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Il fallimento estetico di Charlie Hebdo

Sulla querelle riguardante il premio a Charlie Hebdo dal PEN American Center – costituita da scrittori ed editori in favore della libertà di stampa – avevamo già scritto.

In breve: un gruppo di componenti del PEN ha protestato contro l’assegnazione del premio, spiegando che «la nostra preoccupazione è che, concedendo il Toni and James C. Goodale Freedom of Expression Courage Award a Charlie Hebdo, il PEN non sta solo esprimendo supporto alla libertà d’espressione, ma anche valorizzando materiale offensivo in modo selettivo: materiale che intensifica i sentimenti anti-islamici, anti-Maghreb, anti-arabi già diffusi nel mondo occidentale.»

Alcuni scrittori, però, fra cui i fumettisti Neil Gaiman, Art Spiegelman e Alison Bechdel, si sono offerti di sostenere la rivista e di rimpiazzare i colleghi che hanno preferito abbandonare la cerimonia.

pen charlie hebdo

Il giornalista Jeet Heer, su The New Republic, ha cercato di spiegare quali siano i punti deboli di questa scelta e della testata satirica. Secondo Heer, chi difende il premio sostiene la nozione per cui fumetti che possono sembrare razzisti siano in realtà anti-razzisti se contestualizzati nel giusto modo.

Cercano di combattere il pregiudizio dandogli espressione. Il fautore di questo approccio fu Lenny Bruce, il comico che negli anni Sessanta difese l’uso della parola ‘negro’ come modo di epurare l’odio contenuto nel termine: «C’è qualche lurido negro qui stasera?» chiedeva, per poi continuare spiegando che «È la repressione della parola che le dà violenza, forza, malvagità. Se il presidente Kennedy in televisione dicesse: “vorrei farvi conoscere tutti I negri del mio gabinetto e continuasse a urlare ‘negronegronegronegro’ finché ‘negro’ non significa niente”, allora non vedreste più piangere un bambino di sei anni perché qualcuno a scuola lo ha chiamato negro».

L’uso del razzismo con intenti anti-razzisti venne poi copiato da Richard Pryor, Mel Brooks e Robert Crumb, che con la sua Angelfood McSpade distillò ogni stereotipo razzista in un solo personaggio. Proprio il lavoro di Crumb diventò fonte d’ispirazione per la rivista francese, anche se non tutti sono d’accordo sull’uso del razzismo a fini satirici.

Art Spiegelman, in un’intervista a The Comics Journal del 1995, disse che c’erano modi più intelligente di ragionare sul razzismo rispetto a come facevano Bruce e Crumb: «Se potessi costruirmi un’immagine di Crumb, toglierei un po’ di quelle stronzate».

Anche Françoise Mouly, moglie di Spiegelman e art editor sul New Yorker, ha appoggiato il premio dichiarando che la rivista è stata cruciale per la sua formazione culturale: «Quando ero giovane, leggevo Charlie Hebdo per i fumetti. Il loro coraggio mi formò. Ebbero molta influenza sulla mia psiche da adolescente» ha dichiarato al Washington Post, spiegando però che il loro stile aggressivo non sempre era efficace: «Da ragazzina, leggere Charlie Hebdo mi dava una sensazione di inadeguatezza. Mentre io ero una giovane donna, negli anni settanta, loro parlavano di femminismo: le donne erano il loro obbiettivo principale. Era roba sgradevole, per niente divertente, e sessista».

Charlie Hebdo

Per Heer, Charlie Hebdo è colpevole di usare, nel 2015, una strategia rappresentativa che funzionava negli anni Sessanta e che molti (Crumb compreso) hanno ormai abbandonato. Il vero peccato del giornale non è il razzismo, ma il fatto che «il loro sviluppo artistico sia bloccato». Un fallimento estetico grave, visto che le vignette politiche devono sempre essere al passo coi tempi e consapevoli delle conseguenze delle loro immagini.

Manca poi un vero discorso su come i fini e l’estetica di Charlie Hebdo siano agli antipodi. Il critico prende a esempio una copertina in cui donne nigeriane, che l’organizzazione terroristica Boko Haram usava come schiave sessuali, urlano: «Non toccate i nostri benefici!». Il sito Understanding Charlie Hebdo spiega che in realtà il bersaglio della vignetta sono i francesi benestanti, che si sono visti toccati nei loro benefici per le famiglie numerose. Il senso dell’immagine, quindi, è di mostrare come, rispetto a quello delle donne nigeriane, il problema dei francesi sia un problema da primo mondo.

«Il problema è che se accettiamo questa interpretazione, non si capisce quale sia l’impatto dell’immagine. Le figure rappresentate – disegnate in maniera grottesca per attirare l’attenzione sulla loro espressione facciale – non sono donne francesi, ma nigeriane rapite e stuprate. Il lettore vede questo. Come spesso succede nella rivista, l’impatto visivo è diverso dai suoi intenti».

La libertà d’espressione, dice Heer, merita di essere protetta e la redazione merita di certo un premio per il coraggio. «Ma non facciamo alcun favore agli artisti se ci asteniamo dal criticare il loro lavoro. I fumettisti di Charlie Hebdo devono essere presi sul serio come artisti, il che significa che il fallimento estetico del loro razzismo anti-razzista deve essere riconosciuto».

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