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RecensioniNovitàLa saga dei Bojeffries, il tesoro dimenticato di Alan Moore

La saga dei Bojeffries, il tesoro dimenticato di Alan Moore

Durata solo 26 numeri, la rivista inglese Warrior è stata, insieme a 2000AD, incubatrice di alcune delle voci più importanti del fumetto inglese negli anni Ottanta. Su Warrior Alan Moore si è imposto come penna tra le più incisive grazie a Miracleman e V for Vendetta. Ma c’è un altro, dimenticato, tassello nella narrazione dello sceneggiatore inglese che, anche se non ha contribuito a cementare il suo nome nel settore, è una parte integrante della sua poetica. Si tratta de La saga dei Bojeffries, un fumetto comico che vede come protagonista l’omonima famiglia inglese composta dal padre Jobremus, i figli Reth e Ginda, gli zii Festus e Raoul, rispettivamente un vampiro e un lupo mannaro, il nonno – un essere agli ultimi stadi della materia organica ispirato dai Grandi Antichi lovecraftiani – e il piccolo di casa, un globo di energia termonucleare che vive nella cantina.

Leggi le prime 20 pagine del volume

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La saga dei Bojeffries è (abbastanza) divertente, ha qualche gag forte, qualcuna meno, e uno Steve Parkhouse che afferra al volo l’umorismo di Moore e lo ripropone con il suo pennino, spingendo sulle fisionomie alla Quentin Blake per l’effetto comico – nello zio Raoul ci ho rivisto le sue illustrazioni per Gli Sporcelli, ma il suo bianco e nero non sfigurerebbe in qualche fumetto horror (si veda la sequenza in cui Inchmale incontra lo zio Raoul in versione mannara). Il bello, però, è che in questa idea neanche tanto originale Moore inserisce un paio di spunti davvero brillanti.

Descritta così sembra una sitcom stile La famiglia Addams o I mostri, perché anche queste due serie rovesciano le dinamiche delle sitcom famigliari (anche se per Moore i riferimenti profondi sono alle storie di Henry Kuttner e al teatro dell’Assurdo di N.F. Simpson). Invece che rappresentare la normalità della famiglia standardizzata, si mostra l’altrettanto normale per loro, non per noi vita di un nucleo di mostri. Si sentono quasi le risate registrate, gli ululati strategici quando entra una guest star, gli «Awwww» nei finali sdolcinati. Nel caso dei Bojeffries, lo shock da parte del lettore è tanto più forte nell’ambientazione inglese degli anni Ottanta, in cui la morale vittoriana (repressione sessuale, codice di condotta rigido) aveva trovato terreno fertile con il governo Thatcher. D’altronde, il luogo comico più comune della commedia del Dopoguerra è la giustapposizione del fantastico e del reale per mostrare come la vita quotidiana sia irrazionale.

Ma questo è solo il livello superficiale. Moore gioca con questo registro, in parte rovesciandolo (le battute a cui dovrebbe seguire gli «Awwww» vedono Gertie sedurre un tizio tagliandogli una mano) e in parte usandolo come contenitore per altri discorsi.

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Come in Miracleman e V for Vendetta, lo sceneggiatore usa il fumetto per parlare dell’Inghilterra e contestare il thatcherismo, geolocalizzando la storia di modo che non possa avere senso altrove. Più che di racconti faceti su un vampiro che esce a fare la spesa e viene bruciato dal sole o trafitto da pali di legno (ma c’è anche quella, di storia, e fa ridere), La saga dei Bojeffries parla di Northampton, della classe operaia, delle serate aziendali in cui un freak dice, parlando dei neri: «Be’, sai, non ho pregiudizi razziali, ma non sono come noi, no?» (era il 1983, pareva un salto carpiato più spettacolare di oggi), di englishness, dell’essenza britannica, e si sforza di andare oltre gli stereotipi biechi anche attraverso il fitto tratteggio di Steve Parkhouse: nelle vignette, al posto dei bus a due piani e delle cabine telefoniche, ci sono le council house, le Ford Granada parcheggiate nelle viuzze, i camini.

I Bojeffries sono tutti alla ricerca del loro ruolo nella società inglese, loro che la società inglese l’hanno formata (dicono di essere in circolazione da prima del regno della regina Vittoria) ma ne sono sempre rimasti ai margini. Dalla figlia troll, allo zio operaio, passando per Trevor Inchmale, l’incaricato a riscuotere l’affitto della famiglia (circa novant’anni di pagamenti arretrati), intento a trovare il titolo giusto per la propria autobiografia. E la conclusione, a dispetto delle apparenze, è parecchio amara: Inchmale – lo Stato, l’autorità, la norma – viene trasformato in un vaso di gerani e lui stesso conclude che si sta meglio da vegetale, nella casa dei Bojeffries, che da umano, nella società inglese. Il mostruoso è identificato con la domesticità e la norma diventa sinonimo di esclusione.

I Bojeffries vivono nel Regno Unito post-coloniale, dove non basta cercare un’identità nazionale ma va anche scoperta una nuova identità, quella delle seconde generazioni di immigrati. Solo che Moore, invece dei giovani descritti dallo scrittore Hanif Kureishi in The Black Album o Buddha of Suburbia, tutte narrazioni post-coloniali che avevano al loro centro la ricerca identitaria del protagonista in quel periodo storico, mette vampiri e altri mostri di genere, a loro volta racchiusi in una struttura da sitcom tradizionalissima, producendo una distorsione pulp-surrealista.

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Di nuovo, Moore usa i mostri per parlare di se stesso. Quasi tutti i personaggi parlano una lingua tutta loro, fatta di fonemi e storpiature sintattiche spesso incomprensibili. Come dichiarato dallo stesso Moore, l’intento era quello di cogliere le peculiarità del parlato famigliare: «Le piccole cose che i tuoi genitori o qualcuno che conoscevi dicevano. Mi ricordo che un’espressione che ho usato nel fumetto l’avevo presa dal padre della mia prima moglie, che la usava al posto delle imprecazioni. Era una di quelle parole evasive, quasi volgari, che mi sembravano adatte per i Bojeffries.»

Questo rimando alla sfera privata della famiglia, in cui ogni gesto nasconde una ritualità o una tradizione impenetrabile agli occhi degli estranei, è esemplificato nella storia iniziale, cartina tornasole di tutti questi discorsi: Jobremus insegna al figlio a pescare i pipistrelli con le falene, in una sequenza intrisa di uno strano lirismo proprio perché non riusciamo a cogliere appieno il significato ma capiamo comunque che dietro c’è un retaggio denso di storia. E già nella prima pagina Moore restituisce tutto un mondo di sensazioni tattili con dettagli lessicali come «glassati di pupù di uccello» o «attento che non le stringa lo scroto» (parlando della falena), che rendono bene l’ambiente di estrema informalità – ma anche pragmatismo – della famiglia.

La saga dei Bojeffries
di Alan Moore e Steve Parkhouse

Bao Publishing, 2016
95 pagine, 14.00 €

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