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Una su mille ce la fa. Essere donne e dirigere anime in Giappone

Non bastavano le farneticazioni di Bret Easton Ellis. Anche dal Giappone una voce, quella del produttore esecutivo dello Studio Ghibli Yoshiaki Nishimura, si è levata per decretare che le donne non sono capaci di fare le registe – nel suo caso, di anime. Medium diverso, stesso sessismo.

Secondo lo scrittore americano, il problema sarebbe che le donne non possiedono il male gaze, lo sguardo maschile (si prega di notare l’ironia di servirsi di un concetto coniato dalla Feminist Film Theory a supporto di una tesi maschilista) che a quanto pare egli considera una proprietà intrinseca e imprescindibile del mezzo cinematografico, piuttosto che una naturale conseguenza del fatto che, beh, storicamente la stragrande maggioranza dei registi sono uomini. Ah, e poi c’è il grande classico: le donne sono troppo emotive. Il colpo di scena è che Nishimura sostiene invece il contrario, affermando che le donne non sono adatte a dirigere film di animazione perché dotate di un eccessivo senso pratico:

[…] con l’animazione si deve semplificare il mondo reale. Le donne tendono a essere più realistiche e a gestire bene la vita di tutti i giorni. Gli uomini, invece, tendono a essere più idealisti, e i film di fantasia hanno bisogno di questo approccio. Non credo che sia un caso se vengono preferiti gli uomini.

Beh, sul fatto che non si tratti di un caso non ci sono dubbi. C’è il fatto che la società giapponese è profondamente sessista, per dirne una. I risultati del Gender Gap Report redatto da World Economic Forum nel 2015 parlano chiaro. Classificandosi al centunesimo posto (su 145) per quanto riguarda la parità di genere, il Giappone si riconferma uno dei paesi in cui le donne se la passano peggio. Se poi andiamo a osservare i dati specifici relativi alle pari opportunità in ambito lavorativo, la situazione è ancora più sconfortante: si scende alla posizione 106 – per la cronaca, non è che nell’Italia del Fertility Day, di #ESCILE e delle dimissioni in bianco per le dipendenti donne le cose vadano tanto meglio: saremo anche al quarantunesimo posto nella classifica globale, ma scendiamo a 111 in quella relativa al mondo del lavoro.

Va da sé che l’industria dell’animazione giapponese rispecchia questa realtà. La quantità di donne che riescono a lavorare in questo ambiente è esigua, rispetto alla controparte maschile, e ancora meno sono quelle che riescono a vedersi affidata la regia di una serie. Eppure, una su mille ce la fa. E con “una su mille” intendo “più di quante se ne possano contare sulle dita di una mano, ma non molte di più”. Insomma, caro Nishimura, se ci sono pochi anime diretti da donne è perché per le donne è più difficile fare le registe, e se per le donne è più difficile fare le registe è perché nell’industria dell’animazione c’è troppa gente come te.

È altrettanto ovvio, poi, che non tutti gli anime diretti da donne siano dei capolavori, o anche solo degli anime decenti. Ma questo è valido per la produzione anime in toto: delle dozzine di nuovi titoli in uscita ogni stagione, quelli davvero degni nota di solito sono appena una manciata. E comunque, vogliamo davvero attenerci alla logica per cui l’operato di una singola donna in un certo campo è rappresentativa delle potenzialità di tutte le donne? Certo che no, perché sarebbe pretestuoso, svilente e sessista. Questo per mettere le mani avanti prima che si venga a dirmi: “ma Junjou Romantica è diretto da Chiaki Kon, che è una donna, ed è una porcheria!”, perché la mia risposta sarebbe: “Verissimo. E ora, ce l’avete una mezza giornata per ascoltare la lista di anime orrendi diretti da uomini?”

Tre registe che è impossibile non ricordare

Chiaki Kon, si diceva, è appunto una delle poche donne che ce l’hanno fatta. Ha diretto il già citato Junjou Romantica, versione anime di uno dei manga yaoi più popolari di tutti i tempi. Una serie oggettivamente inguardabile, e il mio non è un giudizio sui contenuti, ma sulla fattura: animazioni, ritmo e regia sono praticamente inesistenti. Però va anche detto che questo tipo di produzioni di solito sono a basso budget, e a chi li dirige tocca fare di necessità virtù.

junjou romantica
“Junjou Romantica”

Comunque, lungi dal fossilizzarsi su un solo genere, nel corso degli anni Kon si è costruita un curriculum di tutto rispetto, passando dalla commedia romantica (Golden Time) all’horror (Higurashi no Naku Kori ni). Inoltre ha diretto la terza stagione di Sailor Moon Crystal, che ha segnato un netto miglioramento qualitativo dopo la tragedia delle prime due. Non male, no?

Il fatto che Junjou Romantica sia un anime terribile (è l’ultima volta che lo ripeto, lo giuro) non significa che tutti i prodotti per fujoshi siano necessariamente di cattiva fattura – o, peggio, che l’unico modo in cui una regista possa dimostrare il suo valore sia dirigere roba da uomini. Per provarlo sfodero il mio primo asso nella manica: lasciate che vi parli di Hiroko Utsumi. Ancora meglio, lasciamo che sia il suo lavoro a parlare per lei:

Utsumi ha diretto Free!, il celeberrimo anime sui nuotatori gay che tutti hanno guardato per la trama. Si tratta di una serie firmata Kyoto Animation – ne accennavo qui – una garanzia di eccellenza, il che significa che la qualità delle animazioni è pura pornografia (e non solo per via di tutti quei pettorali). Ma ciò che rende Free! una serie tanto riuscita e rinfrescante è l’approccio narrativo e registico di Utsumi, che si rifà non tanto agli schemi prefissati del boy’s love, quanto alle dinamiche e alle atmosfere romantiche dello shoujo. Senza trascurare la parte sportiva, che regala sequenze tecnicamente spettacolari. Per ora Utsumi non ha altre serie all’attivo, ma se continua su questa strada non ho motivo di credere che ci deluderà.

Sempre nella scuderia Kyoani c’è Naoko Yamada, quella che ha diretto una certa serie chiamata K-On! Forse vi suonerà familiare perché è stata uno dei più grandi fenomeni degli anni Duemila. Prima delle idol lesbiche moe di Love Live, c’erano le musiciste lesbiche moe di K-On!, forse la serie che più di tutte ha contribuito a consolidare il filone. Che si voglia o meno ringraziare Yamada per questo, non si può che ammirarne il talento e rallegrarsi nel constatare che la sua carriera procede a gonfie vele. Dopo K-On! ha diretto il grazioso Tamako Market, ma soprattutto è da poco uscito nelle sale giapponesi il lungometraggio ispirato a A Silent Voice, che porta proprio la sua firma.

Ci sono diversi altri nomi che vale la pena citare, dalle veterane Mitsuko Kase (ha diretto Saikano – Lei, l’arma finale, ma nel corso della sua lunga carriera ha lavorato a molti piccoli e grandi cult degli anni Ottanta e Novanta, da City Hunter a Glass no Kamen, passando per Dirty Pair), Kiyoko Sayama (Angel Sanctuary, Skip Beat!, Vampire Knight) e Atsuko Ishizuka (No Game No Life, Hanayamata, Prince of Stride: Alternative – sì, proprio l’anime dei ragazzi che fanno parkour). Tra le nuove leve da tenere d’occhio una menzione va ad Ai Yoshimura (Yahari Ore no Seishun Love Comedy wa Machigatteiru, Ao Haru Ride, Cheer Danshi!! – sì, proprio l’anime dei ragazzi cheerleader) e Rie Matsumoto (Kyousougiga, Blood Bockade Battlefront).

Quella che spacca: Sayo Yamamoto

Nessun altro? Beh, solo la migliore. Il mio colpo finale per mettere K.O. il signor Nishimura si chiama Sayo Yamamoto, e basta guardarla per capire che è una con cui non si scherza:

Yamamoto si è fatta le ossa lavorando nelle migliori case di produzione, e sempre su titoli di un certo livello. Pensate alle serie più grosse degli ultimi anni; probabilmente lei ne ha disegnato gli storyboard o ne ha diretto alcuni episodi. In particolare, Yamamoto collabora spesso e volentieri con Shinichiro Watanabe, probabilmente il regista che più di ogni altro ha influenzato il suo lavoro.

Quando, nel 2008, le si presenta la prima occasione di spaccare i culi dirigendo una serie tutta sua, la ragazza non delude. Michiko & Hatchin è un’opera prima notevole. Tamarro al punto giusto, ambientazione messicaneggiante, sparatorie, scorribande in motocicletta e un cast di donne durissime. In una parola, bomba. Così bomba che nel 2012 Yamamoto si vede affidare un compito non da poco, dirigere una nuova serie del franchise di Lupin III, la prima dal 1985. Robetta da poco, insomma, e soprattutto poca responsabilità.

La donna chiamata Fujiko Mine, spin-off dedicato alla dolce metà di Lupin e prequel della serie classica, è un’operazione davvero interessante. Yamamoto sceglie di recuperare il tratto e la sensualità del manga di Monkey Punch, immergendo la storia in un’atmosfera trasognata e conturbante che sa ben sfruttare l’inevitabile fattore nostalgia. Il risultato è così coeso dal punto di vista estetico e stilistico che ci si abitua subito anche all’animazione scarna, ridotta così all’osso che a tratti si ha l’impressione di guardare una serie di tableau vivants (rassegnamoci, la prassi vuole che reboot e spin-off di serie dal successo consolidato vengano realizzati con un basso budget). La donna chiamata Fujiko Mine viene premiato al Japan Media Arts Festival 2012 e fa da apripista al rilancio del franchise, che prosegue nel 2015 con L’avventura italiana.

La donna chiamata Fujiko Mine
“La donna chiamata Fujiko Mine”

Nell’ottobre 2016 Yamamoto tornerà alla ribalta con un nuovo progetto originale, Yuri on Ice, una storia ambientata nel mondo del pattinaggio artistico maschile. Il cast sarà anche quello di un anime per fujoshi, ma le suggestioni, a mio modesto parere, arrivano dritte dallo shoujo manga sportivo degli anni Settanta e Ottanta. Per me è senz’altro la novità più attesa.

È dunque il caso di dire, con buona pace del signor Nishimura, che le donne se la cavano benissimo, anche se sull’altra metà della luna arriva poca luce e fa un freddo cane. E in fin dei conti, fa comunque piacere sapere che, dopo la fregnaccia, sono arrivate le dovute scuse.

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