che si aggira nel deserto, si passa a una scena immaginaria: quel che ha nella testa l’uomo in spolverino. Un Mulholland Drive ante litteram, e persino più radicale dal punto di vista linguistico.

Rimane infatti la successione di non sequitur, che va dalla seconda alla penultima pagina, che però assume un senso più ampio e vibra di risonanze interne alla luce della cornice narrativa in cui tutti gli elementi vengono ricompresi, e anzi si potrebbe finire per considerare il tutto addirittura una serie di transizioni da aspetto ad aspetto (del mondo psichico del signore in spolverino). Per quanto infatti la cornice sia labile e limitata a due sole vignette, è una perfetta parentesi che si apre e si chiude, e come tale funziona, inglobando tutto.

Se ne può forse dedurre che il non sequitur, preso in sé e per sé, è davvero una particella del discorso fumettistico che non ha alcun legame con ciò che la affianca, ma che la forza delle altre tipologie di transizione è tale da attrarlo in un’area di significato forse non pertinente in relazione alla sua essenza rappresentativa, ma assolutamente inevitabile in un contesto narrativo (o assunto come tale). E comunque, in presenza della sola transizione di tipo 6, forse non si può nemmeno parlare di fumetto. Pflip, in effetti, è una raccolta di disegni di varia ispirazione, certo non una storia a fumetti, e neppure un saggio. Se non fosse per quell’ultima pagina…

O forse in realtà non si può dedurre un bel niente, se non che il presunto protagonista di Pflip è un pazzo sì, ma un pazzo di genio. Come Matticchio, evidentemente.

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