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La grandezza senza tempo di Darwyn Cooke

Se c’è stata una costante nella carriera di Darwyn Cooke, è stata la coerenza nel restare sempre lontano dalle mode. Non le ha mai inseguite, proprio come fanno gli innovatori, ma non le ha mai nemmeno dettate, perché è stato un disegnatore e un autore di fumetti letteralmente inimitabile. Certo, tra gli eroi disegnati da lui ci sono Batman e Superman, ma anche tanti altri scelti più per passione che per ruffianeria o convenienza.

La sua propensione a non lasciarsi condizionare dal mercato fu dimostrata già dal suo primo approccio al fumetto. Cooke, canadese di nascita, arrivò nel 1985 a New York e si fiondò negli uffici di DC Comics, che era alla ricerca di nuovi disegnatori, con una storia breve (e muta) incentrata su un detective privato. Niente a che vedere con i supereroi, proprio come era accaduto pochi anni prima a Frank Miller, che si era presentato agli editori con una versione primitiva di Sin City. A Cooke però andò meglio, dato che la sua storia piacque al leggendario editor della DC Julius Schwartz, che gliela comprò per pubblicarla sul numero 19 della collana New Talent Showcase.

darwyn cooke

Un po’ perché il suo tratto era ancora tutto sommato acerbo – e più realistico di quanto si possa credere oggi – un po’ perché lavorando solo con i fumetti non sarebbe riuscito a tirare avanti per alcuni anni, dalla prima alla seconda pubblicazione passarono addirittura 15 anni, durante i quali Cooke fece il grafico e l’art director di un magazine musicale. Nei primi anni Novanta però ci fu l’incontro più importante della sua carriera, quello con Bruce Timm, le cui modalità avrebbe raccontato lui stesso nel 2007 al The Comics Journal, durante un’intervista con Markisan Naso:

«Un giorno presi una copia del Comics Journal, in un negozio, e in terza di copertina c’era una pubblicità dei programmi della Warner Bros. Era un’illustrazione di Bruce Timm con Superman e Batman a un tavolo da disegno mentre dicevano “Abbiamo bisogno di disegnatori per questo programma”, e riportava che cercavano designer, autori degli storyboard eccetera. A quel punto esclamai “Porca paletta!”, perché credevo che avessero tutta la gente di cui potevano avere bisogno e anche di più. Credevo che ci fosse la fila intorno all’isolato, per lavorare con loro.»

In effetti il posto c’era, e fu preso da Cooke. In quegli anni, la Warner Bros. – che fa parte del gruppo Time Warner insieme a DC Comics – stava rilanciando i cartoon di supereroi con produzioni tecnicamente moderne, ma dallo stile un po’ retrò. Batman: The Animated Series – nata nel 1992 in seguito al successo dei film diretti da Tim Burton – riprendeva le atmosfere noir delle prime storie di Bob Kane e Bill Finger; Superman: The Animated Series – del 1996 – attingeva molto dai cartoon realizzati negli anni Quaranta dai Fleischer Studios. Dietro queste produzioni di successo c’erano due menti brillanti, appartenenti allo sceneggiatore Paul Dini e al già citato disegnatore Bruce Timm, che amava le semplici linee continue della Golden Age, ma anche le forme arrotondate dei cartoon e i bianchi e neri accettati di Alex Toth, per un miscuglio molto personale.

Lavorando agli storyboard di queste due serie (e poi alla realizzazione della sigla di Batman Beyond) al fianco di Timm, Cooke imparò a definire il proprio tratto, dandogli dei connotati molto cartooneschi e un forte retrogusto nostalgico. Il primo nuovo lavoro nel mondo del fumetto, il graphic novel Batman: Ego del 2000, gli fu commissionato direttamente da DC Comics, che aveva notato il suo lavoro nel mondo dell’animazione e fu ideato e sceneggiato da lui. Cooke guardò in modo evidente anche a Tim Sale (Batman: Il lungo Halloween) nel tentativo di trovare la giusta sintesi del tratto e il perfetto equilibrio nell’uso delle campiture di nero, ma l’opera mancava ancora di personalità e di uniformità stilistica. In quarta di copertina, in ogni caso, apparivano i commenti positivi dei suoi numi tutelari, Toth, Dini e Timm, a suggellare un distacco ormai certificato.

the new frontier darwyn cooke

Negli anni successivi Cooke affinò la mano come freelance, collaborando con Marvel e DC, fino a stabilirsi quasi definitivamente in quest’ultima. Nel 2001 rilanciò Catwoman insieme allo sceneggiatore Ed Brubaker – che stava tentando, con successo, di instillare atmosfere noir e ritmi narrativi da serie tv alle storie di supereroi –, dotandola di un nuovo costume che si affermò subito come iconico, tanto da restare immutato fino a oggi. La vera pietra angolare di tutto il suo lavoro arrivò però nel 2004 con The New Frontier. Nata con l’intenzione di sfruttare il brand della Justice League in seguito al rilancio avvenuto nel 1999 con Grant Morrison, The New Frontier era una miniserie fuori continuity in sei albi che raccontava il passaggio dalla Golden Age alla Silver Age del fumetto americano, tramite personaggi fondamentali per questa transizione come Flash (Barry Allen), Martian Manhunter e Lanterna Verde (Hal Jordan), posti a confronto con i loro predecessori Superman, Batman e Wonder Woman. L’idea alla base della storia era quella di mostrare come fosse cambiato il concetto di “eroismo” in quegli anni, in cui i supereroi stavano per diventare più umani e fallaci.

The New Frontier è solo superficialmente un lavoro nostalgico: Cooke mirava a riportare gli eroi alla loro essenza primaria, nel tentativo di mostrarli sotto una nuova luce al pubblico contemporaneo. Da questo punto di vista, l’opera è sempre stata considerata l’esatto opposto di Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons. Partendo da uno spunto simile (con gli eroi nel pieno della Guerra Fredda e costretti a subire lo scetticismo dell’opinione pubblica), la storia di Cooke contrappone speranza e ottimismo al cinismo di Moore (che comunque apprezzò The New Frontier, all’epoca della sua uscita, come riportato in questi giorni dalla sceneggiatrice Gail Simone).

Il titolo riecheggiava infatti la dottrina politica del presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, quella “Nuova Frontiera” che a sua volta richiamava la corsa all’Ovest del Diciannovesimo secolo e che voleva indicare uno spostamento costante in avanti dei limiti, non solo territoriali – vista la determinazione nella conquista dello spazio – ma anche ideologici, con il superamento in particolare del razzismo. Nella sua storia, Cooke partì dal 1945 per poi concentrarsi sugli anni dal 1952 al 1960, proprio quelli della “Nuova Frontiera”, che comportarono una vera e propria resurrezione del fumetto supereroico (poi certificato dalla nascita di Marvel Comics e di personaggi come Fantastici Quattro, Hulk, Thor e Uomo Ragno), dopo gli anni di buio seguiti alla Seconda guerra mondiale.

Attingendo da una parte all’eleganza stilistica del suo mentore Bruce Timm e dall’altra alla forza espressionistica di Jack Kirby, accompagnate dall’influenza del graphic design nella composizione dei disegni, l’autore trovò la perfetta sintesi del proprio stile, che divenne talmente distintivo da essere definito “alla Darwyn Cooke”, nella sua peculiare rielaborazione in chiave contemporanea di elementi retrò. Il tutto si rivelò perfetto per accompagnare una storia profondamente calata nel realismo storico di quegli anni (tanto che vi appaiono personaggi come Eisenhower e Nixon), ma dotata di grande visionarietà fantascientifica.

the new frontier darwyn cooke

In seguito all’uscita, The New Frontier conquistò tre Eisner Award (miglior miniserie, migliori colori e miglior design) e tre Harvey Award (miglior disegnatore, migliori colori e migliore serie). L’edizione in volume rivinse poi entrambi i premi. Nel 2008, fu prodotto un film animato tratto da The New Frontier, accompagnato da una linea di merchandising.

Se fino ad allora si era dimostrata un po’ scettica nei confronti di Cooke, a quel punto DC Comics si prostrò, concedendogli grande libertà creativa e di scelta per i progetti successivi. Ma, come detto, a Cooke interessava soprattutto seguire le proprie passioni, senza ripetersi troppo e senza accettare alcun compromesso, neanche caratteriale: in quegli anni chiuse i rapporti con la Marvel a causa di incomprensioni con gli editor Axel Alonso (oggi Editor-In-Chief della casa editrice, sul quale pare che avesse rovesciato volutamente una pinta di Guinness) e Nick Lowe, attaccò Frank Miller definendo Il Cavaliere Oscuro colpisce ancora ‘spazzatura’ e dimostrò molta insofferenza nel lavorare con editor o altri sceneggiatori.

Tra questi ultimi, figura persino Grant Morrison, che gli propose di realizzare una storia per la collana Multiversity ambientata nella Golden Age. «L’ho ringraziato molto gentilmente», avrebbe poi raccontato nel 2015 lo stesso autore. «”Mi piacerebbe lavorare con te, un giorno, ma non faccio più quelle cose. Le ho già fatte. Se venissi da me con qualcosa tipo The FilthWe3Seaguy, allora certo, mi piacerebbe tuffarmici con te”. Ma di certo non voglio essere quel tipo. E io sono quel tipo. Cercare di evadere da un modello può essere difficile. Il crime è il mio tipo preferito di fiction, il mio tipo preferito di film.»

E infatti, dopo The New Frontier, il suo lavoro di maggior rilievo fu l’adattamento a fumetti di quattro romanzi con protagonista il criminale professionista Parker, scritti da Donald Westlake sotto lo pseudonimo di Richard Stark tra gli anni Sessanta e Settanta. Nelle tavole in bicromia acquerellata di The Hunter (2009) e dei suoi seguiti The Outfit (2010), The Score (2012) e Slayground (2013), usciti negli Stati Uniti per IDW Publishing – i primi tre sono stati pubblicati anche in Italia da Edizioni BD –, Cooke spezzò le linee del proprio tratto e appesantì i neri, orientandosi verso una consistente essenzialità e creando un noir dalle atmosfere fortemente Sixties, che metteva in risalto il suo talento naturale per la narrazione a fumetti.

parker darwyn cooke

Questi libri costituiscono davvero la summa del lavoro di Cooke, che li ha ideati dall’inizio alla fine, fin nei minimi particolari di formato e grafica, senza che nessun altro potesse metterci bocca. Sul lavoro di adattamento della prosa di Westlake, invece, Cooke avrebbe poi raccontato nel 2010 a Tucker Stone di Comics Alliance le sue principali preoccupazioni:

«Ho passato centinaia di ore con questa prosa, e perderne anche solo un po’ mi avrebbe davvero spezzato il cuore. E’ molto difficile riuscirci, perché lui non sprecava parole. Non è che ci fosse così tanto da tagliare. Ma quando c’è una scena che coinvolge azione fisica, sai, devo allontanarmi dalla narrazione. Immagino che sia il mio lavoro tradurre in modo visivo la narrazione e lasciare che i suoi dialoghi traspaiano. Ma nelle scene in cui sistemo la narrazione per un flashback o una sequenza… Non c’è molto da adattare. Solo un po’ di editing prudente, dato che la sua prosa è perfetta.»

Per Cooke, la serie di libri di Richard Stark’s Parker fu l’occasione per tornare dove avrebbe voluto sempre essere, a partire da quella prima storia offerta a DC Comics. Il suo obiettivo era chiaro: «Mi piacerebbe unirmi ad autori contemporanei come Chester Brown e Bryan O’Malley (tanto per fare due nomi di miei connazionali canadesi) nel creare graphic novel che suscitino maggior interesse dei lavori fatti finora. Voglio davvero solo raccontare storie.»

Il suo rapporto con DC Comics e i supereroi in ogni caso proseguì in modo costante. Nel 2006 realizzò, con lo sceneggiatore Jeph Loeb, lo speciale crossover tra Batman e Spirit, seguito da una serie regolare intitolata al secondo che fu anche scritta da lui. Con questo lavoro, Cooke volle rendere omaggio a un altro grande maestro della Golden Age che lo aveva influenzato molto, soprattutto nella fluidità della narrazione: Will Eisner. Nello stesso anno sceneggiò il primo ciclo di storie per la collana Superman Confidential, disegnato da Tim Sale, con una storia fuori continuity dalle atmosfere anni Sessanta. Tra il 2012 e il 2013 partecipò anche al controverso progetto Before Watchmen, che riprendeva i personaggi del lavoro di Moore e Gibbons, sceneggiando la miniserie Silk Spectre (disegnata da Amanda Conner) e realizzando da solo Minutemen, altra storia ambientata durante la Golden Age.

spirit darwyn cooke

Il suo ultimo lavoro è stato invece pubblicato sotto l’etichetta Vertigo della DC: The Twilight Children, una miniserie in quattro parti sceneggiata da Gilbert Hernandez e ambientata in America Latina che mescola fantascienza e magia. È stato lo stesso Cooke a chiedere di collaborare con il secondo degli Hernandez Bros, quando l’editor Shelly Bond è andata da lui a chiedergli di proporre qualcosa per la Vertigo. Per Cooke, The Twilight Children è stato un pezzo fondamentale del suo cammino di allontanamento dai supereroi e un lavoro che gli ha suggerito nuove possibilità narrative. Possibilità che purtroppo resteranno inesplorate.

Nonostante la sua carriera potesse far pensare altrimenti, Cooke non ha mai accettato del tutto l’etichetta di autore retrò, da lui considerata troppo semplicistica. Si considerava, più che altro, un uomo non legato alla contemporaneità e alle mode e quindi destinato a invecchiare meno rapidamente. A chi lo accusava di risultare troppo “nostalgico”, rispondeva sempre con molta sicurezza e un pizzico di fondata presunzione, arrivando quasi a considerarsi un classico:

«Tutta questa roba che viene prodotta oggi finirà per diventare datata. Credo che il mio lavoro invece resterà. Credo che sia più facile raccontare un certo tipo di storie ambientate in un periodo di tempo passato, sfruttare la memoria di una società che crede che il passato sia più semplice. […] Credo che, in futuro, il mio lavoro sembrerà un po’ più senza tempo. Gran parte di ciò che ho fatto può essere raccolto in volumi completi, libri autoconclusivi, graphic novel. Credo che sopravviveranno a parte della roba contemporanea, ma potrebbe essere il mio ego a parlare.»

E un classico purtroppo Cooke è destinato a diventarlo più rapidamente di quanto lui sperasse, a causa della sua morte prematura, avvenuta lo scorso 14 maggio a 53 anni per un cancro fulminante. Quello che ci lascia è una sequenza di opere che ci raccontano di un autore dotato di una voce distintiva, in grado di spiccare notevolmente al di sopra delle altre, in un settore che fa dell’appiattimento e della ripetitività delle proposte un modello che sembra ormai difficile da superare. Cooke ci ha provato, a fare di testa sua. Non sempre ha funzionato, ma almeno lui ci ha provato, mettendo in luce una coerenza da vero uomo senza tempo.

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