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FocusCome si disegna un soldato

Come si disegna un soldato

Come si disegna un soldato? Un soldato al fronte, che aspetta, uccide, muore. Perché per raccontare la guerra a fumetti bisognerebbe partire da qui, dai segni che danno forma a chi si trova a combatterla. Parliamo della guerra vera, non dei campi di battaglia che nei canonici fumetti d’avventura sono il territorio della prova, dove germogliano le imprese e si materializzano le fantasie di potenza adolescenziali. Lì non si tratta tanto di raccontarla, quanto piuttosto di “giocare alla guerra”, di metterne in scena il mito e le metafore, addomesticarla all’immaginazione o, nel peggiore dei casi, alla propaganda.

Sarebbe inutile cercare la misura di quanta “realtà” i diversi autori hanno voluto lasciar filtrare nella loro rappresentazione, così come non ci si dovrebbe accontentare di applaudire qualunque narrazione si dichiari, senza sforzo, pacifista. Vale la pena però di segnalare alcuni autori che si sono immersi in quel pozzo estremo dell’esistenza, ne hanno guardato l’assurdità e l’orrore, e hanno cercato di trasformarlo in racconto per immagini.

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grande guerra sacco

La moda sfiancante dei centenari e delle celebrazioni produce in questi mesi pile di libri dedicati alle due guerre mondiali. Tra quelli disegnati, spicca La Grande Guerra di Joe Sacco (Rizzoli, 2014), e non solo per la singolarità cartotecnica. Il volume è una serie di ventiquattro tavole in bianco e nero piegate a fisarmonica tra due supporti rigidi: un leporello. Insieme, le tavole formano un’unica illustrazione muta di sette metri che, nella continuità spaziale, scandisce le ventiquattro ore del 1° luglio 1916, ovvero, come recita il sottotitolo, il primo giorno della battaglia della Somme. Il panorama ricostruisce i movimenti delle truppe britanniche, comincia con la passeggiata di un generale e finisce con le colline piene di croci. In mezzo, risultato di una documentazione meticolosa (niente stimola l’impegno filologico come la rappresentazione della guerra), ci sono i soldati che marciano ignari di quello che li aspetta, il muto frastuono dei cannoni, le cariche fallimentari, le trincee che si riempiono di morti e gli ospedali da campo dove si aspettano le cure invano.

Joe Sacco è un giornalista con la matita, e i conflitti armati del presente li ha visti coi propri occhi, attraversati e toccati nell’incontro aperto con le persone che li vivono. I suoi reportage dalla Bosnia e dalla Palestina sono fitti di voci, ognuna degna di essere ascoltata, di interrogativi che non cedono nulla all’urgenza omologatrice della notizia e di volti, ciascuno dei quali offerto come irripetibile e partecipe ricerca di umanità. In questo libro limita le sue parole a una breve prefazione, lasciando i commenti al saggio introduttivo di Adam Hochschild, e questa guerra lontana del tempo, shock supremo che si riverbera su quelle successive, sceglie di mostrarla a volo d’uccello: niente personaggi, ma centinaia di piccole figure.

Le storie individuali, dissolte in quella collettiva, sono così offerte alla responsabilità dello sguardo. Gli occhi cercano un percorso tra le truppe, saltano da un fante all’altro sforzandosi di fissare qualche gesto, scorrono alle pagine successive, fino a quando tra le esplosioni non si vedono i primi morti. Mentre le mani si muovono a dispiegare e riavvolgere il leporello, il movimento delle truppe diventa confuso, e quanto più si cerca di concentrasi sul singolo episodio – il ferito appeso alla gamba del compagno, il fante che si guarda intorno scoprendo di essere rimasto solo… –, tanto più la massa, come un unico corpo agonizzante, riassorbe ogni elemento. Il coinvolgimento e la commozione assumono il ritmo di questa reversibile vertigine dal singolare al collettivo. Ci si identifica solo con la propria visione che ondeggia nella progressione lineare del panorama.

Della disastrosa offensiva lanciata dal Comando inglese, come di tutta la Grande Guerra, sono i numeri (21.000 caduti nella prima giornata, solo tra i britannici) che schiacciano l’immaginazione. È anche per estrema coerenza da reporter che Sacco disegna i soldati che non ha potuto incontrare come un’unico organismo. Ma è nello sforzo di dare un corpo reale a ognuno di quei “numeri” e verità a ogni piccolo gesto che pulsa il cuore – etico, estetico – del suo lavoro.

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guerra tardi

Era la guerra delle trincee di Jacques Tardi è per Joe Sacco l’opera definitiva sulla Prima Guerra Mondiale, quella da tenere presente ma con la quale evitare ogni confronto. Uscito negli anni Novanta (e tradotto in italiano nel 2013 da Edizioni BD), il libro è un flusso di episodi ambientati sul fronte francese, e rappresenta forse il vertice di un autore che continua a tornare sul racconto di quel conflitto con intatta furia poetica.

La narrazione è serpeggiante, con le storie che si susseguono, senza cesura, tra le retrovie e la terra di nessuno. Narrazione a forma di trincea, che descrive il conflitto come un labirinto di cui non si vede l’uscita, privo di senso e direzione. Tardi nega al lettore la consolazione di una cronologia lineare, confonde la successione dei suoi racconti, per rendere l’inerzia della guerra di posizione, come a dire che in fondo non c’è la pace. Ma, soprattutto, riesce a rappresentare una claustrofobia esistenziale che è del tempo come dello spazio, dove la vischiosità della morte onnipresente lascia emergere brandelli di memoria, disperati slanci di solidarietà, l’elementare voglia di sopravvivere. Soldati costretti a strisciare, come insetti tra gli insetti, vittime dell’arbitrio ottuso di ogni manifestazione di potere, come disegnarli? Come esseri umani. Tardi sfida l’abbrutimento della paura, della malattia e della sporcizia, trova l’uomo nell’attenzione che dedica al suo aspetto fisico, nel rispetto che tributa alle sue espressioni. E quando rappresenta la morte, si aggrappa ancora più forte alla realtà dei corpi. Se disegna le budella che escono da un ventre esploso o un arto mutilato, dona a quella frazione del corpo la stessa precisione di un volto, senza concedere niente al gusto dell’orrore. Forte di questo equilibrio nella violenza della rappresentazione, Jacques Tardi si è inserito in una ricca tradizione letteraria – Céline, Dorgelès, Barbusse, Chevallier, Cendrars per citare i maggiori tra i francesi – e gli ha dato sostanza figurativa. Perché, per quanto nutrita di libri e di storie, all’origine della sua lettura della guerra c’è una spinta maggiormente personale e, insieme, universale: quella di una rabbia di fronte all’ingiustizia controllata per mezzo del rigore estetico, e poi fatta filtrare, poco a poco, nelle macchie nere e nel grigio fangoso dell’inchiostro.

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kurtzman frontline combat

Questa libertà di confrontarsi apertamente con la Storia il fumetto non l’ha sempre avuta, e gli autori che ne sentivano la necessità si confrontavano con un sistema e con un orizzonte di attese molto diverso. Può essere il caso di Harvey Kurtzman – in seguito punto di riferimento per il rinnovato fumetto americano, da Crumb a Spiegelman – che all’inizio degli anni Cinquanta dirigeva due antologie bimestrali: “Two-Fisted Tales” e “Frontline Combat”. Non graphic novel per lettori adulti, ma albi economici che finivano tra le mani di migliaia di adolescenti in tutti gli Stati Uniti, subito prima che la censura si abbattesse, stravolgendola, sull’industria dei comic books. Insoddisfatto del suo lavoro sui fumetti horror – perché poco a suo agio con il soprannaturale e decisamente a disagio con gli eccessi di compiacimento sadico – Kurtzman ottenne dal suo editore, il più all’avanguardia dell’epoca, di dedicarsi al fumetto bellico. L’obiettivo esplicito era mostrare la guerra “com’è realmente”, dire ai ragazzi la verità. Più che una posizione politica ideologicamente definita, c’era alla base un senso di responsabilità civile, un’attitudine che consentì allora di passare tra le maglie della censura, e che oggi mantiene intatta la forza di molti di questi fumetti.

Come nei fumetti dell’orrore, anche qui mancava il lieto fine, ma erano pur sempre avventure: la documentazione era accurata come mai prima, gli intrecci spietati nella loro calibrata concisione e i personaggi insolitamente credibili. Tanto bastava a sostenere, neanche troppo tra la righe, messaggi sconcertanti: in guerra non ci sono eroi, l’identificazione del nemico è spesso una questione di prospettiva, questioni come il razzismo o le differenze di classe non rimangono a casa e il progresso tecnologico rivela il suo lato più oscuro; in guerra si distrugge, si ha paura e si muore, in genere soli. Convinzioni per nulla scontate, tanto più che, passando di guerra in guerra (le mondiali o la Secessione, Napoleone o gli indiani d’America), l’autore americano si sofferma con insistenza su quella di Corea, un conflitto in corso che il Governo e i media continuavano a chiamare “azione di polizia”. È nell’ambiente di questa guerra che il suo smantellamento della retorica bellica si radicalizza, e sono le storie coreane quelle che preferisce realizzare senza l’aiuto di altri artisti. Così esatto nel rendere tangibile la presenza della morte, i suoi soldati Kurtzman li disegna come se la vita li scuotesse da dentro, circondati e attraversati da spesse linee nere in dinamica tensione. Allora non deve essersene accorto nessuno, ma era la nascita di un nuovo realismo, di una sintesi che trovava una terza via tra i canoni del fumetto avventuroso e di quello umoristico per liberarsi da miti posticci e stabilire, proprio sul versante più buio dell’esistenza, una diversa triangolazione tra l’intrattenimento, la pedagogia e la sincerità. Oscillanti tra la fredda ironia del caso e le invocazioni alla pietà per i morti, questi fumetti sono l’opera di chi lotta per definire la propria responsabilità di narratore, la stessa che per Tardi e Sacco sarà un dato acquisito. Più in là, c’è solo la testimonianza del reduce.

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nobile morte mizuki

Un sopravvissuto racconta «per conto terzi», lo spiega Primo Levi in I sommersi e i salvati, e lo sa Shigeru Mizuki, tornato senza un braccio dalla guerra del Pacifico. Nella postfazione a Verso una nobile morte, uscito nel 1973 e tradotto in italiano nel 2013, scrive: «I morti non hanno mai potuto raccontare la loro esperienza della guerra. Io, sì. E, mentre disegno, sento una collera inarrestabile che mi sommerge. Senza dubbio sono quegli uomini, morti tanti anni fa, a ispirarmi questo terribile sentimento». Il maestro giapponese racconta la guerra al suo parossismo, quella degli attacchi suicidi dai quali nessuno, per l’onore della Patria, doveva tornare indietro, quella degli esseri umani ridotti a strumenti del delirio militarista. La base autobiografica – con dentro la rabbia, il dolore e il senso di colpa – si sgretola dentro un quotidiano governato dal sopruso e dal fanatismo. Più che una denuncia contro la guerra, Verso una nobile morte è una maledizione lanciata con gli occhi aperti e chiusa nel più terribile dei finali, quasi il sacrificio dell’autore messo in scena con lucida, inesorabile consapevolezza. E i soldati? Mizuki li circonda con una linea sintetica, grottesca che trattiene la residua umanità dei volti, mentre la natura è resa in un fotorealismo abbacinante, che pulsa di vita e di paura. Potrebbe essere la giungla mostrata da Terrence Malick nella Sottile linea rossa, ma qui più oscura e separata in un’alterità non raggiungibile: il legame tra uomo e natura è interrotto. Almeno fino al momento della morte, quella totale dell’ultimo, inutile attacco, quando anche il disegno dei corpi diventa atrocemente mimetico, come se, cadaveri, i soldati da oggetti tornassero natura.

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Possono esserci molti e diversi motivi che spingono a realizzare, o a leggere, un fumetto sulla guerra; può anche darsi che se ne facciano troppi: non è una cosa facile da scrivere né da disegnare. Joe Sacco, nella Prefazione alla sua illustrazione della battaglia della Somme, indica il solo obiettivo ineludibile: «Non ho avuto modo di criticare gli stati maggiori o di elogiare il sacrificio dei soldati. È stato un sollievo non doverlo fare. Ho potuto solo mostrare cos’è accaduto tra il generale e le tombe, e sperare che anche dopo un centinaio di anni il cattivo sapore non ci sia scomparso dalla bocca». Starebbe poi ai lettori sapere cosa fare di quel retrogusto amaro.


Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Lo Straniero n.179 del maggio 2015.

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