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Dal fumetto al cinema, e ritorno

Nel febbraio 1905, quando il cinema era ancora una specie di teatro su pellicola, uscito fresco fresco dalla testa di Méliès, e ancora qualche anno prima di diventare lui stesso uno dei protagonisti di quella rivoluzione narrativa, Winsor McCay  si permise di anticipare una delle sue grandi potenzialità. C’è infatti una tavola del Dream of the Rarebit Fiend (Sogno del patito di fonduta al formaggio) interamente in soggettiva. Eccola qui:

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Winsor McCay, ‘Dream of the Rarebit Fiend’, tavola del 25 febbraio 1905

Il cinema era ancora lontano da questa intuizione. In quegli anni era ancora lontano persino dall’alternanza di inquadrature come principio narrativo fondamentale. Il fumetto era ancora (e per molti anni sarebbe sostanzialmente rimasto) fumetto comico, a cui l’inquadratura a figura intera (o giù di lì) è in generale sufficiente. In pittura erano certamente presenti mezzibusti e facce, ma il tema del punto di vista dell’immagine non era tra quelli caldi e particolarmente discussi. Era semmai in fotografia che la tematica dell’inquadratura aveva già un senso forte.

Ma per poter parlare di soggettiva, bisogna che ci sia un soggetto della visione tematizzato narrativamente. In fotografia, in un certo senso, tutte le immagini sono soggettive, perché esprimono il punto di vista di un soggetto, che è il fotografo stesso. Ma il fotografo non è parte del racconto, anzi di solito non può esserne parte. Quindi, in fotografia, parlare di soggettiva non ha senso.

Ecco che, di colpo, trova invece senso qui, in questo incubo di McCay. Più cinematografico del cinema, potremmo dire oggi (certo non allora). Probabilmente, tutta la prospettiva che gli era stata fatta studiare ai tempi della scuola aveva lasciato il suo segno: la prospettiva è la scienza della ricostruzione dello spazio da uno specifico punto di vista, quello di chi guarda; è la geometria della visione soggettiva. Ma ci vuole ancora un bel salto di immaginazione per passare dalla geometria al suo uso come espressione della soggettività: è l’idea di un soggetto che viene espresso senza poter essere visto, attraverso quello che lui vede e in generale percepisce. Un’idea di base letteraria, romanzesca, indubbiamente, che ancora non aveva trovato applicazione nell’ambito del visivo.

Nell’aprile del 1938, il cinema era ormai saldamente il medium epico per antonomasia del XX secolo; ed era un’arte matura ed elaboratissima. In trent’anni aveva fatto passi da gigante, forte anche di un interesse straordinario da parte del pubblico, e di investimenti economici e artistici corrispondenti. Anche il fumetto si era evoluto, ma non al medesimo passo. Era nato il fumetto di avventura, per imitazione rispetto al cinema d’avventura, ma aveva continuato a lungo a perpetuare i modelli del fumetto umoristico, quanto a montaggio e inquadrature.

Bisogna aspettare la metà degli anni trenta perché anche il fumetto di avventura si aggiorni, e questo capita sostanzialmente attraverso il lavoro di due autori, Milton Caniff e Alex Raymond. È soprattutto Caniff a capire il senso della varietà delle inquadrature e del montaggio. Raymond, dopo inizi più incerti, sposa invece sempre di più una monumentalità classicheggiante, fatta di immagini singolarmente straordinarie, sempre più pulite, lucidate, perfette, col passare degli anni (almeno sino a quando disegna Flash Gordon; dopo la guerra, con Rip Kirby, il cambio di rotta in direzione caniffiana è totale). Anche se l’andamento del racconto di Raymond è quanto di più lontano si possa immaginare da quello del racconto cinematografico (è piuttosto un’epica quasi-letteraria), la sua concezione dell’inquadratura è ancora più avanzata, in senso cinematografico, di quella di Caniff.

Guardate questa tavola del 28 aprile 1938: campo medio, primo piano, piano americano (leggermente dal basso), campo medio, figura intera. Il primissimo piano (al limite del dettaglio) dell’ultima vignetta è una novità assoluta nel mondo del fumetto; che io sappia, non ne esistono prima di questo.

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Alex Raymond, ‘Flash Gordon’, tavola del 24 aprile 1938

Non è una soluzione facile per un disegnatore, specie quando ha compiuto la scelta monumentale di Raymond. Scelta monumentale vuol dire che ciascuna immagine è fatta per raccontare un tempo lungo, ma anche per essere letta in un tempo lungo. Quindi, certo, lunghe didascalie: ma non si può contare troppo sulla scrittura, la quale, comunque, abbassa il livello ritmico. Bisogna che sia l’immagine stessa, con la sua complessità interna, a tenere avvinta l’attenzione del lettore!

Se il campo è ampio, può essere sufficiente aumentare i dettagli. Però si noti che in queste vignette Raymond non lo fa mai, e non appare nulla che non sia davvero essenziale al racconto. Il suo virtuosismo da disegnatore gli consente di lavorare sulle ombre e sui dettagli. Ed è per questo che il primissimo piano (dove sarebbe impossibile aumentare i dettagli) gli esce così naturalmente coerente. Il volto del killer è straordinario, con questa luce radente che non si capisce da dove venga, ma che lo scava comunque come una seduta di psicoanalisi.

Il fumetto può imitare il cinema, certo, ed è questo il messaggio che stanno dando Caniff e Raymond in quegli anni. Ma non illudetevi che sia facile. Quello che nel cinema si raggiunge con certi mezzi, il fumetto lo raggiungerà con mezzi diversi, tutti da inventare: l’effetto è simile, gli strumenti no.

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