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FocusLa genesi del Codex Seraphinianus

La genesi del Codex Seraphinianus

In questo interessante e lungo intervento, Luigi Serafini racconta la genesi del Codex Seraphinianus, il libro – un bizzarro progetto rimasto a lungo “di culto” – da lui scritto e illustrato a fine anni Settanta (originariamente pubblicato da Franco Maria Ricci, oggi disponibile per Rizzoli). Il Codex è un volume di oltre 350 pagine (acquistabile online), caratterizzato da una lunga serie di curiose illustrazioni che spaziano fra tematiche botaniche, mineralogiche, etnografiche e molto altro. Una sorta di enciclopedia, scritta però in una grafia indecifrabile. Divenuto una specie di “oggetto editoriale non meglio identificato”, è stato spesso menzionato e apprezzato dai più diversi artisti e intellettuali, come Italo Calvino, Achille Bonito Oliva o Tim Burton.

Il testo che segue è tratto dal numero 43 della rivista Hamelin (QUI l’anteprima di tutti i contenuti), ed è la trascrizione di un incontro avvenuto con Luigi Serafini presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, il 23 febbraio 2017.

codex seraphinianus

Il contesto

Il contesto nel quale è nato il Codex è forse precedente al momento nel quale ho iniziato a fare i disegni, nella seconda metà degli anni Settanta. Nel 1971 mi sono trovato per una serie di coincidenze sulle strade americane. All’epoca studiavo architettura e avevo avuto un paio di indirizzi a New York per poter fare uno stage in uno studio di architetti. Andai, ma per ragioni di tipo economico – in quel momento c’era una delle ricorrenti crisi dell’economia americana e non assumevano giovani come usualmente facevano per degli stage estivi – mi ritrovai lì con quattro soldi senza sapere cosa fare. Avevo il biglietto di ritorno quattro mesi dopo. Davanti a me quattro mesi vuoti. Avendo un indirizzo a Chicago ci andai e trovai un piccolo lavoro dentro il Museo di Storia Naturale per dipingere delle foglie in diorama che si stavano allestendo e lì cominciò un viaggio assolutamente dantesco. Per quattro mesi mi ritrovai a non sapere cosa stavo facendo, ma era un momento molto particolare che ha a che fare anche con il discorso del Codex.

L’inizio degli anni Settanta fu l’alba della rete. Come sapete la rete ha una origine di tipo militare: Arpanet era un sistema della difesa americano e in quegli anni, proprio come Prometeo ruba il fuoco agli dei, i giovani americani nelle università, soprattutto nella West Coast, si impadronirono del sistema ed ebbe inizio quella rivoluzione che ha portato a quel tipo di comunicazione che oggi viviamo nella nostra quotidianità.

La cosa interessante è che all’epoca, in quell’inizio di anni Settanta, c’era già una specie di rete, ma fatta da giovani: in quel periodo stavano diventando adulti circa settanta-ottanta milioni di americani (altrettanti in Europa) ed era la generazione del Dopoguerra che ha avuto una naturale reazione simmetricamente opposta alla generazione precedente. Mentre la guerra è rottura, interruzione di comunicazione, quando nascono i codici segreti, quando una cosa normale come parlare è messa in discussione – ‘taci che il nemico ti ascolta’ –, nella generazione successiva opera un processo opposto, di ipercomunicazione, una ricostruzione. Esattamente come succede quando abbiamo un incidente e le cellule ricostruiscono la parte offesa, così in quel periodo questi giovani americani stavano preparando il terreno per quella che sarebbe stata la grande rivoluzione della rete. L’America all’epoca era esattamente la riproduzione della rete in termini corporali, umani, fisici: c’erano i nodi, alcune città, e c’era questo flusso continuo di giovani che si spostavano da una parte all’altra, esattamente come i bit oggi, e portavano informazioni, comunicazioni. Oggi scarichiamo e usiamo app per qualsiasi cosa, questa cosa all’epoca avvenne fisicamente. Quando i giovani si impadroniscono del sistema lo trovano naturale, trovano già la struttura pronta. Sto dicendo che alla fine la natura si ripete sempre, ci ritroviamo a ripetere dei programmi, come quello delle sinapsi, ciò che avviene a livello microscopico, cellulare: sistemi di spostamento di informazione da una parte all’altra.

Dopo questa mia immersione in un altrove – posso chiamarlo solo così – tornai a Roma e mi sembrò di rientrare dentro una crepa di un vecchio mobile, era tutto fermo. Poi cominciò ad arrivare Easy Rider, la beat generation, e io che l’avevo vissuta senza saperlo mi ritrovai in una specie di deja-vù, nalle letture e nei film dei successivi anni Settanta.

Dico tutto questo perchè quando nel 1976 cominciai a fare questi disegni, in un certo senso stavo creando un blog. Avevo assorbito quello che avevo vissuto in America, questo senso della comunicazione, della ipercomunicazione, e quindi quando cominciai a fare questi disegni, pensavo di fare una cosa che avesse come finalità la comunicazione e che quindi

scavalcasse quello che era il sistema dell’arte, cioè gallerie e musei, la carriera di un artista che fa delle cose perché poi siano esposte in mostra.

Riprodussi dentro di me e poi fuori di me quel meccanismo, inventai una specie di app, che era il Codex, e cioè la possibilità di usare un sistema, una rete, che ancora allora non esisteva, per far viaggiare le mie visioni, esattamente quello che facciamo oggi con un blog: trasmettiamo nello spazio le nostre pulsioni, i nostri piaceri, i nostri desideri. All’epoca non c’era la rete internet però c’era la rete editoriale, che era l’unica rete disponibile per questo tipo di operazione. Ho fatto tutto questo senza saperlo e penso queste cose a posteriori: una visione naturalmente falsata da quello che è successo dopo. Può darsi pure che tutto questo non corrisponda e che possano esserci altre spiegazioni.

codex seraphinianus

Alla ricerca di un editore

Tutti pensavano che fossi pazzo, e ancora oggi molti lo pensano. Stavo a disegnare giorni e giorni e giorni e mi chiedevano: ‘Ma cosa farai? Una mostra?’, invece io ero fissato che volevo cercare un editore, perché in quel momento era quello che mi permetteva di accedere alle rete, ed è stato difficile perché proporre ad un editore un libro scritto in una lingua che non era leggibile non era immediato. Insomma mi concentrai sulla ricerca di un editore finché per caso vidi in una vetrina di una libreria un libro pubblicato da Franco Maria Ricci: Il Bestiario di Zötl. Sarà stato il 1977. Ebbi una folgorazione e capii che quell’editore poteva essere abbastanza folle per questo mio progetto. Non sapevo nulla di lui, avevo solo una foto che avevo ritagliato da un giornale. Trovai l’indirizzo, andai a Milano e decisi di aspettarlo all’ingresso della casa editrice che all’epoca era un piccolo ufficio in via Santa Sofia. Mi appostai in macchina: il programma era stare lì tre ore ogni giorno con la foto sul cruscotto. Fui molto fortunato perché all’epoca Franco Maria Ricci stava spesso a Parigi e ci stava anche per un mese. Ma le cose succedono anche perché ci sono delle circostanze. Il secondo giorno dell’appostamento lo vidi, entrò dal portone, lo seguii e, scavalcando forse la segretaria, entrai nella stanza dove lui stava con un suo collaboratore, e dove c’era un grande tavolo pieno di ritagli di giornale e progetti di nuovi libri. Avevo con me una ventina di tavole del Codex, e le buttai sul tavolo senza dire niente. Fu un attentato! Franco Maria Ricci rimase immobile e silenzioso, mentre il suo collaboratore cominciò a dire che un libro così non si poteva pubblicare, per questo e per quell’altro motivo. Più questo parlava e più Ricci stava lì incuriosito. A un certo punto mi chiese dove mi sarei trovato il mese successivo e che avremmo potuto vederci, quindi gli diedi l’indirizzo di Roma e aspettai. Mi dimenticai anche di questo incontro. Poi invece mi telefonò e passò nel piccolo studio che avevo all’epoca. Così cominciò la storia che andò avanti per tanto tempo. Diciamo che c’è un nesso tra le strade della California, Milano e Franco Maria Ricci. E poi visto che le circostanze che producono gli eventi sono tante, forse infinite, c’è la presenza di Borges, importante per la nascita del Codex.

All’epoca Borges non godeva di una buona stampa in Italia perché rappresentava un tipo di letteratura visionaria quando invece il Sud America doveva essere tutto rivoluzionario e terzomondista. Se uno voleva scrivere qualcosa di diverso veniva subito catalogato come reazionario, finché poi non arrivò Marquez che sdoganò la fantasia. Cent’anni di solitudine permise a generazioni di riavvicinarsi a quell’epica che la letteratura sudamericana – in qualche modo collegata con i romanzi picareschi e con la letteratura fantastica del Seicento spagnolo – aveva sviluppato. Un filone che il Sud America ha conservato. Borges in quel momento venne incaricato da Franco Maria Ricci di costruire una collana che si chiamava “Biblioteca di Babele”, una scelta di Borges dei sui scrittori, di sue manie letterarie e quindi cominciò a frequentare Franco Maria Ricci venendo a Milano tre volte all’anno almeno e fu in una di quelle occasioni che gli strinsi la mano. L’influenza di Borges su Ricci fu evidente e forse gli permise di accettare un libro pazzo come il Codex che era un altrove borgesiano.

codex seraphinianus

L’approdo dell’alieno in libreria, l’accoglienza degli intellettuali

Volevo portare in libreria un libro che fosse in grado di rendere tutti analfabeti, e quindi tutti potenziali lettori: un libro che doveva creare una sorta di analfabetismo universale. Tutti stanno di fronte al Codex come dei bambini che devono imparare a leggere, che è una sensazione fra l’altro bellissima che tutti ricordiamo o che abbiamo visto con figli e nipoti. Quel momento magico dove non sapendo ancora leggere si imitano gli adulti, un momento fantasmagorico, fantasmatico, mitopoietico nel quale la fantasia si libera nell’imitazione degli adulti che leggono cose incomprensibili. Quindi dalle figure partono delle narrazioni. Sono cose che ho pensato a posteriori, non prima di fare i disegni. Ma comunque la mia fissazione era quella di portare un libro non leggibile all’interno dell’universo della lettura, creare una specie di alieno all’interno di una libreria e non dentro una galleria d’arte, dove magari sarebbe stato meno importante e dirompente, meno stimolante e anche meno divertente.

La storia editoriale di questo libro è curiosa perché si potrebbe usare come cartina al tornasole per capire tante cose. Al momento dell’uscita Franco Maria Ricci non godeva di una particolare platea perché la sua editoria, la riscoperta di un certo tipo di tipografia della tradizione italiana che era stata completamente dimenticata da Manuzio a Bodoni, non era proprio alla moda. Ricci era visto come un antiquario, bizzarro e dandy. Si era creato un’immagine un po’ alla Oscar Wilde.

Per dire: stampò l’Enciclopedia di Diderot, eccentrecità che all’epoca non passavano, e quindi anche il mio libro non ebbe subito una grande accoglienza. Però colpì persone che avevano già fatto un passaggio. Il primo che per contiguità si interessò al Codex fu Roland Barthes che conosceva Franco Maria Ricci per via di Parigi. Barthes fu informato del Codex e voleva scrivere lui un testo. Tra l’altro lui era anche appassionato di calligrafia, che praticava da dilettante. Poi sfortunatamente ebbe l’incidente mortale a Parigi: investito dal camioncino che portava il latte e rimase tre giorni alla Morgue senza essere riconosciuto perché era uscito senza documenti: i casi della vita. Quindi Calvino, che era anche lui nel cenacolo che si era formato tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta attorno a Franco Maria Ricci – e al quale partecipavano anche Umberto Eco, Borges, Barthes, Manganelli – scrisse questo testo sul Codex che fu poi inserito in una raccolta, Collezione di Sabbia, che Calvino curò: saggi su artisti, fotografi, personaggi eccentrici che avevano a che fare con le immagini. Calvino scelse per ogni autore o personaggio che descriveva una immagine e nella prima edizione Garzanti in copertina c’era un disegno del Codex, e precisamente quello dei pesci-occhi. Dunque il Codex passò prima per questo piccolo circolo ristretto e poi si diffuse pian piano in tutto il mondo, in seguito anche proprio grazie alla rete.

luigi serafini

Il mito originario

Penso che ogni cosa che facciamo, in ottica un po’ calviniana e borgesiana, è un possibile inizio, una traccia che poi magari si interrompe. Se la cosa continua, poi si cerca e si mitizza l’origine. Mitizzare l’origine è l’abitudine che tutti abbiamo dai tempi dei tempi. La storia nasce da questo bisogno mitopoietico, da questo bisogno di ricostruire le origini. Quello che penso sia veramente misterioso è come nascono i pensieri: prima non c’erano e un attimo dopo ci sono. Su questo nessuno ha dato una risposta e non penso sarà mai possibile averla. Mitizzare l’origine è una cosa che si fa sempre a posteriori, quindi in effetti non si sa se è una sorgente o un ‘a posteriori’, una ricostruzione. Sta di fatto che è una necessità. Io ho ricreato questo mito che non so neanche se sia vero o meno, ma mi piace pensarlo. Avevo semplicemente cominciato a fare i disegni con una scrittura molto simile a quella che poi diventerà quella ufficiale del Codex, che all’inizio era un po’ pasticciata e poi pian piano si è come distillata. Un giorno passa un amico che mi dice di uscire la sera, andare al cinema o qualcosa, e io ‘no, sto facendo un’enciclopedia’ e in quel momento mi si accende la lampadina. Non mi andava di uscire, non sapevo cosa rispondere, e detti questa risposta quasi inconsapevole, quindi quella giusta probabilmente. E così nacque in me l’idea che stavo facendo un’enciclopedia. Questo è il mito fondativo.

L’idea dell’enciclopedia, dell’elenco telefonico, sono forse cose innate. Penso che anche Socrate avesse l’idea dell’elenco telefonico anche se ancora non esistevano i telefoni. Sono cose che mentre le fai ti accorgi che vengono da strutture psichiche di cui non sei autore. Vai avanti da un concetto all’altro, parti dai batteri, poi pensi alle piante, poi ai pesci, il percorso è quello. Si creano delle forme leggermente paranoiche intorno a qualche cosa, un oggetto, un tema. Si chiudono tantissime finestre e se ne aprono delle altre e nascono come dire anche delle fissazioni, delle concentrazioni. A me affascinano molto le relazioni tra le cose. L’infinito, una cosa che noi facciamo finta che sia, magari, nel cielo, ma noi in ogni istante della nostra esistenza siamo all’interno di questa infinita possibilità di tutto. Tutto quello che ci circonda ci può rimandare a infinite altre cose. Viviamo al centro di una raggiera di possibilità. Se tu assumi questo come sistema ti rendi conto di essere in questa infinita tessitura borgesiana del reale. Non posso che citare poi Dalì e il suo metodo paranoico-critico. Quando lo intervistarono disse: non so cosa sia ma so che lo sto usando da quarant’anni e funziona benissimo. Queste due parole sono una specie di ossimoro. Mettere insieme paranoico con critico è mettere insieme due opposti; un elemento irrazionale e uno razionale, due elementi in contrasto. Ma dal contrasto nasce qualcosa!

Il lavoro sul Codex si è interrotto per ragioni economiche. A un certo punto l’editore mi ha detto di fermarmi perché all’epoca stampare a colori era molto costoso. Lavoravo al Codex con questa promessa di pubblicazione, poi quando è arrivato il contratto Ricci mi ha detto di fermarmi perché stamparlo poteva diventare impossibile. Era un motivo di natura tecnico-economica che oggi forse non esisterebbe. Altrimenti avrei potuto continuare per anni, all’infinito. Come in un racconto di Borges.

Il tempo allora e il tempo oggi

Oggi viviamo il tempo in maniera molto frammentata, all’epoca no. Intanto non c’erano i telefonini, e non c’erano tantissime maledizioni e benedizioni della nostra epoca. C’era poca televisione e il cinema aveva una funzione molto importante. Non c’era la rete, e come nel mio caso, la si desiderava, la si immaginava. Avevo venticinque-ventisei anni e c’era a disposizione una quantità di tempo veramente incredibile, quel tipo di tempo che hanno i bambini, ancora oggi forse, ma non sono sicuro perché non ho figli. Comincio ad avere dei dubbi perché vedo i figli degli amici che stanno sempre a smanettare, e forse sono già entrati anche loro in questa frammentazione del tempo. All’epoca c’era questo tempo molto dilatato. Io ho lavorato due anni e mezzo, il corrispettivo di dieci anni di oggi. Avevo delle giornate intere. Appunto un po’ come il tempo lungo dell’infanzia, che generava anche la noia, questa estensione incredibile di cui ho potuto godere per fare il Codex, una specie di nicchia temporale. Oggi se devo fare un disegno devo spegnere il computer, spegnere questo e quest’altro, cercare l’isolamento.

luigi serafini
Disegnare

Io ho sempre disegnato. Disegno da quando sono nato. Disegnavo prima di parlare. Forse si può dire un talento. Mi appassionavano molto gli animali quando ero piccolo, quindi ho disegnato tantissimi animali, li copiavo soprattutto. Veramente ero un po’ ossessionato dal disegno, al punto da preoccupare i miei genitori. Preferivo disegnare che parlare e quindi quando ho cominciato questo lavoro avevo una naturale abitudine al disegno.

Il consiglio che mi sento di dare ai giovani è semplicemente continuate a disegnare. Non c’è una soluzione: io ho sempre disegnato quindi a un certo punto questo disegno ha intercettato il Codex. è come parlare. Uno parla sempre tutta la vita, ma poi a un certo punto uno comincia a parlare meglio: il disegno è un flusso continuo.

Per quanto riguarda il mio lavoro di scultura, non c’è molta differenza dai disegni. In generale il disegno è sempre stato preparatorio di qualcos’altro soprattutto in Italia. Mentre in Germania e in Francia il disegno ha sempre avuto una sua autonomia. Piranesi infatti, grande disegnatore, fu apprezzato in Inghilterra. Alla Pinacoteca Ambrosiana c’è un meraviglioso cartone preparatorio della Scuola di Atene di Raffaello, in cui vedi la mano di Raffaello, e non dei suoi allievi. Ma nessuno lo va a vedere, perché nella nostra cultura il disegno è sempre stato ‘ancillare’, quindi come progetto per qualcosa d’altro. In altri paesi è diverso. Per esempio a Vienna c’è un museo dedicato esclusivamente al disegno. Poi penso a Dürer, grande incisore e disegnatore. Il suo famoso coniglio è proprio un disegno. Nel disegno c’è la possibilità di entrare nel microscopico e infatti nell’occhio del coniglio di Dürer c’è il riflesso di una finestra. La pittura invece necessita di una distanza diversa che non permette l’esplorazione del microscopico, il particolare diventa poco interessante ai fini dell’insieme.

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