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La sostenibile leggerezza della graphic novella

Ho letto Cry me a river (Coconino Press), il nuovo fumetto di Alice Socal – un’autrice piuttosto interessante – e non ho capito bene cosa ho letto. Non perché non abbia colto il suo spirito, mi sia sfuggito qualcosa della trama, o mi sia perso via in qualche lirismo un po’ ermetico. Quello che non ho capito è una questione che ha a che fare con l’esperienza di lettura del fumetto, e con la forma editoriale che la implica: ho letto un romanzo (a fumetti) o un racconto (a fumetti)? Un graphic novel, come recita la quarta di copertina, o una novella (una graphic novella, naturalmente)?

cry me a river alice socal

La questione, lo so, non suona molto sexy. «Un sofismo», dirà il mio troll preferito. Ma siccome ciascuno ha le ossessioni che si merita (o che si cerca), periodicamente inciampo nello stesso dilemma: quanto deve essere ‘lungo’ un fumetto per essere un graphic novel? Una domanda che, in realtà, ne nasconde un’altra: dove sta il confine tra romanzo (novel) e short story (novella), nel fumetto?

Per chi volesse liquidare il dibattito, la risposta tranchant in stile non-ho-tempo-da-perdere è semplice: «quel che conta è che sia un buon fumetto». Una autentica risposta a cinque stelle. Mi limito però a dire che per constatare la pertinenza della questione non dovrebbe servire molto tempo. Dovrebbero bastare una manciata di esempi dalla vita quotidiana. Eccoli: in genere, quando acquistate il DVD di un film, vi aspettate di guardare un lungometraggio; quando acquistate il CD di un album, vi attendete di ascoltare una raccolta di una dozzina di canzoni; in editoria i libri hanno formati assai diversi, ma in genere quando si acquista quella merceologia che chiamiamo “romanzo” ci si attende di leggere un’opera ‘lunga’. Ecco. Quando si acquista un “romanzo a fumetti”, ovvero un fumetto nella categoria merceologica nota come “graphic novel”, invece, le cose si complicano.

In Italia abbiamo ormai consolidato l’abitudine di etichettare, vendere, promuovere, discutere molti fumetti come graphic novel. Non mancano persino casi estremi di utilizzo di questo termine per descrivere oggetti difficilmente etichettabili in questo modo, come fumetti di sole due pagine (è il caso del supplemento LaLettura del Corriere). Tuttavia nel pure più ristretto – e pertinente – ambito dell’editoria libraria, la definizione di “romanzo a fumetti” ha sì a che vedere con la ‘lunghezza’ delle pagine, ma anche – e soprattutto – con un aspetto impossibile da misurare quantitativamente – tanto in minuti/brani (le canzoni) quanto in parole/pagine (romanzo) – come la densità. La densità testuale, in un fumetto, è data infatti dal rapporto tra pagine, disegni e (spesso) testi, e si tratta di una caratteristica dalle geometrie talmente variabili, peculiari di opera in opera, che categorie editoriali come romanzo fanno talvolta davvero fatica a funzionare. Eppure continuiamo a usarle.

Il graphic novel è fumetto lungo lungo (ma breve)

Nella storia infinita – antica, ma periodicamente rinnovata – che è il dibattito intorno alle peculiarità delle “forme brevi”, il fumetto ha da tempo detto la sua in maniera piuttosto originale. Forse persino confuso, o strampalato, almeno rispetto a quanto accade quando si parla di short stories in letteratura.

pandora

Il racconto breve, nelle riflessioni contemporanee sulla narrativa, riappare a volte come una sorpresa a volte come una rinascita, una specie di perenne fenomeno resiliente. La percezione più diffusa intorno al rapporto che il fumetto avrebbe con la “brevità”, invece, è che si tratti di un fenomeno ormai minoritario, di nicchia. Ai tempi del graphic novel di massa, quella del “fumetto breve” sembra ormai una formula residuale, che sopravvive al massimo nelle sedi editoriali più sperimentali, come le (poche) riviste periodiche (penso alla francese Pandora, di cui si è parlato poco o nulla in Italia), le antologie o le piccole produzioni della microeditoria indipendente (mi torna in mente una raccolta di Taddei e Angelini, indicativa persino nel titolo) o dell’universo del self-publishing. A mettere in crisi questa semplificazione ci sarebbe il vasto territorio del fumetto online. Ma è un argomento che vale solo in parte: molti webcomics si presentano ‘brevi’ solo nella distribuzione, ovvero nella frammentazione seriale dei loro ‘capitoli’, progettati tuttavia come un tutto narrativo, organico e consistente (e qui, fra i tanti esempi possibili, penso alla recente e ben progettata offerta di serie Wilder).

La realtà è che il fumetto è sempre stato una creatura (editoriale) un po’ selvatica, rispetto alla canonica dialettica tra breve e lungo, e quindi anche tra racconto e romanzo. Come ho provato a spiegare al convegno bolognese Bande à Part del 2015 (e nel libro che lo ha seguito), il fumetto si è comportato storicamente all’opposto di ciò che facevano gli altri media narrativi: nell’Ottocento, “età del romanzo” per antonomasia, fu un medium per lo più di onepagers, sui più diversi periodici illustrati fino alle Sunday pages sui quotidiani; nella parte centrale del Novecento, ovvero in piena età dell’oro del lungometraggio, fu soprattutto il regno delle strisce prima e degli albetti poi; nell’epoca snack della tv, dei videoclip e poi del web – sorpresa! – si è invece ripresentato come alfiere della “lunghezza”, grazie al cambio di paradigma che ha costituito il fenomeno graphic novel. Un medium bastiancontrario, insomma.

Sebbene la sua nuova condizione – il Fumetto inteso sempre più spesso come Graphic Novel – sia oggi dunque quella di una forma espressiva sempre più tipicamente “lunga” in un contesto di contenuti sempre più frammentari ed effimeri, le similitudini con il passato funzionano non bastano a spiegare tutto. Il graphic novel, infatti, non è un fenomeno del tutto paragonabile a ciò che rappresentò il “film lungo” per il cinema negli anni Venti del Novecento. Il graphic novel è sì una mutazione storica simile a quella del lungometraggio, nella misura in cui il supporto, ovvero il contenitore editoriale, si è standardizzato nel “formato libro”, più lungo di un tradizionale “albo” (o di un comic book, o di un album francobelga, o di un pocket, o di un albo-striscia…), ma solo in parte. Già, perché il lungometraggio si misura in minuti (e la pellicola si misurava in metri), mentre per misurare un graphic novel le pagine contano sì e no (valga ad esempio una provocazione tipica dei “bonelliani di ferro”: «un episodio di Tex Willer ha le stesse pagine di tanti graphic novel: perché non chiamarlo GN?». Il titolo del prossimo Dylan Dog sembra peraltro rinnovare la diatriba alla perfezione) e la durata è quanto mai aleatoria, in funzione di quella densità di cui si diceva (la durata di film o album musicali è una proprietà testuale, quella di romanzi o fumetti è un effetto fruitivo). [Disclaimer: qui non serve Scott McCloud].

cry me a river alice socal coconino
Una tavola di “Cry me a river”

E torniamo a Cry me a river. Un fumetto che mette in scena una giovane coppia, alle prese con una crisi sentimentale ed esistenziale che la Socal affronta in parte con procedure narrative e in con modalità poetiche, fatte di ellissi, associazioni visive, sintesi e astrazioni grafiche. Da un lato racconta le giornate dei due, gli scambi di messaggi via telefono, gli incontri con amici, la cura dei cagnolino domestico, la progressione delle conversazioni con le quali i due comunicano l’andamento della propria relazione. Dall’altro rappresenta corpi dai volti ‘vuoti’, appena accennati da infantili lineette, che oscillano verso maschere enigmatiche, rivoli d’acqua pervasivi e oggetti le cui forme fluttuano, transitando dai dettagli insignificanti verso pure matasse grafiche astratte.

Nel leggere il libro si capisce abbastanza presto che la trama conta e non conta, e anzi c’è e non c’è. La storia di una relazione diventa, di fatto, la rappresentazione allegorica di uno stato emotivo – la disperazione, chagrin d’amour – e la stessa presenza del pianto ha una centralità tale da diventare una ossessione grafica, più che uno degli elementi del racconto. Una metafora dichiarata: Cry me a river è un fumetto sulle suggestioni di una canzone, la celebre hit di Justin Timberlake che nel 2002 scalò le classifiche di mezzo mondo lasciando un segno negli immaginari di tanti ragazzi, fra cui la Socal. Un fumetto che è perciò una variazione grafico-melodica, quasi una “traduzione” visiva del ricco riverbero di immagini, parole, forme, emozioni che l’autrice ha trovato nella sua fonte. Nella dedica l’autrice segnala il suo tributo alla canzone:«sono dovuti trascorrere 15 anni perché fossi pronta a capirla ed amarla». Un po’ racconto e un po’ poesia, dunque; una “canzone disegnata”, forse.

Il libro della Socal non può dunque essere letto come un “romanzo”, eppure è quasi impossibile non farlo, se continuiamo a ritenerlo un (graphic) novel. Ovvero: è quasi impossibile illudersi di entrare in un mondo romanzesco, in una “opera mondo” quale il romanzo ci ha abituato – da due secoli – a partecipare; e al contempo è quasi impossibile non vivere come romanzo – magari “romanzo breve”, ok – un prodotto editoriale in “formato romanzo” e di oltre 130 pagine. Chiamiamolo dunque con il suo nome più consono: una graphic novella.

Aspettative e giudizi

Al di là della pura e semplice problematizzazione dell’idea di “graphic novel” che questi paradossi ci costringono ad affrontare, penso che ci sia anche dell’altro su cui vale la pena riflettere. Ovvero i riflessi che si riverberano sull’esperienza di chi legge, che sia un consumatore il cui obiettivo è il piacere della lettura, o che sia un critico-analista il cui scopo è l’analisi. Il disallineamento tra forma produttiva – è un graphic novel – ed esperienza di lettura – è una graphic novella – contiene in sé, infatti, il rischio di una crisi del rapporto fra le aspettative e la concreta esperienza di fruizione.

Se come consumatore mi aspetto di leggere un graphic novel, ma quel che ottengo è un racconto o una poesia, siamo certi che “non cambi nulla” (vedi sopra: «quel che conta è che sia un buon fumetto»)? Sarò soddisfatto allo stesso modo o prevarranno altre considerazioni, da quella sulla densità dell’esperienza (“troppo poco”) al quella sul rapporto costi/benefici (“troppo caro”)? E se come critico valuterò l’opera come un graphic novel, nonostante la sua tensione alla brevità, tenderò a privilegiare – con inevitabile enfasi – il ‘poco’ romanzesco che contiene, o invece ribalterò la prospettiva valutando la pura dimensione suggestiva della novella, magari al prezzo di suonare estetizzante (enfatico) rispetto all’architrave narrativa? Insomma: se non è un vero e proprio romanzo, come fare ad apprezzarlo (o disprezzarlo) per ciò che è, e non per ciò che l’aspettativa di leggere un “romanzo” mi porterà inevitabilmente a maturare?

Dal mio punto di vista penso che sciogliere questa ambiguità tra novel e novella sia – mi ripeto – quasi impossibile.

Forse qualcosa accadrà. Penso infatti che un’azione editoriale sempre più consapevole, nei prossimi anni, aiuterà a calibrare meglio la percezione del fumetto come espressione cui appartengono sia forme romanzesche che forme brevi, racconti o poesie (graphic poetry, secondo un’altra e precisa etichetta ormai in voga, sebbene meno felice della consolidata graphic journalism) che siano. Il recente Piccoli furti di Michael Cho, ad esempio, è stato saggiamente proposto da Rizzoli Lizard in un formato ridotto (15×21) rispetto al canonico e “letterario” 17×24 (o giù di lì), dominante nel mercato del graphic novel, e presentato in quarta di copertina come “racconto”, quale in effetti è.

piccoli furti michael cho lizard

In quel *quasi* che dicevo, tuttavia, si nasconde un bel gorgo di questioni. Perché nel fumetto a costruire una “opera-mondo” non c’è solo la narrazione. C’è anche il disegno. E allora se lo sguardo è portato a spendere minuti, ore a navigare quegli spazi e quei segni, è quasi impossibile non partecipare a un universo simbolico che un qualche tuffo in profondità (romanzesche?) lo offre, eccome. Nel caso della Socal, i volti enigmatici dei personaggi ci chiedono di osservarli per capire qualcosa che non è chiaro. Mancano di dettagli, eppure esprimono azioni e stati emotivi – «un’indefinitezza che ha qualcosa dell’infinito», ha scritto Francesco Boille su Internazionale. Una proprietà che viene dal segno, non dalla narrazione, e che dunque prescinde da qualsivoglia attributo ‘letterario’, romanzesco o meno che sia il progetto.

Il libro di Alice Socal mi sembra allora un esempio – non il solo possibile, ci mancherebbe – di come la percezione intorno al graphic novel stia diventando, ormai, un orizzonte di aspettative che rischiano di generare spiazzamento, sia nel senso della sorpresa che in quello della delusione. Ma il disallineamento tra prodotto ed esperienza, in fondo, è una condizione ben nota al pubblico del fumetto. Da quasi due secoli. Aspettarsi di leggere “robetta”, e invece trovarsi per le mani un oggetto – lungo o breve, grande o piccolo – di enorme potenza espressiva. Una potenza misurabile a volte con gli strumenti della comprensione letteraria e narrativa, altre volte con altri set: quelli dell’arte figurativa, ma anche astratta, o della musica (come ama insistere Chris Ware).

Insomma, ho letto Cry me a river (Coconino Press), il nuovo fumetto di Alice Socal e non ho capito bene cosa ho letto. Ma ho capito che il futuro del fumetto ci continuerà a riservare nuovi, ripetuti tradimenti delle aspettative: attendersi romanzi, e trovarsi di fronte – belle o brutte che siano – novelle. O poesie.

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