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Mondi POPAnimazioneI riferimenti occidentali in 'Si alza il vento' di Miyazaki

I riferimenti occidentali in ‘Si alza il vento’ di Miyazaki

Hayao Miyazaki è uno dei giganti della storia dell’animazione. La sua grandezza trascende i limiti di genere o disciplina e lo rende una figura capitale della cinematografia tout court. Prova ne siano L’Orso d’Oro di Berlino nel 2002 e l’Oscar ottenuto nel 2003 per il film La città incantata, il Leone d’Oro alla carriera ricevuto alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2005 e l’Oscar alla Carriera conferitogli l’8 novembre 2014.

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miyazaki oscar Governors Awards
Miyazaki riceve l’Oscar alla carriera

Schematizzando brutalmente, tra i temi fondamentali delle sue opere possiamo annoverare il rapporto tra l’Uomo e la Natura (e il ruolo che la tecnologia svolge in esso), il magico stupore dell’infanzia, la coscienza ecologica, l’importanza poetica e sociale della figura femminile, il senso dell’arte. Alti ideali, contrapposti ad una visione della storia umana delineata come una incessante lotta ferina, sempre sul bilico di una possibile apocalisse autodistruttiva.

Il suo ultimo film Si alza il vento è un testamento poetico, un commiato commovente e definitivo dalla creazione artistica. Se a una visione superficiale il film potrebbe apparire una storia d’amore ambientata agli albori del secondo conflitto mondiale, si tratta invece di una profonda riflessione sul senso dell’arte e dell’esistenza. Gli ammiratori dell’autore non troveranno i tòpoi dell’immaginario miyazakiano: principesse guerriere, bambini costretti a divenire eroi, trasformazioni magiche, oggetti che si animano, animali parlanti, personaggi grotteschi o mostruosi della mitologia popolare giapponese. Figure ricorrenti che risultano esotiche o bizzarre variazioni fantastiche al nostro sguardo occidentale, ma che in realtà corrispondono a un rigoroso sistema archetipico di riferimento nella cultura giapponese. O meglio, questi tòpoi sono in parte presenti, ma traslati in una cifra di segni comprensibile e familiare (almeno dovrebbero esserlo) allo spettatore occidentale. Il film è, di fatto, costruito su un complesso reticolato di citazioni e riferimenti interni, che hanno come paradigma di ispirazione la cultura occidentale di fine ‘800/­inizio ‘900.

Affronteremo, dunque, i principali tra i numerosi riferimenti presenti nell’opera.

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Il film è una sorta di trasfigurazione poetica della vita di Jiro Horikoshi, l’ingegnere aeronautico inventore, tra l’altro, dei celebri Zero, i potenti aerei destinati a diventare l’arma di (auto)distruzione dei famigerati kamikaze. Parallela alla narrazione dei suoi straordinari progressi creativi, scorre la tragica storia d’amore con l’adorata moglie Nahoko, gravemente malata di tubercolosi. Importante è sottolineare come l’ispirazione – apparentemente peregrina – del racconto sia in realtà intrisa di intimi richiami autobiografici: il padre di Miyazaki era proprietario di una fabbrica di componenti per aerei (tra cui appunto gli Zero) e la madre, affetta da tubercolosi spinale, rimase per quasi un decennio in sanatorio. L’autore stesso, prima di dedicare la sua vita all’animazione, studiò come progettista nel medesimo ambito di Horikoshi.

Miyazaki in questo film fa i conti con quello che poteva essere e non è stato, con i nodi interiori irrisolti della sua esistenza, fino a scavare nei recessi psichici della sua famiglia. La contraddizione esistenziale è uno dei temi cruciali del film. Tutto è contrasto, stridore, antinomia: tra l’innocenza gioiosa della creatività e l’utilizzo distruttivo a cui può essere distorta, tra l’anelito alla pace e l’ineluttabilità della violenza, tra l’aspirazione ideale alla bellezza e l’orrore della realtà (rappresentato dai disastri naturali, la morte, la guerra).

L’omaggio all’arte occidentale non si manifesta solo nella cifra stilistica (negli sfondi è costante il riferimento agli Impressionisti e ai Macchiaioli), ma anche concettuale – in almeno quattro opere:

Il Cimitero Marino di Paul Valéry

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Citazione centrale del film, dall’inizio alla fine e per tutto il racconto, è il riferimento al poemetto Il Cimitero Marino, capolavoro del poeta francese Paul Valéry. Lo stesso titolo del film è una citazione dal primo verso dell’ultima strofa del poemetto, che ne riassume il significato. Il poema evoca, con suggestioni rarefatte e a tratti ermetiche, una meditazione sul senso della vita all’interno del cimitero menzionato (dove riposavano i genitori dell’autore). La contemplazione di ciò che non è più, le poetiche considerazioni sulla vanità del tutto, vengono interrotte dal roboante suono della burrasca. Il poeta è destato dall’irruenza della natura stessa, che può contemplare (dal luogo di morte) in tutto il suo furioso splendore. Dunque, il poema si chiude con un invito ad abbandonare le fantasticherie letterarie e a vivere intensamente la vita.

Fondamentale è ricordare come il poema sia una trasfigurazione nel ricordo: Valéry (che amava quel luogo fino ad eleggerlo come luogo della sua sepoltura) scrive il poemetto nel 1920, trentasei anni dopo l’ultima visita. I versi del poema attraversano come un leitmotiv ossessivo e illuminante tutto il film di Miyazaki. Fin da subito si rivelano come il codice di riconoscimento tra Jiro e i suoi più cari interlocutori: l’ingegnere italiano Caproni (modello d’ispirazione e messaggero onirico) e l’amata fanciulla Nahoko, ritornando come sintesi conclusiva del messaggio finale. La poesia come parola d’ordine, mantra e testamento.

La Montagna Incantata di Thomas Mann

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Altro riferimento palese del film è il romanzo La Montagna Incantata di Thomas Mann. L’opera del grande scrittore tedesco è ambientata in un sanatorio per tubercolosi, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, e mette in scena, sotto forma di confronto e dialogo continuo tra i personaggi, il grande e tragico fermento intellettuale di quegli anni.

I legami tra le due opere, anche in questo caso, sono dichiarati esplicitamente. Jiro incontra un affabile signore tedesco nell’albergo di Karuizawa, dove quest’ultimo assisterà come testimone della nascente storia d’amore con Nahoko. Questo personaggio, saggio e benevolo fautore della pace, si chiama Castorp, lo stesso nome del protagonista del grande romanzo tedesco, ed è egli stesso ad esplicitare la citazione nella conversazione. Castorp ha un ruolo di vero e proprio crocevia narrativo: desta la coscienza del protagonista all’incombente conflitto mondiale, svela uno degli aspetti del ricco sottotesto (la denuncia della guerra), e rende possibile la dichiarazione di Jiro a Nahoko e il loro successivo matrimonio.

Molto interessante come il ruolo del personaggio rappresenti un’evoluzione, quasi un capovolgimento dell’originale: nel romanzo di Mann, Castorp è in realtà un duplice discepolo, nel senso che assiste con vivo interesse e apprendimento ai confronti intellettuali tra il massone Settembrini e il gesuita Naptha; nel film di Miyazaki (come se apparisse al termine del percorso compiuto nel romanzo di formazione) il personaggio è trasformato da inquieto e ricettivo discepolo a discreto e malcelato maestro. Il suo incontro è preludio alla felicità dell’amore ma anche alla sua ineluttabile fine tragica. Il momento di massima felicità, in cui Nahoko accetta la dichiarazione di Jiro, coincide col drammatico annuncio della malattia: la felicità nasce sulla consapevolezza della precarietà umana. Non è un caso che immediatamente prima di questa scena commovente, sia proprio Castorp a guidare un canto collettivo con Jiro e il papà di Nahoko. Un canto che suona gioioso ma che in realtà è un cupo presagio dell’evoluzione tragica della storia. Il brano è Das gibt’s nur einmal, colonna sonora de Il Congresso si Diverte, un film tedesco non particolarmente significativo che però ha due interessanti motivi di attinenza con l’opera: parla di vicende collegate a un tragico sommovimento storico (gli anni del congresso di Vienna), con protagonista una giovane ragazza. Una storia apparentemente fiabesca che si traduce in tragico fallimento. Le parole della canzone non possono essere casuali: «accade una volta nella vita/ non accade di nuovo/ potrebbe essere solo un sogno/ può accadere/ solo una volta nella vita/ potrebbe essere domani mattina la sua scomparsa/ può accadere/ solo una volta/ come vi è un solo maggio in primavera.»

L’isola dei Morti di Arnold Böcklin

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Una delle citazioni più sfuggenti ma significative è l’apparizione del dipinto L’Isola dei Morti di Böcklin. Il quadro è immediatamente riferito alla citazione ricorrente da Valèry (come nel poema, protagonista è un cimitero sull’acqua), è collegato all’Italia come luogo onirico (l’ispirazione fu una visita al Cimitero degli Inglesi a Firenze) e rappresenta un funesto presagio dello sviluppo della narrazione.

C’è un altro aspetto che non può essere involontario: questo quadro, divenuto simbolo della tensione spirituale dei circoli intellettuali di inizio Novecento, era tra i preferiti di Adolf Hitler (ombra minacciosa su tutto il film), che ne possedeva una versione originale. Il supremo artefice della Morte che contempla l’approdo all’Isola dei Morti. Ancora una volta il tema della commistione tra l’Arte e il Male.

Il viaggio d’Inverno di Franz Schubert

Un’altra citazione avviene quasi a metà film. Mentre Jiro e il suo amico e collega Honjo camminano per le strade di Dessau per distrarsi, mortificati dall’arretratezza tecnologica del loro paese, il protagonista si ferma rapito ad ascoltare la musica che proviene da una finestra. Si tratta di Winterreise (Il viaggio d’Inverno), il più celebre ciclo di lieder di Franz Schubert. Anche in questo caso la citazione viene sottolineata ed illustrata dall’autore («descrive proprio la nostra situazione», commenta sconsolato Honjo) e vale senza dubbio la pena approfondire.

In primo luogo anche questa opera rappresenta una sorta di commiato artistico, poiché Schubert la terminò nel suo ultimo anno di vita. Come nella poetica di Miyazaki, inoltre, l’opera rappresenta uno straordinario sforzo mimetico di restituire la Natura nella sua cangiante complessità. Protagonista dell’opera è un Wanderer, un romantico vagabondo che erra in un panorama notturno incontrando figure dall’innegabile valore simbolico. Il viaggio descritto è chiaramente interiore. Per quanto l’opera sia considerata un’icona della musica romantica (è composta su testi di Wilhelm Muller, poeta di dichiarata ispirazione byroniana), il suo valore è universale e attraversa tutte le epoche. Alcuni critici evocano suggestioni dantesche, ma in realtà la sensibilità dell’opera è intimamente moderna. Ascoltandolo, sembra quasi di immaginare Franz Kafka vagare di notte per le strade di Praga, circa un secolo dopo.

Ciò che ci interessa è evidenziare l’attinenza simbolica della citazione. Come Jiro, il protagonista è un ricercatore di bellezza e verità nelle lande ghiacciate di una notte d’inverno (evidente metafora dei tempi oscuri del conflitto mondiale). Tra le poche creature viventi che incontra, nel desertico panorama ghiacciato, appare un solo essere umano (forse un doppio del protagonista): un vecchio suonatore d’organetto, nascosto dal villaggio, che continua a suonare il suo strumento, perfettamente consapevole che nessuno lo ascolterà. Testualmente: «Nessuno l’ascolta, nessuno lo vede, / e ringhiano i cani intorno al vecchio. / Indifferente a tutto lui gira, gira, / l’organetto mai non tace. / Vecchio misterioso, e se venissi con te?/ Accompagneresti i miei canti col tuo organetto?.» Questa citazione volante, a metà film, illumina perfettamente il senso di tutta l’opera. L’arte, la bellezza, anche se destinata all’oblio, alla distruzione (Jiro commenta a Caproni sconsolato che «non ne è tornato nemmeno uno») comunque illumina il senso della vita col potere redentivo del suo splendore.

Conclusione

Anche se il percorso è destinato al fallimento, nella via stessa, nella ricerca della bellezza e della verità, la vita assume il suo senso assoluto, laicamente sacro. Siamo dalle parti de La Ginestra leopardiana, che spunta comunque sulle pendici desertiche del Vesuvio nonostante sia condannata a una morte certa. Respiriamo la stessa aria del Sisifo di Albert Camus, che pur essendo consapevole della ineluttabile inutilità della sua fatica è comunque felice, perché assume su di se la responsabilità del suo destino.

Tali vertigini filosofiche al cinema le ha toccate, a mia memoria, solo il finale dell’Andrej Rublev di Tarkovskij, in cui arte e innocenza si uniscono nello stupore d’un miracolo artistico e in cui il potere della bellezza compie quello, interiore, di miracolo: perdonare se stessi e riaprirsi alla creazione.

Approfondire i messaggi nascosti ci porta dunque a comprendere la portata del testamento di Miyazaki: il lascito memorabile di un colosso contemporaneo.

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