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RecensioniNovitàRitratto di un cane. O dei regimi di legittimità del bello (fumettistico)

Ritratto di un cane. O dei regimi di legittimità del bello (fumettistico)

Terry Fletcher ha l’idea mentre fa la fila per vedere la Gioconda. Il dipinto più famoso del mondo è per lui una delusione incredibile. Non lo trova all’altezza della sua reputazione. È convinto che saprebbe fare di meglio, anzi lo fa. Dipinge su una tela della stessa grandezza il ritratto del suo cane, Bone.

Nastro biadesivo appiccicato sul retro e, al momento giusto zac!, lo attacca alla parete tra un Rubens e un Picasso. Lo fa più volte, alla Tate Gallery, al MOMA, al Getty Museum. Perché «il dipinto in sé e per sé quasi non aveva importanza. A rendere un’opera d’arte, un capolavoro, sembrava che fossero il luogo in cui era esposto… la ricchezza della cornice… e le opere appese accanto». Poi lo beccano.

cavie palahniuk

Per sapere come va a finire occorre leggersi il racconto “Ambizione” di Chuck Palahniuk, raccolto  in quel complesso volume che è Cavie (Mondadori, 2005). Ma non è molto importante al fine del discorso che voglio fare qui.

Palahniuk sostiene di avere avuto l’idea nel 1998, ma credo lo dica solo per mantenere nei confronti di Banksy una sorta di paternità. Infatti nel marzo del 2005, stesso anno di uscita dell’edizione americana di Cavie, Banksy appende senza autorizzazione alcuni propri dipinti in quattro musei di New York, tra cui il MOMA.

Comunque. Uno dei punti chiave che accomuna il dibattito che seguirà all’azione di Banksy e il racconto di Palahniuk è quello relativo alla definizione legale da dare a delle opere esposte senza autorizzazione in un museo. Di solito dai musei le opere venivano sottratte, non aggiunte e appese. Danno intenzionale, danneggiamento di proprietà pubblica, atto di vandalismo, graffitismo. I giudici e i critici non sanno come definirli, non essendo riconosciuti dall’autorità museale i “dipinti abusivi” tutto possono essere ma sicuramente non sono opere d’arte. Quello che fa la differenza percettiva, quindi, è il luogo.

A sinistra: Banksy, camuffato, appende una sua opera in un museo. A destra: un visitatore del museo
A sinistra: Banksy, camuffato, appende una sua opera in un museo di New York. A destra: un visitatore del museo, che passa ignaro davanti al quadro di Banksy | via The Rumpus

La decisione da parte di Musée du Louvre Éditions di produrre fumetti non ha dato, per il momento, risultati degni di troppo rilievo. Da Yslaire a Prudhomme, passando per Bilal, i loro lavori ambientati al Louvre sono, a mio avviso, di una mediocrità disarmante. Non si salva neppure I guardiani del Louvre di Jiro Taniguchi, che ci spaccia un’idea dell’arte come veicolo di elevazione spirituale che funziona solo attraverso un luogo magico, un tempio nel quale possiamo affidarci alla guida consapevole e benevola dei suoi guardiani: un museo, appunto (ovvero il Louvre, nello specifico). Solo attraverso l’istituzione museale possiamo aspirare all’elevazione spirituale. Una visione falsa, prima ancora che insopportabile.

Come ci hanno dimostrato Ruppert e Mulot ne La Grande Odalisca, il Louvre è solo una delle tante istituzioni di potere che genera e mantiene il controllo sociale attraverso l’istituzionalizzazione della bellezza. Sostanzialmente il Louvre è lo specchio della storia politica della Francia (cr. il bel saggio di Michel Carmona, Louvre. Otto secoli di fatti e misteri, Mondadori, 2006).

Il più interessante e gradevole di questi volumi voluti dall’intendenza del Louvre è sicuramente Il Cane Strabico di Etienne Davodeau (001 Edizioni, 2016; intendiamoci: un lavoro assolutamente minore nella sua bibliografia) nel quale ci racconta, con divertito pragmatismo, cosa fa e chi è veramente un guardiano del Louvre.

cane strabico davodeau graphic novel fumetto 001

Fabien conduce i suoi giorni tra una sala e l’altra del museo più grande del mondo, dove fa il guardiano controllando che i turisti non tocchino le opere d’arte e trovino la strada per arrivare nella sala della Gioconda. Una vita noiosa ma confortevole, conforme ai turni quotidiani di guardia nelle varie sale del museo. Rassicurante come il rapporto che Fabien ha con Mathilde, per descrivere il quale usa spesso esempi simbolizzatori tratti dalla sua esperienza quotidiana nel museo. Il suo lavoro di guardiano nel tempio della bellezza istituzionalizzata gli fornisce gli strumenti estetici codificati per autorappresentarsi la propria vita.

Finché.

I fratelli della sua compagna lo mettono davanti al quadro di un loro bisnonno, strappandogli la promessa di fare in modo di esporlo in qualche sala del Louvre. Il quadro è una crosta insignificante, il ritratto che il bisnonno aveva fatto al proprio cane strabico.

Come finisce la storia, se Fabien riuscirà o meno a far esporre il quadro, è una questione irrilevante che Davodeau risolve agilmente, con i toni garbati della commedia francese, e che vale giusto qualcosa di meno della mezz’ora di tempo che costa la lettura del libro. La questione interessante, posta con beffarda consapevolezza dall’autore, è però un’altra.

Come diavolo funziona la discriminazione del visibile che ci porta a stabile se qualcosa è bello oppure no?

Hermann Rorschach nella sua Psicodiagnostica sottolineava come tutti i soggetti cui sottoponeva le sue immagini semplici e simmetriche, non le interpretavano mai, non procedevano cioè dal segno al significato attraverso metafore, ma le descrivevano come oggetti fisici fino a identificarle con la realtà di quegli oggetti. Per inciso: non è un caso che uno dei personaggi fondamentali di Watchmen si chiami Rorschach, ma magari ne parliamo un’altra volta.

Quello che conta adesso, e che Davodeau sostiene in questo libro, è che il processo rilevato dallo psichiatra zurighese non è tipico solo dei neuropatici, ma anche dei visitatori di musei e, per traslato, dei lettori di fumetti. In particolare di quelli seriali. Il giudizio estetico su un’opera non risponde più (se mai lo ha fatto) come voleva la tradizione idealistico-umanistica a parametri valutativi stabiliti una volta per sempre, ma risponde invece alle condizioni estesiologiche del suo fruitore, e a quelle logistiche dell’opera stessa.

Se ha ragione Davodeau, e secondo me ha ragione, abbiamo di che discutere. Grazie a, ma anche al di là di, un cane.

Il cane Strabico
di Étienne Davodeau
001 Edizioni, 2016
144 pagine, 18,90 €

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