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Il mecha design in Miyazaki

Qualche giorno fa ero in sala stampa a una conferenza internazionale e mi sono messo a chiacchierare con dei giornalisti stranieri. I giornalisti provenivano un po’ da tutte le parti del mondo e alla fine mi sono trovato a chiacchierare per un po’ con una giornalista giapponese, di nome Maiko.

La cosa più divertente delle quattro chiacchiere con i giapponesi è che non sai mai dove vai a finire: un po’ perché utilizziamo una lingua intermedia (l’inglese) che nessuno di noi domina completamente, un po’ perché i punti di contatto culturali (e le distanze incolmabili) sono meno scontati che con altri popoli. Mentre con un Australiano, per dire, o con un Sudafricano, si finisce a parlare più o meno delle solite cose (vacanze, sport, tecnologia) condividendo la stessa prospettiva “occidentale” sul mondo e sensibilità simili, con un suddito dell’Impero del Sol Levante magari si parla di manga e di anime. Scoprendo che abbiamo un vissuto comune molto più intimo di quanto la totale separatezza degli universi dei nostri radicali e dei nostri etimi non lascerebbe sospettare.

A metà del discorso con Maiko, mentre incespicavo sul tentativo di spiegare perché uso come icona un gatto nero, salta fuori che l’animale preferito di Maiko è il mostro-tarlo di Nausicaa della Valle del vento.

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Ora, se c’è un animale che a me non verrebbe mai in mente, neanche alla seconda bottiglia di grappa, è il mostro-tarlo. Magari penserei al piccolo Teto, quel cucciolo che è una via di mezzo tra una volpe e uno scoiattolo che viene regalato a Nausicaa da Lord Yupa all’inizio della storia. Il mostro-tarlo invece (in originale si chiamano Ohmu, cioè più correttamente O-Mushi, cioè “re degli insetti”), che poi è l’esponente principale del mondo alternativo, corrotto e radioattivo della Giungla Tossica e del Mare della Putrefazione, sta in una categoria tutta sua. È un richiamo esplicito ai vermi della sabbia di Dune, veri protagonisti del colossale ciclo di romanzoni di Frank Herbert (che tutti citano ma che solo pochi di noi hanno letto a suo tempo, restandone azzoppati per sempre).

Gli Ohmu hanno la caratteristica di essere sempre creature allo stato larvale, con questi giganteschi esoscheletri dotati di decine di occhi coperti da una membrana rigida e trasparente che dopo la loro morte viene utilizzata come oblò o finestra dagli esseri umani. Gli occhioni di queste creature mostruose (in realtà dotate di una loro volontà e visione del mondo, perché l’idea di Miyazaki è che la vita sia una cosa complessa, non un banale “bianco vs nero”) sono di solito azzurri come il loro sangue, ma quando si arrabbiano diventano rossi come fari che proiettano odio e paura.

Gli Ohmu sono l’anello di congiunzione tra il design “animale” di Miyazaki e il mecha-design, aspetto che per me rimane uno dei meno approfonditi e più significativi in circolazione. Non ho voglia di andare troppo avanti con il tempo e con la storia, anche perché Miyazaki con la tripletta Nausicaa, Lupin e il Castello di Cagliostro e Conan il ragazzo del futuro si è conquistato a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta uno spazio che vale l’intera carriera della maggior parte dei mangaka in circolazione. Tuttavia, con la collega giornalista giapponese il tema della conversazione si è rapidamente spostato su altri aspetti.

Ad esempio sull’emblema della leggerezza, definito dal Mowen (detto anche Moen), l’ala volante di Nausicaa. Da piccolo avevo assemblato il modellino della Bandai (una meraviglia) che il vento del tempo poi si è mangiato. Costruirlo era stato un piacere (oltre che una gran soddisfazione, perché si trattava di un modello “facile”) e il risultato era stato illuminante per capire la complessità del mecha-design nipponico. Dopo i robottoni di gomma dell’infanzia (Goldrake e varie incarnazioni di Mazinga, più una Match Patrol pressofusa leggendaria), questo era stato il mio viatico dentro un mondo di complessità e ricchezza crescente, sfociato nei modelli delle Mobile Suit di Gundam e compagnia, che sono un mondo a se stante – a mio avviso insuperato.

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Maiko, che deve aver intravisto l’otaku neanche troppo sepolto in me, comunque ha retto bene e ha dimostrato che l’esposizione alla versione originale dei manga e degli anime aiuta a superare anche le barriere di genere. Dopotutto, il personaggio di Nausicaa è anche una creatura piuttosto particolare, per come è stata concepita da Miyazaki, mescolando folklore occidentale (Odissea) e orientale (La principessa che amò gli insetti). Sintesi di tre eroine femminili già rappresentate da Miyazaki (Clarisse di Lupin e il Castello di Cagliostro, Lana di Conan e il principe di Il viaggio di Shuna, manga mai tradotto in Italia che è la prova generale di Nausicaa,

Nausicaa (inteso come personaggio) è una ragazza non androgina ma sicuramente diversa da alcuni stereotipi della femminilità a cui siamo abituati. È un personaggio originale, che fa sintesi fortunata di qualità maschili e femminili, un’eroina capace di accettare, accogliere e trasformare il mondo, anziché sfidarlo, affrontarlo e sconfiggerlo, come farebbe invece un eroe maschile convenzionale, sempre alla ricerca dell’avversario da sconfiggere.

Lascio da parte la collega giornalista giapponese Maiko perché con lei non siamo andati oltre nel ragionamento. Però il pensiero, dopo l’ala volante ultraleggera, il Mowen, va necessariamente alla gigantesca nave volante che all’inizio del film si schianta nella valle di Nausicaa, portando i nemici di Tolmechia che uccideranno il padre di Nausicaa, il re Jihl, e rapiranno la ragazza. C’è, alla fine di Conan il ragazzo del futuro, una cosa simile, cioè il “Giganto”, il gigantesco aereo da guerra che Lepka fa decollare da Indastria con l’energia solare (e che verrà letteralmente smontato e distrutto pezzo-pezzo da Conan: è l’ultimo erede dei bestioni volanti che si vedono nella sigla iniziale e che hanno deposto le bombe termonucleari nel conflitto che ha distrutto la Terra). E in entrambi ci sono due velivoli “intermedi”: il Falco di Monsley e lo sgangherato velivolo usato dai valligiani.

Anche in Lupin c’è un momento di liberazione con un velivolo molto “tecnico”: l’anime è del 1978 ma ha il “sapore” dell’immediato dopoguerra (pur essendo ambientato nel 1967) per alcune scelte estetiche e tecniche operate già da Monkey Punch nel manga e riprese fedelmente da Miyazaki e dagli altri sia nelle serie televisive che nei film. A parte la pistola di Lupin (una Walther P-38 come James Bond) e la sua automobile (una Fiat 500 d’epoca), c’è infatti anche il volo di Fujiko Mine in tuta mimetica da combattimento con ali retrattili.

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Si sa della passione per il volo di Miyazaki, tanto si è scritto al riguardo (i cieli di Miyazaki sono una cosa che diventa eterna per un bambino che ne faccia esperienza guardando i suoi anime) e sia Porco Rosso che Kiki hanno abbondanza di scene di volo. Ma è il design degli oggetti volanti nella prima epoca dell’autore giapponese che definisce tutto il suo stile successivo.

C’è infatti nel giovane mangaka il richiamo al mondo degli insetti, sempre presente in Miyazaki come in molti altri autori nipponici non solo di robottoni: è un’estetica che va indietro nel tempo sino alle armature dei samurai passando per il giovanile amore per queste creature del “Dio dei manga” Osamu Tezuka e traccia un profilo di unicità di questa cultura visiva. Ma c’è anche studio e passione per l’aerodinamica, gusto per il “meccanismo” sia ottocentesco che novecentesco.

Infine, la capacità di sposare regni diversi, con il sapore dei meccanismi organici alla Giger sposato ai rivetti della torre Eiffel. Miyazaki sposa una via di mezzo che unisce disegno espressivo e sintetico, “povero” di particolari, a un design raffinato e attento invece alle minuterie e alle cose necessarie. Gli aerei e i mezzi volanti, per quanto di fantasia, di Miyazaki sarebbero capaci di funzionare se si avessero a disposizione i materiali (e i motori) adeguati.

La parte principale del mecha-design di Miyazaki secondo me sta negli oggetti che volano. Le altre centinaia di cose presenti nei suoi lavori fanno parte di uno sforzo di ricerca notevole e sempre improntano a un “realismo artificiale” che caratterizza tutta la sua ricerca visiva come autore grafico prima ancora che quella come narratore. Ma il volo, quello sì che firma in maniera indelebile le manifestazioni dei suoi sogni.


*Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio.

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