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Sunday Page: Valerio Mattioli su “Multiforce” di Mat Brinkman

Ogni settimana su Sunday Page un autore o un critico ci spiega una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per motivi tecnici, artistici o emotivi. Le conversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma parte tutto dalla stessa domanda: «Se ora ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».

Allora, questa domenica parlo con Valerio Mattioli, parte del duo death surf Heroin In Tahiti, fondatore di Prismo e penna per una miriade di testate (Vice, Blow Up, Repubblica XL, Internazionale, minima&moralia, Noise). La sua ultima fatica è il libro Superonda, storia della rivoluzione silenziosa prodotta dalla musica italiana tra gli anni Sessanta e Settanta.

multiforce

Ora, io GIURO che all’inizio avevo pensato ad altro: la prima scelta era stata un bel Magnus, poi Go Nagai, poi il solito Snake Agent, poi da lì sono scivolato alle cose di Mark Beyer, e alla fine è stato inevitabile finire sullo scaffale Fort Thunder, Picturebox e dintorni, e restarci le ore (si fa per dire). Insomma, per l’ennesima volta, torno su Multiforce di Mat Brinkman.

Cosa te l’ha fatto scegliere sugli altri?

C’è questo testo di Frank Santoro che spiega molto bene l’effetto che suppongo provi chiunque si avvicini per la prima volta a Brinkman: sulle prime un “uh, bello ma strano”; ma poi, lentamente, ne cogli il disegno di insieme e rimani quasi atterrito dalla grandezza di quest’opera che be’, credo sia il capolavoro della cosiddetta scena di Providence e forse anche qualcosa in più. Sempre Santoro dice che Multiforce è “possibly the most important serialized comics of the post-Ware era”; in un’altra occasione suggerì che Multiforce sta ai 2000 come Love and Rockets stava agli ’80 e ACME Novelty Library ai ’90: sono esagerazioni, ma è un endorsement che trovo significativo perché Santoro è un autore assai diverso da Brinkman, diciamo che è più “classico” per quanto possa essere classico un autore della sua scuola. Il fatto curioso è che Multiforce non è nemmeno il mio preferito tra i fumetti del giro Providence (quello suppongo che sia Powr Mastrs di C.F.); in generale però, mi ricorda quel senso di puro spaesamento misto a meraviglia che provai dinanzi ai primi materiali nati tra fine ’90 e inizi 2000 al Fort Thunder. A un livello molto personale, autori come Brinkman, C.F., Ben Jones, hanno significato per me una sorta di “riconciliazione” col fumetto indipendente americano in un periodo della mia vita in cui, per varie ragioni, mi ero stancato di collezionare roba Fantagraphics & co.

Perché hai scelto proprio questa pagina?

Diciamo innanzitutto che è una delle sue più “comprensibili”, oserei dire una delle sue più semplici: un teschio che rotola e fine, tutto qui. Ma già questo ti proietta in quella dimensione lenta, sospesa, in qualche modo eterna, che è tipica di Brinkman. E poi graficamente è una cosa maniacale (come d’altronde il resto dell’albo).

Per essere precisi: maniacale ma NON barocca; ricorda più quei disegni fittissimi di certa art brut prodotta negli ospedali psichiatrici: non c’è praticamente un centimetro quadro lasciato libero, e quando osservi la tavola nelle dimensioni originali – che sono molto grandi, più o meno un 25 x 40 cm – l’effetto è un autentico shock da horror vacui. Non sai neanche bene come orientarti: alcuni particolari sono leggibili solo da una certa distanza, come l’omino (il microman) che dice “Don’t drop it” nel primo riquadro in alto a sinistra, o il fatto che lo stesso microman parli da una torre.

La tavola è composta in senso orario, un dettaglio che amplifica quella vertigine a spirale che è un’altra cosa molto brinkmaniana. E poi, alla fine, compaiono in basso queste figurine storte su fondo bianco che sembrano capitate lì come per caso, un particolare sulle prime marginale ma che da solo “smonta” l’intera costruzione della pagina. Insomma non ti dà appigli, se capisci cosa intendo. Si citava prima Chris Ware: sono autori lontanissimi ma ecco, in un certo senso Brinkman è un Ware “scoppiato”, un suo negativo andato a male: tanto le architetture di Ware sono eleganti, nitide, pulite, e al tempo stesso estremamente complicate, tanto quelle di Brinkman sono complesse ma andate fuori di senno, come se procedessero per accostamenti puramente irrazionali, allucinati, ma di un’allucinazione causata da overdose di videogames fantasy/sci-fi.

Quando citi il paragone di Santoro con Love and Rockets e ACME, la cosa che mi viene più spontanea da chiedere è come mai però il livello di fama che ha non è uguagliabile a questi titoli.

Ma infatti dicevo sopra che, almeno per me, quella di Santoro è un’esagerazione, o se preferisci un’iperbole. Fatico molto a immaginare per un fumetto come Multiforce lo stesso impatto (anche solo generazionale) di un Love and Rockets: è troppo… “strano”, disegnato tutto storto, il lettering quasi non si capisce, e le storie sono dei guazzabugli weird-fantasy in cui a prima vista “non succede niente” (che è una delle critiche più frequentemente mosse alla scuola di Providence). Devi pure considerare il modo in cui questi fumetti circolavano all’inizio: erano una roba semi-clandestina senza distribuzione alcuna, che peraltro non aveva legami con il fumetto “ufficiale” (anche quello indipendente), quindi puoi immaginare…

Però è vero che i lavori dei vari Brinkman, Chippendale, Paper Rad, hanno esercitato un’influenza enorme sull’underground non solo americano degli anni 2000. Nel senso: hanno aperto una strada, inventato uno stile, e quando li sfogliavi percepivi davvero una bellissima sensazione di libertà. A un certo punto di fumetti “in stile Providence” si è riempito il mercato, spuntavano seguaci (o alla peggio imitatori) da tutte le parti, e mi ricordo benissimo la sensazione che mi fece entrare da Forbidden Planet a New York, e trovarmi un intero settore PIENO di minicomics “alla Brinkman”, mettiamola così.

Poi certo, col tempo molti angoli sono stati smussati, gli eredi attuali di quella scuola sono assai meno contorti e indecifrabili, ma rimane una lezione che continua a fare proseliti anche di un certo “successo” (mille virgolette). Qualche tempo fa Coconino ha pubblicato in italiano Megahex di Simon Hanselmann, che è un autore che non perde occasione di ribadire l’influenza di “quel fumetto lì” sul suo lavoro; ma pensa anche a Johnny Ryan, che ok, è un altro personaggio molto particolare, ma che con Prison Pit ha di fatto prodotto un immenso (e dichiarato) omaggio al lavoro in particolar modo di Brinkman e C.F.

Infine, quella lezione è persino penetrata nel mainstream: una cosa come Adventure Time sarebbe impensabile senza il precedente di Providence. E poi c’è Matt Furie, che se non altro passerà alla storia per aver disegnato un personaggio destinato a diventare uno dei più diffusi meme dell’evo internettiano: Pepe the Frog!

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