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FocusOpinioniTwelve Tomorrows e gli “ultimi tre” illustratori della sci-fi classica

Twelve Tomorrows e gli “ultimi tre” illustratori della sci-fi classica

Il mese scorso scrivevo di Twelve Tomorrows (TT), la bella rivista annuale di fantascienza edita dal MIT di Boston (in inglese: ma meriterebbe anche un’edizione italiana) che porta con sé, oltre a interessanti racconti di SciFi, anche le opere di un illustratore “storico” differente per ogni numero. Nel fascicolo d’esordio, che in realtà si chiamava The Best New Science Fiction (TRSF), l’illustratore prescelto era Chris Foss. Un colosso dell’immaginario fantascientifico. Nei numeri successivi sono stati chiamati in causa altri autori dal pennello magico che non gli sono certo da meno.

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‘Twelve Tomorrows’ annual 2014, copertina di John Schoenherr

Si tratta di Richard Powers (nel numero del 2013 curato da Neal Stephenson), di John Schoenherr (numero del 2014) e Virgin Finlay (nel numero del 2016, curato come il precedente da Bruce Sterling). I tre autori sono alquanto diversi tra loro come sensibilità e tecniche ma appartengono tutti allo stesso ricco, quasi sterminato filone degli illustratori di fantascienza americani che hanno fatto l’immaginario di tre generazioni a suon di copertine, pin-up, illustrazioni interne, riviste e scenografie per film. Un’epoca oramai passata, perché i ritmi e le modalità dell’industria culturale sono cambiati. Ma i tre (più Foss) sono ancora determinanti per riconoscere il nostro pensiero visivo e l’impatto che la letteratura a sfondo scientifico ha nella nostra società. Permettetemi quindi di presentarveli uno per uno.

Richard Powers, nato nel 1921 e scomparso nel 1995, è stato un vero e proprio artista oltre che un illustratore di fantascienza. I suoi lavori commerciali sono apparsi sulla copertina di oltre 1.200 romanzi. Prendendo dal surrealismo e dall’espressionismo astratto il suo stile molto personale e distinguibile ha enfatizzato sempre la tensione psicologica più che l’aspetto melodrammatico dei romanzi. Dal 2008 fa parte della Hall of Fame della fantascienza americana. La sua mano ha conservato per più di cinquant’anni uno stile unico che ha reso i suoi dipinti sempre riconoscibili: la sua produzione artistica è ben quotata e molti suoi quadri fanno parte di collezioni private.

Illustrazione di Richard Powers, per un'edizione del romanzo 'The man in the high castle' di Philip K. Dick.
Illustrazione di Richard Powers, per un’edizione del romanzo ‘The man in the high castle’ di Philip K. Dick.

Il discorso cambia in modo piuttosto radicale quando si parla invece di John Schoenherr, nato nel 1935 e scomparso nel 2010. È conosciuto soprattutto per essere stato il primo illustratore dei romanzi del ciclo di Dune di Frank Herbert e il suo tratto ha definito parte dell’immaginario dei vermi della sabbia e del duca Leto di Atreides (lo stesso Herbert, che non lo aveva mai incontrato, gli fece i complimenti sottolineando che le illustrazioni erano straordinariamente simili a come lui stesso si era immaginato il mondo di Dune).

In realtà Schoenherr era un pittore naturalista estremamente dotato e per quasi sessant’anni ha creato le sue opere con estrema attenzione ai dettagli e maniacale precisione nei particolari. Ha vinto il premio Hugo nel 1965 come miglior artista illustratore e nel 1988 la Caldecott Medal come illustrazione per l’infanzia. Nel 2015, infine, è entrato anche lui a fare parte della Hall of Fame della fantascienza americana.

Un'illistrazione di John Schoenherr per 'Dune'
Un’illustrazione di John Schoenherr per ‘Dune’

Pur avendo utilizzato svariate tecniche sia per i suoi lavori di illustrazione fantascientifica che nei libri per l’infanzia (oltre una quarantina) e in quelli di ambientazione naturalistica, Schoenherr è in realtà ricordato anche per essere uno degli artisti più dotati nell’uso della tecnica del graffito su cartoncino (quella che gli statunitensi chiamano “scratchboard” e che nel nostro Rinascimento si chiamava tecnica della “decorazione a sgraffio”).

Arriviamo infine all’ultimo dei tre artisti di questa rassegna tutta americana: Virgil Finlay. Nato nel 1914 e scomparso nel 1971, Finlay è stato un illustratore prolifico e geniale, caratterizzato da una tecnica estremamente ricca e dalla fantasia quasi sconfinata. In 35 anni di carriera ha creato più di 2.600 opere, che gli sono valse nel 2012 l’entrata nella Hall of Fame della fantascienza americana.

La caratteristica maggiore del suo talento, oltre che nei soggetti e nella capacità di arricchire le illustrazioni di particolari sorprendenti e molto contrastati, è nella tecnica. Ha lavorato su un’ampia gamma di materiali e con approcci diversi, dalla pittura ad olio sino al disegno a pastelli, ma è ricordato soprattutto per gli inchiostri neri, precisi e puntuali, per la tecnica del graffito, per la puntinatura, per il chiaroscuro e per le ombreggiature al tratto di raffinata eleganza.

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Un’illustrazione di Virgil Finlay

La sua opera, o almeno buona parte, è contenuta in una raccolta di otto volumi curati da Gerry de la Ree che ripercorrono sia l’esperienza di illustratore fantascientifico, copertinista raffinato e creatore di straordinarie tavole interne, che quella di illustratore per le riviste di astrologia, settore che abbracciò durante la crisi che il pulp di fantascienza americana e le riviste connesse cominciarono a incontrare a partire dagli anni Sessanta.

Questi tre autori, la cui poliedricità e complessità dovrebbe stupire chi si avvicina all’illustrazione fantascientifica pensandola solo nell’ottica del fumetto e di pochi autori del secondo dopoguerra, sono solo tre diamanti di un intero giacimento che affonda le sue radici negli anni Dieci del secolo scorso e che ha dato le basi alla parte visiva della cultura fantascientifica americana. I nostri tre autori fanno oltretutto parte dell’ultima generazione di questo periodo storico, che fa da ponte tra un mondo “antico”, quello delle riviste come Amazing Stories e Astounding Science Fiction, e il presente dell’illustrazione a tecnica digitale ben rappresentata anche in Italia.

I lavori di Powers, Schoenherr e Finlay abbracciano la “space opera” classica, la fantascienza eroica ma anche quella sociologica, più intimistica, più colta, sino ad avvicinarsi al passaggio del testimone dal rapporto tra l’uomo e l’alieno con quello tra l’uomo e la macchina, sempre più esplicitamente digitale, che caratterizza l’idea di futuro che stiamo sviluppando oggi.

Essere a cavallo tra due epoche vuol dire anche, come avevamo notato la volta scorsa con Chris Foss, che gli artisti selezionati come “ospiti” nei numeri della rivista TT del MIT di Boston sono quelli che cominciano a tracciare un segno su parte dell’immaginario contemporaneo: film come Guerre Stellari, Alien, Incontri ravvicinati del terzo tipo, ma anche alcuni passaggi di Superman e degli eroi Marvel di oggi nascono nei loro pennelli e con le loro spatole.

Il problema dell’attuale “forma” dell’industria culturale declinata nel segmento della fantascienza, che da un lato vede sempre più rilegato in un angolo il ruolo dell’illustratore e dall’altro fa emergere altre forme di narrazione (televisive, videoludiche, fumettistiche) comunque caratterizzate dalla prevalenza della computer grafica sul disegno e la pittura a mano, è di oblio. Il rischio cioè è quello di perdere questa cultura visiva, così fortemente caratterizzata e potente, a causa di un cambiamento di passo nei circuiti dell’intrattenimento collettivo. Un problema che riviste come TT cercano lodevolmente di evitare.


*Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Ha un blog dal 2002: Il posto di Antonio.

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