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RecensioniClassicKim Deitch. "The Boulevard of Broken Dreams"

Kim Deitch. “The Boulevard of Broken Dreams”

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su bambinietopi.it.

È probabile che il nome di Kim Deitch suoni poco familiare non solo alla gran parte dei lettori italiani di fumetti, ma anche a non pochi specialisti del settore. Autore legato fin dalla fine degli anni Sessanta alla scena underground statunitense, Deitch non ha conosciuto nemmeno in minima parte il successo di pubblico internazionale di colleghi come Art Spiegelman o Robert Crumb. Anche negli Stati Uniti, benché negli ultimi due decenni sia stato protagonista di un notevole rilancio editoriale a opera della Fantagraphics e abbia ricevuto importanti riconoscimenti (dall’Eisner Award nel 2003 all’Inkpot Award e all’esposizione al MoCCA di New York nel 2008), la sua fama resta tuttora limitata a un ristretto gruppo di appassionati che lo considerano «uno dei più grandi fumettisti di sempre» (Jim Woodring) e «il segreto meglio custodito nel mondo del fumetto d’avanguardia» (Art Spiegelman).

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Kim Deitch | Foto di Seth Kushner, via Graphic NYC

Figlio di Gene Deitch, storico animatore degli studios U.P.A. e Terrytoons, Kim ricorda di aver conosciuto da bambino, tra i colleghi del padre, alcuni anziani disegnatori che negli anni Venti avevano lavorato alle mitiche Aesop’s Fables di Paul Terry, ancora trasmesse in TV negli anni Cinquanta, e di aver cominciato in quel periodo a sviluppare una particolare fascinazione per i vecchi cartoni animati dell’età del cinema muto e i protagonisti di un’epoca che già allora – a partire dal confronto coi nuovi cartoni animati moderni a colori e gli eroi di una diversa industria cinematografica – gli si mostrava avvolta in un’aura quasi irreale, da una distanza che è propria del sogno, della nostalgia e dell’allucinazione.

Per una costante tipica della sua intera opera, rielaborando tali circostanze autobiografiche e suggestioni storiche nel contesto di un universo immaginario, Kim Deitch creò il suo personaggio più celebre e iconico – ovvero il gatto Waldo, la cui prima apparizione risale al 1969 – a immagine e somiglianza di un archetipo felino onnipresente nei cartoni animati degli anni Venti.

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Il gatto nero antropomorfo, stilizzato e dalle orecchie a punta rispondeva a quel tempo a diversi nomi (dal Felix di Pat Sullivan e Otto Messmer al Krazy Kat tratto dalle strisce a fumetti di George Herriman, senza dimenticare il Julius delle Alice Comedies di Walt Disney e il gatto Henry di Paul Terry), ma era espressione di una profonda convergenza di intenti e fantasie la cui natura mimetica, benché in certi casi sospetta, non può essere ridotta in sé e per sé alla casistica del plagio. La ripresa straniata del genere funny animals nel mondo del fumetto underground, in cui Deitch esordì decenni più tardi, diede origine a un fenomeno altrettanto caratteristico e trasversale, che trovò la sua figura di spicco in Fritz the Cat di Robert Crumb.

Se la vita di Fritz è racchiusa in un breve arco temporale che va dal 1965 al 1972, la storia di Waldo si articola lungo molti decenni ed è per la sua complessa evoluzione rapsodica prova di un’ispirazione sostanzialmente diversa e di più ampio respiro, al di là delle superficiali analogie genetiche. Mentre da un lato Crumb, con Fritz the Cat, ha creato un universo interamente popolato da funny animals assunti come trasposizioni satiriche di un mondo rappresentato nei suoi aspetti più grotteschi e indecenti, la cifra caratteristica delle storie di Deitch è il costante intreccio di tale ambito dell’immaginario coi molteplici livelli di realtà – fattuale, fantastica, onirica, psichica, allucinatoria, mistica ecc. – che di volta in volta vi interagiscono, nel quadro di una narrazione ulteriormente complicata dalla commistione di piani temporali, punti di vista e riferimenti extradiegetici.

Uno snodo decisivo per la definizione della poetica di Deitch risale ai primi anni Novanta, quando l’autore cominciò a utilizzare come soggetto della propria opera, e non più soltanto come spunto di una generica ispirazione figurativa, la storia delle origini del cinema di animazione e della cultura popolare statunitense della prima metà del XX secolo, avviando un discorso al contempo romanzesco, evocativo e metariflessivo che avrebbe poi sviluppato in varie direzioni attraverso tutti i suoi lavori seguenti.

Nel 1991, grazie all’aiuto del fratello Simon che collaborò alla sceneggiatura, Deitch pubblicò sulla rivista Raw di Art Spiegelman il primo tassello di questo progetto, destinato a diventare anche la sua storia più emblematica: The Boulevard of Broken Dreams, poi riproposta in volume in un trittico assieme a The Mishkin File (1993) e Waldo World (1994) nell’omonima opera edita da Pantheon Books nel 2002, definita dal Time come uno dei dieci migliori graphic novels in lingua inglese di sempre.

kim deitch boulevard of broken dreams

L’espediente metanarrativo introdotto nel prologo al volume, un breve testo accompagnato da immagini intitolato The Glowing Belly of the Little Beast (1992), mette in relazione la storia di Waldo con la carriera fumettistica di Deitch e le sue memorie d’infanzia. In una surreale rivisitazione dei ricordi legati al padre e ai suoi colleghi di lavoro, Deitch rammenta di aver conosciuto un ragazzo di nome Nathan, nipote di uno storico disegnatore chiamato Ted Mishkin che sul finire degli anni Venti aveva ideato Waldo, star dei cartoni animati prodotti dallo studio di animazione Fontaine. Deitch racconta poi di aver trovato nello scantinato di casa Mishkin tracce che gettavano una luce sinistra sulla genesi del personaggio, e di avere infine sperimentato una bizzarra visione in cui Waldo compariva al centro di un microcosmo affollato da centinaia di altre figure cartoonesche. Le stesse storie di Deitch aventi come protagonista Waldo, suggerisce l’epilogo, nascerebbero come decenni prima per Ted Mishkin in uno stato di ispirazione simile a una possessione demoniaca, dettate all’autore incosciente dall’umanoide creatura felina.

Il processo di commistione tra realtà e finzione e tra diversi piani temporali si innesta poi nella prima storia del volume, The Boulevard of Broken Dreams, sulla ripresa di un episodio realmente accaduto, che ha fornito a Deitch l’idea germinale dell’intero racconto. Nel 1927, l’intraprendente Max Fleischer – figura di spicco della nuova industria statunitense dei cartoni animati, inventore del rotoscopio e fondatore degli studios Fleischer – organizzò una cena in onore di Winsor McCay, maestro ormai quasi sessantenne e da anni ritiratosi dalla scena cinematografica. McCay, a quanto si narra, riservò ai giovani colleghi un breve e amaro discorso: «L’animazione dovrebbe essere un’arte, ed è così che io l’ho concepita. Ma a quanto vedo ciò che voi ragazzi avete fatto è trasformarla in un commercio – non un’arte, ma un commercio. Maledizione».

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Nella rivisitazione di Deitch, mediante significative scelte onomastiche, Max Fleischer diventa Fred Fontaine e McCay Winsor Newton, mentre l’emblematico discorso di quest’ultimo assume toni ben più rabbiosi. A risaltare è in ogni caso il senso di una rottura e di un tradimento, laddove i due personaggi incarnano la transizione da un’età di sperimentazioni ormai superata, nella quale la fortuna del nuovo medium derivava dall’estro e dal lavoro artigianale di singole figure di pionieri e si legava all’ambito spettacolare del vaudeville e del cinema in live action, a un’età di consolidamento produttivo che con l’incalzare dei progressi tecnici ha visto il ruolo del singolo artista di genio soppiantato da un’organizzazione del lavoro ricalcata sul modello industriale della catena di montaggio.

È possibile leggere The Boulevard of Broken Dreams come una ricostruzione selettiva ma fedele, o perlomeno orientata a un principio di fedeltà sostanziale, della parabola evolutiva che ha interessato la storia del cinema di animazione nel corso del XX secolo. A seguito della cena in onore di Newton, un secondo momento cruciale di questa storia ha luogo nel 1933, quando per ragioni di opportunità commerciale Fred Fontaine incarica un ex animatore della Disney (Jack Schick) e la sua più abile disegnatrice (Lillian Freer) di rivoluzionare l’aspetto grafico e la struttura narrativa della serie di Waldo creata da Ted Mishkin nel 1927, introducendovi anche i colori per riconquistare l’attrattiva sul grande pubblico e stare al passo con le moderne produzioni in Technicolor.

Il nuovo Waldo, irriconoscibile rispetto alla creatura dispettosa e irriverente dei più antichi cartoni in bianco e nero, diventa così un cucciolo neotenico dagli occhi grandi e dal carattere infantile, riadattato secondo i canoni di un’estetica di chiara derivazione disneyana e reso protagonista di una serie di fiabe melodrammatiche dai marcati risvolti moraleggianti e sentimentali. «Those shits are turning me into a fuckin’ pansy!» sbotta Waldo alla proiezione del primo corto della nuova serie, mentre Ted cerca di annegare la delusione nell’alcool. Per l’animatore, abituato a convivere con Waldo fin quando da bambino iniziò a vedere accanto a sé la creatura – invisibile a tutti gli altri – e poi durante la sua carriera, che proprio grazie a Waldo decollò in breve tempo, lo choc coincide con una vera e propria crisi esistenziale, ulteriormente acuita da vicende private relative al suo amore inconfessato per Lillian e al rapporto conflittuale col fratello Al Mishkin, supervisore presso lo studio Fontaine.

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Le vicissitudini seguenti, narrate in The Mishkin File e Waldo World in un andirivieni temporale i cui estremi cronologici si fanno via via sempre più dilatati, compendiano quasi un secolo di storia dell’industria dell’animazione delineandone i principali cambiamenti: al di là dell’era delle grandi tournée di inizio ‘900 e poi dell’avvento del sonoro, del Technicolor e della “disneyficazione” del settore, si passa dagli anni Quaranta che vedono il successo dei cartoni animati legarsi a doppio filo a quello dei comic books e al loro immaginario supereroico, ai primi ambiziosi progetti di parchi a tema degli anni Cinquanta, fino ai negozi di gadget nei centri commerciali degli anni Novanta – scenario nel quale la parabola discendente evocata da Winsor Newton sembra trovare il suo definitivo compimento nel contesto di un’industria consumistica massificata.

Se per gli appassionati del tema un ulteriore motivo di interesse consiste nella possibilità di confrontare in molti personaggi, situazioni e dettagli le reali fonti di ispirazione e il conseguente esito della trasposizione di Deitch (che nel caso dello studio Fontaine mescola ad esempio suggestioni derivanti dagli studios di Max Fleischer, Paul Terry e Amedee J. Van Beuren), ciò che garantisce più in generale l’efficacia narrativa della storia è la scelta di un punto di vista mobile e capace di rendere conto dell’esperienza privata dei singoli protagonisti da un’inedita prospettiva “dietro alle quinte”.

Seguendo l’evoluzione di un fenomeno industriale, in altre parole, Deitch ha voluto portarne alla luce le radici e le ripercussioni attraverso il richiamo – cui allude lo stesso titolo dell’opera – a un complesso di emozioni, sogni, delusioni e fallimenti che ne costituiscono il sostrato umano più intimo, e che consentono perciò di considerare The Boulevard of Broken Dreams una sincera riflessione sul senso della creazione artistica.

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Soffermandosi sull’analisi del più antico cartone animato di Waldo, e poi dei murales che Ted dipinge a scopo terapeutico durante il suo soggiorno in un sanatorio successivo al licenziamento dallo studio Fontaine, le cartelle cliniche dello psichiatra che ha in cura l’artista cercano di definire, in The Mishkin File, il significato psichico che la creatura riveste per l’uomo come presunta manifestazione ossessiva e allucinatoria di pulsioni distruttive, o ancora di indagare i ricordi felici della sua infanzia connessi alla figura dell’ormai defunto Winsor Newton.

Il lettore scoprirà i limiti di questo processo ermeneutico, ma anche il fascino seducente di alcuni singoli frammenti di memoria che sollecitano un tipo di fruizione diversa, sospingendolo dal ruolo di interprete verso quello di spettatore, o per meglio dire di voyeur: una sessione di registrazione del sonoro agli studios Fontaine per l’ultimo cartone animato in bianco e nero di Waldo, creato nel 1933 da Ted Mishkin in coppia con Lillian Freer; uno spettacolo di Winsor Newton che nel 1916 ispirò a entrambi il desiderio di diventare animatori; la prima visita di Ted bambino allo studio di Newton… Salvati all’oblio, sono questi i momenti in cui la macchina narrativa di Deitch, sospendendo il racconto dei fatti e trasformandosi in puro fenomeno di incantamento visivo, pare restituire sulla pagina il flusso di un tempo diverso, interiorizzato in una continua ripetizione di immagini senza parole, o accompagnate da un sottofondo essenziale di musica e canto.

Nell’epilogo della storia, ormai anziani, Ted e Lillian rivedono un antico cartone animato di Waldo nel quale gli stessi disegnatori compaiono sotto forma di animali antropomorfi in uno studio di animazione. Il gioco metanarrativo, accentuato dal fatto che lo stesso Waldo assiste con loro alla proiezione e che lo stesso cartone è apparso in precedenza in una scena ambientata molti decenni prima, è reso a livello grafico da una particolare composizione delle tavole che richiama alla mente l’effetto di una moviola e quello di un caleidoscopio. Funzionale non solo alla confusione tra il piano del reale e quello dell’immaginario, ma anche alla graduale espansione del secondo a scapito del primo, la sequenza fornisce probabilmente l’esempio più suggestivo dell’inebriante senso di disorientamento caratteristico del linguaggio visivo di Deitch. Lillian e Ted, che paiono addormentati, stanno forse sognando di vivere la stessa scena immortalata sulla vecchia pellicola, una sorta di mise en abyme dell’intera opera, mentre Waldo ne pronuncia l’ultima battuta con l’abituale tono beffardo, contemplandosi sullo schermo dove campeggia la scritta “The End”.

The Boulevard of Broken Dreams
di Kim Deitch
Pantheon Books
160 pagine, b&n – 21 $

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