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FocusProfiliGianni De Luca, nato con la matita

Gianni De Luca, nato con la matita [Intervista]

hamlet

3 – 15 maggio 1988

L: Ricapitolando quello che ci siamo detti l’altra volta. Gran parte degli anni Sessanta li hai passati a fare l’illustratore, più che il fumettaro…

G: Sì e no. Un fumettaro è anche illustratore. Oltre che un sacco di altre cose.

L: Sai a cosa mi riferisco. Hai prodotto più tavole uniche e paginoni che cineromanzi…

G: Confermo. Verso la fine del decennio però sono tornato a fare storie.

L: … Western, lo so. Un genere nuovo, per te…

G: Io penso che per un autore non debbano esistere i generi, quanto piuttosto uno stile. È lo stile che deve prevalere sul resto.

L: Quando disegnavi “Bob Jason” erano ancora i tempi di John Wayne?

G: Semmai degli spaghetti-western. La prospettiva cominciava a ribaltarsi. Vedi Tex Willer, per esempio, o il sergente Kirk di Pratt che rinnega i visi pallidi dopo il massacro contro i pellerossa… o vedi, prima ancora, Kit Carson di Albertarelli. Insomma, si cominciava a leggere la storia dalla parte degli sconfitti.

L: La prospettiva… ancora Lei!

G: Diciamo che il “capovolgimento”, chiamiamolo così, fu piuttosto generale. E iniziò subito dopo la guerra. Hai mai sentito parlare dell’Asso di picche?

L: No.

G: Un giornalino che nacque in carcere, fra i detenuti politici della cosiddetta Resistenza…

L: I partigiani pensavano ai fumetti? Io inorridisco…

G: I fumetti, in quegli anni, durante il fascismo, intendo, erano rimasti nonostante tutto, sinonimo di America. Se pensi al male che ne diceva Cipriano Efisio Oppo, ti puoi rendere conto delle ragioni che aveva il regime per non esserne per niente entusiasta e di quelle che avevano invece i suoi oppositori per cercare di farne uno strumento di libertà.

L: Sull’Asso di picche che storie uscirono?

G: Storie, appunto, in cui la figura tradizionale dell’eroe bello, invincibile, dotato di una forza sovrumana, si cominciava a incrinare… sintomatico, ti pare? Si cominciava a sospettare dei superuomini…

L: Capovolgimento di… prospettiva…

G: È, di nuovo, un modo di guardare che cambia… del resto, appena vent’anni dopo sarebbero iniziati i tempi della luna…

L: Cosa?

G: Non ti ricordi?

L: L’Apollo Undici… sì, come no. Mi ricordo di quella nottata passata davanti al televisore… Ruggero Orlando e Tito Stagno con le loro gaffe da prima diretta-fiume… ma scusa… vuoi dire che la conquista della luna ha cambiato anche il tuo modo di disegnare?

G: Sì e no. Mi ha acceso una curiosità in più. Fare un disegno da lassù, per esempio.

L: Come?

G: … Disegnare la terra dalla luna. Da quella prospettiva assolutamente esterna. Vedi? Di fronte a certi eventi, tutto si relativizza, si rimette in discussione… all’epoca mi era venuto in mente che, forse, potendo vedere gli uomini da lì, ci sarebbero apparsi coi nasi lunghi come proboscidi… o gli occhi invisibili come granelli di sabbia… la verità è che gli autentici E.T. siamo noi, se solo la prospettiva cambia…

L: Il mostruoso latente nell’uomo ti ha sempre provocato. Ed è quanto meno singolare, in te, perché è l’altra faccia del tuo classicismo di forme essenziali. Del tuo “essenzialismo”…

G: Cosa vuoi? Io ne sento tante da qui, dalla mia radio… a quell’epoca, per esempio, sentivo del Vietnam, della corsa agli armamenti, dell’assassinio di Kennedy, del Biafra, della Cecoslovacchia invasa… te l’ho detto: i veri E.T. siamo noi. Una volta acquisito questo dato, dopo, tutto cambia.

L: Tu però, all’epoca, non cambiavi. Per dartene conferma, torno un secondo alle tue immagini… consolatorie. E così concludo anche il discorso sul De Luca illustratore, se non ti dispiace. Citando una tavola della serie Cuore. Infatti illustrasti anche quello, per Il Giornalino…

G: Ora non uscirtene col solito, conformistico disprezzo per De Amiciis.

L: Raccomandazione inutile. A me Cuore piace moltissimo e ogni volta che lo leggo ci piango volentieri.

G: Ah davvero?

L: Davvero. Vorrei, dicevo, parlare della tua illustrazione per “Il piccolo scrivano fiorentino”. Che tu ritrai al suo posto notturno di lavoro, nel momento in cui il vecchio padre lo sorprende alle spalle.

G: Vero.

L: C’è un’atmosfera blu molto bella, cinematografica direi. La “ fotografia” è meno conformista del solito, forse per l’effetto notte. E poi debbo renderti ragione di quello scorcio dalla finestra sul Palazzo della Signoria che è una citazione urbanistica, diciamo così, molto pertinente, secondo me.

G: Bontà tua.

L: Lo sai che questa immagine mi ha sempre… commossa molto?

G: In quel senso in cui ti commuove Cuore?

L: No, mi commuove di per sé stessa. Ora non c’entrerebbe niente. E difatti questo esula dalla mia intervista. Presumibilmente non lo utilizzerò per la ricerca.

G: E dunque?

L: E dunque mi commuove quel padre ignaro fino a un attimo prima. Severo perché ignaro. Con quella barba trasandata notturna che aumenta la sua sorpresa, il suo ravvedimento improvviso…

G: Mi fa piacere.

L: C’è qualcosa di familiare in quel padre…

G: In che senso?

L: Non sei stato tante volte tu stesso il modello dei tuoi soggetti?

G: Vuoi dire che vedi in quel padre tuo padre? Era più vecchio di me quando lo disegnavo. Quasi più vecchio di me come sono adesso…

L: Ma anche tu potresti sorprenderti all’improvviso di qualcosa che continui a ignorare.

G: Me ne rallegro. E sarebbe?

L: No, lasciamo perdere.

G: Ma come si fa a procedere così? Apri i discorsi e non li chiudi…

L: Fidati di me, per piacere. L’intervista la faccio io.

G: Bah.

L: Mi è rimasta in sospeso una curiosità sulle tecniche impiegate. Tutte le tue illustrazioni per copertine sono rigorosamente a tempera. Mi consta che alcuni specialisti, più di una volta, hanno preso questi tuoi autentici “quadri” per pitture a olio. Merito tuo o difetto dell’osservatore?

G: Direi piuttosto la seconda cosa. Come si fa a confondere due tecniche così radicalmente diverse? Vedi, la tempera, la pittura ad acqua in genere, è la più difficile in assoluto, ma anche quella che permette la resa maggiore, dal punto di vista della purezza delle forme, della pulizia dei contorni… io ripeto spesso che la pittura a olio è perfetta per i principianti, per chi vuole mascherare difetti e imperfezioni, come voleva Van Eyck, del resto, che la inventò… mentre invece l’acquerello è proprio una tecnica “per signorine”.

L: In che senso?

G: Nel senso che non ha corpo, vigore espressivo… l’acquerello è, appunto, colore annacquato… se ti ricordi, da bambina tu iniziasti a dipingere invece proprio con la tempera…

L: Sì, che me lo ricordo. Sul tavolinetto giallo…

G: Ricordi anche, alle medie, quanto penavi per ottenere degli sfondi impeccabili?

L: Sì, mi ricordo anche questo.

G: La tempera ha questa duttilità data dalla possibilità di coprire colore con colore, che poi è anche, contemporaneamente, possibilità di scavo, di evidenziazione. Per questo è una tecnica molto esigente, diciamo così… La pittura ad olio, invece, impasta tutto, e per questo confonde un po’ gli incompetenti… Perciò, a chi deve iniziare, io consiglio sempre la tempera. Perché presenta maggiori difficoltà, superate le quali però l’allievo è in grado di affrontare qualsiasi cosa… e può anche permettersi infiniti ripensamenti… tu eri così brava… perché… mi domando, perché poi hai lasciato perdere?

L: Bah.

G: Lasci sempre perdere. Anche questa conversazione è un cimitero di spunti lasciati continuamente perdere. Discorsi costantemente rinviati…

L: Ti ricordi che ho studiato Heidegger, vero?

G: Ah già. I sentieri interrotti… com’è che diceva quel passo famoso?

L: “[…] Nel bosco ci sono sentieri che, sovente ricoperti di erbe, si interrompono improvvisamente nel fitto […]. Ognuno di essi procede per proprio conto, ma nel medesimo bosco. L’uno sembra sovente l’altro: ma sembra soltanto. Legnaioli e guardaboschi li conoscono bene. Essi sanno che cosa significa ‘trovarsi su un sentiero che, interrompendosi, svia…”

 

G: Si tratta, se capisco bene, di inseguire tracce…

L: È proprio quello che sto cercando di fare, non l’hai ancora capito? In genere nella vita e adesso con te. Io preferisco sempre i frammenti ai massimi sistemi.

G: Sì, te lo riconosco.

L: Si tratta di rispettare ciò che tu definisci “irrappresentabile” e io “non compiuto”.

G: Il punto è che al contrario, secondo le logiche espressive dei tempi che viviamo, tutto sembra sia rappresentabile. Talmente rappresentabile da diventare merda.

L: Dicevi?

G: Dicevo anche la merda d’artista, sì proprio lei. Rappresentabile e presentabile anche quella, se è vero, come è vero, che è approdata perfino alle esposizioni.

L: Un non-senso, per uno come te che insegue la forma!

G: Appunto.

L: Ma allora adesso, per favore, ho ancora una domanda, che devo averti già fatto, ma che mi serve per completare questa, diciamo digressione. Tu dici che io lascio sempre perdere. E allora, torno a chiederti: le decine di ritratti che hai buttato giù dei tuoi familiari, e che sono rimasti nel corso degli anni rigorosamente incompiuti, come li spieghi?

G: Te li ho già spiegati.

L: E io ci torno sopra.

G: All’inizio mi andava di farli. Poi non mi andava più. Poi mi andava di nuovo: […] irrappresentabile, incompiuto… avere a che fare con l’essere umano non è mai facile… e mi sta anche bene che non sia facile…

L: I ritratti che, nell’adolescenza, osavi fare ai tuoi nonni, ai tuoi genitori, ai tuoi fratelli sono più compiuti rispetto a quelli degli anni della maturità che hai iniziato a fare a mamma, o a me…

G: È vero. Nel tuo caso, per esempio, c’era che mi crescevi sotto gli occhi di giorno in giorno. E non eri mai uguale a quella te del giorno prima. Neppure a quella te di un attimo prima, se è per questo…

L: Non è che, per caso, hai scientemente inteso diventare il… Socrate figurativo dei nostri giorni? Non lasciare niente di disegnato che non siano i lavori su commissione, così come lui che non ha lasciato niente di scritto?

G: Sai benissimo che non è così. Un po’ mi mancava anche il tempo, e questo dovrai concedermelo. Se dovevo consegnare le tavole (e mi capitava meno spesso quando ero ragazzo, evidentemente), non potevo poi perdere molto tempo coi ritratti…

L: Insisto: non c’era anche un po’ di quel gusto del mistero, quel gusto a non scoprirti più di tanto? Lo stesso che ti ha sempre impedito di appendere quadri nel tuo studio? Per non voler mostrare agli altri (dicesti una volta) quello che veramente ti piace?

G: Riempire una parete nuda con un quadro, un’immagine, significa dare un senso a quel bianco una volta per tutte. Io non ho questo genere di horror vacui. Il vuoto mi piace, mi riposa, mi consola, se vuoi… mi ricorda tutte le storie che posso ancora inventare. Invece ho orrore dell’univoco.

L: È di nuovo qualcosa di simile al mio non compiuto? O a un socratismo figurativo?

G: Se vuoi, entrambe le cose. Ovvero nessuna delle due.

L: E ti pareva.

G: Mi hai dato tu del Socrate. E non mi risulta che lui chiudesse i discorsi tanto facilmente o una volta per tutte.

L: Dici che hai tentato di farmi diversi ritratti, visto che mi avevi sott’occhio quotidianamente. Sono tutti incompiuti, dicevamo, ma il più incompiuto di tutti è anche uno dei più antichi. E risale, presumo, al 1963, quando la sottoscritta aveva sei anni. Una tempera su tela. Io l’ho ritrovata di recente, questa tela, qui fra le tue cose dimenticate, e coperte di polvere, e mi ha dato una morsa allo stomaco, se lo vuoi sapere.

G: Perché?

L: La mia figura infantile emerge da un fondo smeraldo cupo, il soggetto tiene tra le mani una bambola che, se ti ricordi, avrei dovuto dipingere io. Tu la bambina e io la bambola (tu la persona e io la cosa)…

G: Ah. Dunque è almeno dal 1963 che sto tentando di fare qualcosa a quattro mani con te?

L: Da allora, proprio così. Perciò adesso, esulta del fatto che stiamo facendo almeno qualcosa a due voci, sicuramente ci richiederà meno tempo.

G: Perché parlavi di una morsa allo stomaco?

L: Perché la bambina, cioè io, è senza volto… io non ci sono, non esisto. Sono il fantasma di me stessa…

G: Era solo un’opera da finire…

L: Come cento altre, certamente. Il progetto fu lasciato cadere nel dimenticatoio fino a quando sarebbe stato possibile recuperarlo, visto che quella bambina era diventata nel frattempo qualcos’altro…

G: Mi dispiace che questo “incompiuto” ti angosci tanto.

L: Altri ritratti incompiuti di me lo sono nelle braccia, nel busto, in particolari del volto… non nel volto per intero… ma non è tanto questo che mi ha sconvolto. È essermi ritrovata senza lineamenti e, ciononostante… essermi riconosciuta. […] L’infanzia non esiste?

G: Che vuoi dire?

L: Davvero non esiste niente e nessuno sulla terra, nessun genio del pennello che possa catturare una volta per tutte questa “eterna criança” che sonnecchia dentro di noi (ti sto citando Pessoa)? Davvero non c’è nessuno che possa impedirci per sempre di invecchiare? Di morire?

G: Forse.

L: Mi… mi sono ricordata di una storia di Paperino (sì, un altro fumetto, ma non di quelli che facevi tu) dove Paperino si ritrova tra esseri primitivi, senza volto… un po’, quella storia mi faceva impressione… Non so…

G: Cosa c’entra?

L: C’entra. Perché non mi hai terminata?

G: Come dipinto o come figlia?

L: Non lo so… io… io non ho un’immagine plausibile della mia infanzia. C’è una falla, in quel punto…

G: Ma se ti abbiamo fatto milioni di fotografie… del 1963, per esempio, ce n’è un cassetto pieno…

L: Non è la stessa cosa, e lo sai benissimo. Mi hai fatto anche altri ritratti, ma non c’entra. È come se, come padre, non mi avessi del tutto generata, se ti fossi rifiutato di farlo per intero, o quantomeno nel modo a te più congeniale… perché? Perché, accidenti? Forse perché mi avresti dovuto dipingere come dalla luna, dalla tua prospettiva… irraggiungibile?

G: Alludevi a questo, quando dicevi che c’era qualcosa che mi avrebbe sorpreso, come al vecchio padre del piccolo scrivano?

L: Non lo so. Tu rispondi a quello che ti ho chiesto io.

G: Non lo so. Forse, non ho finito di ritrarti per lo stesso motivo per cui, da un certo punto in poi, tu hai smesso di disegnare…

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